Risvegliarsi in zona gialla
Dio ha creato l’uomo perché gli piacciono le storie
(Elie Wiesel)
I compiti di mio figlio sulla sua scrivania, i quaderni dei miei studenti sulla mia, i panni da stirare sulla mensola. “Facciamo tutto quando torniamo”, ho detto uscendo di casa venerdì mattina: tre giorni in montagna, sulla neve, febbraio è agli sgoccioli e io ho un assoluto bisogno di riposo. Ho portato con me solo libri e un quadernino: la scuola, per una volta è rimasta a casa.
Lunedì 25 febbraio ho varcato di nuovo la porta di casa a Como, in Lombardia: i compiti stanno sempre lì, i quaderni pure, i panni manco a dirlo. Ma nel frattempo tutto il mio mondo è cambiato: sono uscita da casa venerdì e dopo soli tre giorni mi ritrovo in una zona gialla. Niente scuola, teatro, cinema, palestra, messa, oratorio; i corsi che avevo già in programma, sospesi. Evitare la socialità, evitare i luoghi affollati, evitare contatti non necessari. Il che significa, senza essere drastici, vivere diversamente e rendersi conto di quanto, davvero, la vita possa cambiare in un attimo.
“Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno può considerare e tener presente per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati” Tucidide Storie II, 48,3
Come se non mi bastassero la televisione h 24, i social che amplificano e danno lo stesso spazio a chiunque, le discussioni tra amici al telefono e via chat (sempre meno faccia a faccia), ho in testa le mie letture sulle epidemie, da sempre un’insana passione: Tucidide, Boccaccio, Manzoni, ma anche la Storia notturna di Ginzburg, l’Anna di Ammaniti,l’Amore ai tempi del Colera di Marquez. E ora, per la prima volta in modo così forte, mi trovo in preda alla paura, una paura profonda, lontana e atavica. Una paura con cui i nostri antenati convivevano, se, nella parte precedente alla citazione che ho riportato, Tucidide afferma che quello era stato un anno fortunato, più sano rispetto agli altri per quanto riguardava le malattie.
Anche per questo, paradossalmente, mi sono sentita più umana. Fragile come siamo noi uomini e donne, in realtà (non che ciò sia consolante, comunque.
Mi sono ritrovata a guardare la televisione come un automa e ad immaginare scenari che manco the walking dead: mai vissuta una cosa del genere, né con Chernobyl, né con l’Aids, né con la mucca pazza, né con la suina, né con la Saar. Di fronte al disastro nucleare ero così piccola che l’unico fastidio che ricordo era non poter più bere il latte all’intervallo; con l’Aids, ero solo un po’ più grande e pareva che i malati se la fossero cercata, io nulla avrei avuto da temere (scoprii in seguito quanto fosse falsa la mia sicurezza). Della mucca pazza ho vaghi ricordi del tg e di bistecche fiorentine messe al bando, con la suina fu peggio, in realtà. Ero già insegnante e l’influenza colpì un ragazzo in gita a Trieste: ricordo in sequenza la febbre alta, la telefonata alla guardia medica che si rifiutò di uscire, la corsa in taxi alle due di notte in una farmacia, la tachipirina data col cucchiaino mentre (vai a sapere perché) gli raccontavo storie di medioevo, il ritorno veloce a casa la mattina dopo. Ma non ricordo di aver avuto paura, anzi, quando Mirco, guarito dall’influenza, mi regalò il libro “L’ultimo dei templari” risi forte e misi l’esperienza in un cassetto. Con la Saars ricordo qualche mascherina all’aeroporto a Singapore: essa era e rimase, nella mia percezione, una cosa lontana, da terza quarta pagina del tg.
Oggi invece ho paura. Già il nome scelto è efficace: non influenza e nemmeno una sigla impersonale, ma il roboante corona virus che pare il titolo di un distopico apocalittico. Corona Virus è un nome che fa paura rispetto a Morbillo, Varicella, Pertosse. O forse quei nomi non fanno più paura perché so che ci sono i vaccini e non si muore? (la mia bisnonna sì, invece, morì di morbillo)
La paura è un dispositivo naturale che ci ha permesso di arrivare fino a qui, ci ha permesso di non essere sbranati dalle belve mentre camminavamo nelle foreste, di riconoscere i segnali di pericolo, di studiare strategie, ripari, azioni. Ma quella è la paura razionale che diventa prudenza, riconoscimento dei propri limiti e desiderio di superarli; diversa forma ha l’angoscia, la paura che ti paralizza, blocca la testa e fa agire la pancia, l’urgenza e l’irrazionalità. Come tutto ciò che è irrazionale essa è sfrenata, un blob che si nutre di tutte le paure degli altri, come le valanghe dei cartoni animati che nascevano piccole e diventavano palle gigantesche a valle.
