La letteratura al tempo del coronavirus. I classici da rileggere a scuola (e non solo). Antigone di Sofocle, un frammento.
1 – Quando, si spera, tutto questo – l’ansia collettiva, la reclusione forzata, i malati, i morti – sarà superato, e un certo equilibrio sociale, o per lo meno la nota routine, sarà ripristinato, dobbiamo darci da fare perché la caciara e la volgarità, l’ignoranza e il bullismo intellettuale non riprendano con le macchine a tutta forza. Qualche utilità può, deve, averla la scuola, la didattica, in genere la trasmissione del sapere ma anche, vorrei dire soprattutto, dell’esperienza umana. Qui ci troviamo in uno spazio frequentato e praticato dai cultori della letteratura. Permettetemi dunque di suggerire, a docenti e studenti, la lettura attualizzata e attualizzante, anche con qualche forzatura e con qualche rozzezza, di uno o più classici. La mia proposta è quella di un celebre coro di anziani di Tebe, che compare ad apertura del secondo Atto (chiamiamolo così, per comodità) nella Antigone di Sofocle (442 a. C.), primo anello della catena comunemente denominata ciclo tebano, che vede più avanti, nel corso di vari decenni, apparire Edipo Re e Edipo a Colono.
La proposta, s’intende, non è rivolta ai soli docenti di greco antico e in genere dei licei (che potranno naturalmente lavorarci con maggiori strumenti), ma a tutti i docenti di lettere dei cicli superiori. Si tratta infatti di un patrimonio comune dell’umanità, almeno di quella occidentale che tutti, bene o male, conosciamo e della quale siamo, oggi, gli estremi eredi. Infatti non sono un classicista, il mio greco è talmente arrugginito da produrre solo stridii, ma sono portatore di una esperienza che va oltre le letture e gli studi. Una ventina di anni fa mi capitò improvvisamente di dover insegnare, presso l’Università di Catania, Letterature Comparate, per sopperire a certe esigenze di curriculum didattico del mio corso di studi, e, nella confusione in cui ero caduto, ritenni di poter arginare le mie incompetenze riattivando nella memoria l’impressione che mi aveva fatto l’aver assistito, negli anni Settanta o nei primi Ottanta, alla rappresentazione della tragedia nella versione del Living Theater (che avevo visto in uno scalcinata ma stimolante sala da teatro catanese: perché anche questo poteva accadere in quegli anni, che il Living Theater rappresentasse a Catania); ripensando alle scene bellissime dei film di Margarethe von Trotta, Anni di piombo e Sorelle; e, infine, approfittando della disponibilità di due volumi; il primo, Le Antigoni di George Steiner (Garzanti), il secondo, un’edizione trilingue della tragedia di Sofocle comprendente, oltre al testo greco, una traduzione/rifacimento di Friedrich Hölderlin, un adattamento/reinterpretazione di Brecht dallo stesso Hölderlin, e inoltre, le traduzioni italiane, rispettivamente di Giuseppina Lombardo Radice (dal greco) e di Mario Carpitella (da Brecht), con saggi dello stesso Steiner e di Roberto Fertonani, un’edizione bellissima proposta nel 1996 da Einaudi nella breve serie trilingue diretta da Valerio Magrelli (do queste indicazioni nell’eventualità che qualcuno possa e voglia approfittare di queste edizioni).
Per ritornare alla mia esperienza didattica, debbo dire innanzi tutto che essa mi ha impegnato a fondo come lettore e studioso, sebbene di complemento. Ma soprattutto che ha avuto un notevole e positivo effetto sul risicato manipolo di studentesse e studenti con cui ho lungamente avuto a che fare, leggendo passo passo le tre Antigoni e trascurando, di fatto, il resto del programma istituzionale.
Dell’Antigone sofoclea si parla e si è parlato tanto, nei secoli e nei millenni, che veramente non ho nulla da aggiungere. L’identificazione totale del Bene in Antigone (che si sacrifica in nome dell’amore per il fratello e per l’integrità umana, e che segue la legge del cuore) e del Male in Creonte (burocratico esecutore della legge da lui stesso fissata) mi pare, tuttavia, molto “romantica”. Creonte è, fra l’altro, il personaggio che pronuncia, poco prima del Coro dei vecchi tebani, un memorabile monologo contro il denaro, anzi contro la moneta (nómisma), forse il primo che sia stato pronunciato nella cultura occidentale, e certo ispiratore di qualche riflessione in Marx. L’indicazione che mi permetto di dare, adesso, a proposito del passo che propongo, è che in esso si affronta un tema che il coronavirus rivela nella sua pienezza, oggi: ossia quello della fuoriuscita dell’homo sapiens (forse un po’ insipiente, a dire il vero), dall’ordine naturale: fino alle follie planetarie del capitalismo globalizzato, che ha necessità di divorare natura ed esseri umani, cui tutti corriamo dietro coi nostri comportamenti. Naturalmente si tratta di un tema di enorme portata culturale, non riconducibile alla semplice sensibilità ambientale ed ecologica, ma basti riflettere sulla distruzione e confusione degli habitat naturali, sostituiti con compiacimento da altri habitat (qui anche un certo prometeismo in Marx ha le sue responsabilità, e non parliamo dei vari marxismi e del comunismo realizzato, che hanno assunto il paradigma capitalistico come criterio di legittimazione!), sull’emergenza climatica che ne consegue, e ora anche su quella sanitaria, perché anche la semplificazione sia comunque di grande spessore e stimolo per gli studenti e le studentesse. E non solo per loro.
