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diretto da Romano Luperini

Masqueofthereddeath Clarke

La scuola ai tempi del Covid-19 /8

 

 In questi giorni così strani per il Paese e la scuola, la nostra redazione sta ricevendo alcune testimonianze da colleghi di diverse parti d’Italia su diversi temi, tutti però ugualmente sollecitati dall’epidemia in corso. Abbiamo perciò deciso di pubblicarne alcuni.

La peste rossa di Poe

 In questi giorni di auto-isolamento, di difesa estrema dal contagio, vengono scomodati vari luoghi letterari per vedere se raccapezziamo qualcosa da una crisi che scuote alle radici la cultura umana e quella occidentale in particolare. Cerchiamo nelle pagine del Decamerone di Boccaccio, de La peste di Camus o in Cecità di Saramago, di cui ha parlato da queste pagine Romano Luperini, una risposta alla domanda inquietante di questa infinitesimale catena di proteine e acidi nucleici auto-replicante, che mette un freno all’arrogante occupazione umana del pianeta. Poco citato è il breve racconto, particolarmente orrifico, di Edgar Allan Poe, La maschera della morte rossa, di cui vorrei parlare qui.

Poe è un notissimo autore americano, maestro del genere horror, affascinato dalle situazioni estreme e dalle atmosfere gotiche. Egli ha prodotto nel 1842 questo piccolo gioiello classico, replicato in una serie di film in varie epoche.

In un paese imprecisato infuria una epidemia terribile, il cui contagio sembra incontrollabile. Il morbo viene definito “la morte rossa”, in evidente assonanza con la “morte nera”, con cui veniva indicata la peste bubbonica per il colore nero-violaceo delle sue lesioni. “Il suo emblema era il sangue — il rossore e l’orridezza del sangue. Cominciava coi dolori acuti, una vertigine improvvisa e poi una stillazione abbondante attraverso ai pori, la dissoluzione dell’organismo. Delle macchie rosse sul corpo e specialmente sul viso della vittima”[1]. La macchia rossa sul volto è particolarmente orripilante (l’ho potuto sperimentare personalmente in una persona, che usava questo “trucco” delle palpebre con il mercurocromo per spaventare gli altri). Il principe Prospero (si noti il nome opposto al terrore di quanto accade nel suo paese) decide di barricarsi in una delle sue “abbazie fortificate” (non un castello come si trova nelle versioni popolari), circondandosi di una corte di mille amici e belle dame. C’è un evidente richiamo religioso volto ad aumentare l’atmosfera di mistero. Prospero pensa di lasciare la morte rossa fuori delle “porte di ferro”, saldando i catenacci. È un “claustrum”, un luogo separato,  come quello della villa sui colli fiorentini del Decamerone, o il manicomio di Cecità, cioè una difesa impossibile dal nemico, dal contagio, dalla follia, dall’irrazionale, l’altra faccia, il peggio per la civiltà occidentale.

 

Mentre fuori l’epidemia infuria, Prospero pensa di allietare i suoi ospiti organizzando una festa in maschera, che si snoda in sette stanze di vari colori vivaci (progressivamente azzurra, rossa, verde, arancione violetta), che culminano in una stanza rivestita di velluto nero, in cui troneggia un pendolo di ebano, che con il suo rintocco di ora in ora ricorda ai partecipanti lo scorrere inesorabile del tempo. “La camera nera, la luce del braciere che si spandeva sotto le tende nere attraverso ai vetri sanguigni era spaventevolmente sinistra”. Anche in questo il riferimento simbolico è alla logica implacabile del tempo che conduce inevitabilmente alla morte. Prospero vuol distogliere se stesso e i propri ospiti dai pensieri tristi. Nella brevità del testo non abbiamo molti particolari, ma almeno in due passaggi veniamo a sapere la natura evocativamente erotica della festa: “era una gaia e magnifica orgia”, “c’era del bello, del licenzioso e del bizzarro in quantità; dell’orrido, ma poco”. L’estremo esorcismo posto a difesa impossibile dalla morte, che nel baccanale orgiastico tenta di negare disperatamente che la vita contiene in sé la morte. Il racconto volge repentinamente alla fine: mentre il pendolo rintocca i dodici colpi della mezzanotte, richiamando con la lunghezza del suono gli allegri convitati a più penosi pensieri, compare una maschera, che nessuno ha invitato. “La maschera era arrivata fino a prendere il tipo della Morte Rossa. Il vestito era chiazzato di sangue e la sua larga fronte come del resto tutta la faccia erano cosparsi di quel terribile color scarlatto”. La faccia è quella di un cadavere. Prospero urla più volte “Chi osa ?” e esorta i suoi invitati a fermare la maschera e a uccidere il guastafeste. Nessuno si muove fino a che la maschera giunge alla settima stanza, quella nera. Il principe rimasto bloccato si vergogna della vigliaccheria, che lo ha paralizzato e corre armato di pugnale a fronteggiare chi osa provocare. Quando raggiunge la maschera della morte rossa, questa si rivolge verso di lui e Prospero lascia cadere il pugnale e si abbatte fulminato ai suoi piedi. Dunque è vana, impotente ogni dimostrazione fallica. “Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione, una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava nessuna forma tangibile”. Essi si trovano di fronte ad una cosa ben più terribile della pestilenza: il vuoto senza nome della morte.

In questi giorni un noto psicoanalista in una intervista è stato spinto ad utilizzare la metafora della morte rossa per indicare le movide, chiuse dalle ordinanze delle autorità per fronteggiare il contagio: “I giovani sono stati da anni abbandonati all’eccitazione come modo antidepressivo di vivere, alla precarietà del futuro e al bisogno di distrazione. Come fa una parte di loro a essere consapevole e responsabile quando sono stati spinti nella direzione opposta? La negazione è stata la loro unica possibilità contro la sottrazione del loro avvenire. Eppure i giovani possono essere la nostra risorsa più importante se parallelamente al contenimento del contagio, che non può affidarsi al coprifuoco oltre un limite, ci preparassimo a fronteggiare al meglio possibile la malattia stessa.” (Bollorino, Dialogo con Sarantis Thanopulos, in Psychiatry online Italia, 12/3/2020). Lo psicoanalista non si chiede quale sia la malattia, quella che il virus evidenzia, che rode l’intera civiltà occidentale, che rischia di perire priva di senso. Viceversa penso che la metafora continuata di questo racconto, l’allegoria intessuta di simboli di Poe, che era esperto nell’oblio alcolico e di vario tipo, sia rivolta a tutti gli umani, che trascorrono la loro vita dalle stanze multicolori fino a quella tetra finale della vecchiaia, della malattia e della morte senza pensare mai a sufficienza al proprio destino caduco, che li travolge senza colpo ferire in un rapido torno di tempo.

[1] Le citazioni sono riprese dall’edizione Bemporad (Firenze, 1911) nella traduzione di G. A. Sartini, facilmente reperibile on line

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