Quello che nasce come un provvedimento di contenimento messo in campo per arginare il virus, continuamente amplificato da una martellante conta dei malati, da scienziati che litigano fra loro, politici che litigano tra loro, interviste a chiunque, programmi con approfondimenti continui, ha generato la valanga. Ecco il mostro della paura che invade i supermercati: qui nella zona gialla sono spariti Amuchina e mascherine, ma pure carta igienica, acqua e pasta. Anche la nutella, per quarantene golose. Se vuoi la spesa on line devi aspettare quasi quattro giorni, mentre prima l’efficienza te l’avrebbe portata a casa in giornata.
Ecco, il mostro della paura che fa sì che i colleghi di mio marito telefonino allarmati per una sua ipotetica discesa ad infettare l’Urbe: da locomotiva d’Italia a Lanzichenecchi in un amen. Ora siamo noi quelli respinti alla frontiera immaginaria fuori dalla zona gialla, il che ha un suo lato ironico.
Ecco, il mostro della paura si fa strada in me e mi fa sentire untore e malato nello stesso tempo: il raffreddore con cui combatto da settimane sarà destinato a portarmi in ospedale? Sono un untore che cammina? Devo stare tappata a casa?
Hai paura di quello che non conosci e per cui ti mancano esperienze come metro di paragone, ti attacchi a dati, cifre articoli, parole che risuonano come un mantra. Meno vorresti sapere, più conosci, ascolti: tutto risuona.
“Su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore.” Questa è una società che si basa sui numeri quanto la scorsa si basava sulle preghiere: sono giorni che scandaglio i numeri. Mortalità bassa, bene! Ma come bene, il 15% deve andare in ospedale: se ci vanno tutti insieme il sistema collassa. E poi non è che nel mentre le altre malattie si prendono una vacanza. Prova tu a spaccarti una gamba in un simile scenario. A parte che farsi venti giorni d’ospedale per guarire con terapie che si muovono a tentoni non mi pare una bella cosa.
Muoiono per lo più persone anziane, bene! Ma come bene, non sono forse persone? Madri, padri, nonni? Guardati intorno, conosci più sessantenni o ventenni? (gli ex studenti non valgono)
L’unica è la quarantena, lo spostarsi il meno possibile, il contenere la diffusione. E’ capitato: hai vinto la zona gialla. Fossi stata zona rossa era pure peggio. Molto peggio.
Vero, ma dovevano comunicarlo in modo così brutale? Dovevamo tutti calcare così la mano sul panico?
Ma in un paese dove non si rispettano le file, i parcheggi disabili, il blocco del traffico, sarebbe stato rispettata un’ordinanza se non ci fosse stata reale percezione del pericolo?
Basta ora esco davvero. Fa male litigare da soli.
Giò come è venuto il salto?
Sono uscita a piedi, mancavano pane e latte: mi aspettavo una città fantasma. E invece no: la piazza è insolitamente e frettolosamente piena di persone con le buste della spesa, il bar è semivuoto, quasi nessuno ai tavolini.
La chiesa e l’oratorio sono chiusi, come la palestra, la piscina e la biblioteca.
E io che sognavo, sommersa di attività, di avere un po’ di otium vorrei davvero tornare a districarmi tra giornate impossibili, mille attività, scuola e studenti. Perché questo tempo vuoto è in realtà pieno di pensieri da cui non riesco a staccarmi, corvi neri sulla mia testa.
Mi regalo due passi nel bosco, male non farà.
Un gruppo di ragazzi ha realizzato una pista da mountain bike improvvisata mi fermo a guardarli: saltano, urlano, brillano di vita. Ascoltano la loro musica, improvvisano barre. Probabile che anche io ai tempi di Cernobyl abbia fatto lo stesso (no forse la pista nel bosco no, non si poteva uscire troppo all’epoca e neanche le barre avevamo). La paura è relativa e direttamente proporzionale all’età.
Un ragazzo cade, mi avvicino. “Ti sei fatto male?”
“Ma no, signora, non si preoccupi” E subito si gira agli amici: “Giò come è venuto il salto? Figo, vero?” Di certo il corona virus, quello che ruota intorno al corona virus, la paura, l’ansia, il terrore, non trovano dimora tra queste cunette. C’è sempre un Decameron dietro l’angolo.
Li invidio, molto. Per me non è più tempo di quella leggerezza lì, di quella spensieratezza lì.
Come un fulmine mi balza nel cervello un motto scolpito nella memoria di pomeriggi a correre, saltare e andare per i boschi: estote parati.
Estote parati, per come si può.
Sto pronta, sto pronta e non vedo l’ora poter tornare a scuola.
Torno a casa. Pronta a litigare di nuovo con me stessa.
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