Ecco infine – chiuso il mio sproloquio – il testo nella traduzione citata di G. Lombardo Radice, che mi sono permesso qua e là di semplificare lessicalmente e sintatticamente, perché il suo spessore letterario potrebbe renderla poco chiara per adolescenti non a loro agio con certe finezze stilistiche. Seguiranno alcune osservazioni mie, che spero risultino utili, e che certamente saranno ridotte al minimo. Nell’edizione citata il testo greco si trova ai vv. 332-375, la traduzione-riscrittura di Hölderlin nella pagina a fianco, e, in calce, la traduzione italiana:
Molte sono le cose tremende, eppure nulla è più tremendo dell’uomo: va sul mare bianco di spuma nell’umido aspro vento, solcando turgide onde che s’affondano in gorghi sonori; e di anno in anno, affatica e preme d’aratri e di cavalli che sommuovono e sconvolgono il suolo, la suprema fra gli dei, la Terra.
E insidia e insegue la famiglia lieve degli uccelli, come le stirpi ferine, come il popolo subacqueo del mare, scaltro, spiegando le sue reti, l’uomo; e vince, con frodi, le fiere del bosco, vaghe per i monti; stringe nel giogo la nuca del cavallo, folta di criniera, e piega il toro montano, infaticabile. Diede a sé la parola, il pensiero ch’è come il vento, il vivere civile, e i modi di evitare gli assalti dei cieli aperti e le umide tempeste, nel gelo inospitale, armato a tutto, l’uomo: che nulla attende inerme dal futuro. Non potrà fuggire solo Ade, sebbene mediti sempre nuovi rifugi a mali non domati.
Con ingegno che supera sempre l’immaginabile, vigile, industre ad ogni arte, egli si volge ora al male, ora al bene. Se osserva le leggi della sua terra e la fede giurata agli dei della sua gente, egli esalta sé con la sua patria; e invece è un senza-patria chi s’accosta, per sua folle audacia, al male. E non mi sieda mai vicino, al focolare, e in nulla abbia pensieri comuni coi miei, chi così vive e opera.
2 – A proposito di questo passo mi va di sottolineare solo due punti, uno interno al testo, l’altro esterno. Cominciamo dall’interno del testo (mi scusino i colleghi di qualche pedanteria): esso comincia con l’enunciato Pollà ta deinà (molte [sono] le cose tremende), e qui decisivo è l’aggettivo deinós (deinà ne è il neutro plurale, per chi non lo sapesse), il cui significato più preciso è – dicono i vocabolari – “che ispira timore”, e quindi terribile, funesto, malvagio; ma si tratta di una tipologia lessicale di cui sono ricche le lingue greca e latina, ossia di una vox media, priva cioè di intrinseche connotazioni, che vanno ricavate dal contesto di scrittura o di lettura (pensiamo, ad esempio, al latino sacer, che vuol dire esecrando o sacro); ebbene deinós significa anche, sebbene in seconda istanza, anche “straordinario, mirabile”, ed estensivamente “straordinariamente dotato”, “abile”. In questo ventaglio molto ampio di connotazioni, che ruotano fino a centottanta gradi, non sorprende che qualche traduzione, fra quelle che circolano, abbia decisamente optato per la seconda connotazione (“straordinario/mirabile”), cosa che può dar luogo a interessanti riflessioni sui tempi e modi della ricezione. Ma voglio aggiungere qualcosa, visto che l’edizione che leggo reca appunto la traduzione di Hölderlin (che risale al 1804): il poeta tedesco traduce l’aggettivo con un corrispettivo inequivoco: ungeheuer. Si tratta di un aggettivo che utilizza anche il suo contemporaneo Goethe nel Faust, e, soprattutto, che viene ripreso da Franz Kafka nella prima presentazione del suo più noto personaggio, Gregor Samsa della Metamorfosi. Nel risvegliarsi da sonni agitati egli si ritrova ad essersi trasformato in un “ungeheuren Ungeziefer”, un insetto mostruoso o immondo (secondo i vari traduttori). Il vocabolo ha fatto strada e si è connotato negativamente in maniera ormai (quasi) irreversibile. Ma in deinós resta l’ambivalenza, credo. Mi sembra, per i giovani, un mini-esercizio di filologia tutt’altro che polverosa e fine a se stessa.
La seconda osservazione, quella esterna: nella rappresentazione di Sofocle mi sembra realizzarsi, in maniera decisamente più esplicita che nella figura di Odisseo che, legato all’albero della nave, ascolta il canto delle Sirene, quel nesso inscindibile di razionalità e dominio che Horkheimer e Adorno hanno disegnato nel fondamentale Dialettica dell’illuminismo (cito un passo da p. 12, Einaudi: «Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini»). Il saggio sarà “vecchio”, certo difficile e complesso, ma sempre valido, ed appropriato al testo di Sofocle. Si vedano i precisi passi relativi agli animali sottomessi o catturati, alla terra sconvolta, al mare temerariamente attraversato, ai pesci ingegnosamente catturati, ma anche alla parola, al pensiero, al vivere civile. Ma la tragedia è intrisa, tutta, da quello che è forse il lascito più duraturo e fecondo del pensiero e della cultura greca, il ripudio della hybris, della tracotanza, dell’eccesso. Che è, in qualche modo, lo stesso lascito della coeva e lontana cultura giudaica, soprattutto nei libri profetici.
3 – Mi dispiace, ma non ho finito. Come promesso, faccio anche riferimento a Bertolt Brecht, che fra il 1947 e il 1948, al rientro in Europa, scrive una sua Antigone riprendendo l’esperienza traduttoria di Hölderlin. Brecht taglia e ricuce a suo piacimento il testo di riferimento, per il quale nutre una profonda ammirazione, ma per prima cosa strappa la vicenda al suo contesto (ma non aveva fatto la stessa cosa il suo predecessore?) e la colloca arditamente entro una cornice che è quella del nazismo; e, al suo interno, materialisticamente, spiega la lotta fratricida fra Eteocle e Polinice, e la guerra che ne è conseguenza e causa ad un tempo, entro gli interessi economici per lo sfruttamento di miniere fra le varie poleis della Grecia. Il Coro di Sofocle segue per un buon tratto le sequenze dell’originale, e si adagia a lungo, quasi alla lettera, sulla traduzione di Hölderlin. Ma alla fine, ed è questa la parte più originale, abbandona i riferimenti alla morte (Ade) che concludono il passo che ho selezionato, per inserire un elemento che né Sofocle (almeno in questo passo) né Hölderlin hanno segnalato: il fatto, cioè, che allo sfruttamento e sconvolgimento della natura segua, logicamente e ferreamente, il potere dell’uomo sull’uomo. E dunque le classi sociali, e la lotta di classe. Per inciso, anche Brecht utilizza l’aggettivo ungeheuer, visto che riprende la traduzione di Hölderlin. Ecco il testo, nella traduzione italiana sopra citata (citata alla lettera, senza adattamenti semplificativi), che si legge alle pp. 243-45 dell’edizione anch’essa citata. Lascio la parola a Brecht, sebbene italianizzato, e prometto il silenzio:
Tra quante cose esistono terribili
Nessuna è più terribile dell’uomo.
Poiché, traversando la notte
Del mare, quando contro l’inverno soffia
Il vento del Sud, egli veleggia
In alate, vibranti dimore.
E la terra, sublime fra i celesti,
Incorruttibile, infaticata,
Egli solca con l’industre aratro
Di anno in anno.
Qua e là l’equina stirpe volgendo,
La lieve razza degli uccelli
Egli impania e la caccia,
E il popolo delle fiere selvagge,
E la natura del ponto vivace di sale
Con l’astuzia di corde intrecciate,
L’esperto uomo. Con artifici cattura le fiere
Che sui monti pernottano e vagano.
E al cavallo dall’irta criniera egli getta
Il giogo sul collo, ed al toro
Che indomito vaga sui monti.
E la parola e l’aereo volo
Del pensiero, e i fondamenti dello stato
Egli ha appreso, e a sfuggire gli umidi venti
Di pestilenti colline
E la pioggia sferzante. D’ogni cosa esperto
Lui inesperto. A nulla perviene.
Conosce ovunque il rimedio,
Nulla lo coglie privo di risorse.
In tutto ciò non ha confini,
Ma un limite gli è posto.
Lui che non trova nemici, di sé
Fa il proprio nemico. Come al toro
Piega al suo prossimo la nuca; ma il prossimo
Gli strappa le viscere. Se avanza,
Calpesta spietato i suoi simili. Da sé
Non può riempirsi lo stomaco, ma cinge
D’un muro la sua proprietà, ed il muro
Dev’essere abbattuto! Ed il tetto
Aperto alla pioggia! L’umano
Tiene in conto di nulla. Così, terribile
Diventa a se stesso.
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