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diretto da Romano Luperini

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Le ragioni della memoria: cosa resta della strage di Piazza Fontana

 A partire dal nuovo millennio gli anni Settanta hanno conosciuto un rinnovato interesse artistico. Se andiamo però ad esaminare la situazione letteraria notiamo che essa risente di un’indeterminatezza storica, per cui i romanzi sono dominati dalla dimensione memorialistica, privata e quotidiana: una condizione che persiste sia in quegli scrittori che hanno avuto un’esperienza diretta degli anni Settanta, che godono quindi dello statuto testimoniale, sia in quelli appartenenti alla generazione successiva, che dovrebbero avere una visione più distaccata. Questo dato trova dei corrispettivi anche in sede storiografia, dove si registra una condizione di impotenza, dovuta all’opacità di alcuni eventi che hanno caratterizzato il decennio. Come titola un articolo di Derive&Approdi, quella degli anni Settanta è Una storia di cui ancora non riusciamo a fare la storia, di cui ancora sfuggono le intime connessioni tra i gruppi terroristici e i movimenti extraparlamentari, tra gli apparati governativi e i servizi segreti, complice una politica refrattaria ad affrontare scomode realtà:

 L’Italia del XXI secolo ha nei confronti degli «degli anni di piombo» la stessa difficoltà che a lungo ha avuto la Francia nei confronti del periodo di Vichy o del suo passato coloniale con la guerra d’Algeria. Oggi è il momento di chiedere che, come in Francia, questa storia venga finalmente scritta, affinché cessi di essere il tabù della sua memoria. (p.12)

Di questa mancanza sono esempio i due volumi scritti da Enrico Deaglio, intitolati Patria. La proposta dello storico è quella di rinunciare alla narrazione storiografica per assumere un’impostazione cronachistica, in cui gli eventi vengono giustapposti in ordine paratattico, data dopo data, senza che ne fuoriesca un intreccio compiutamente organico.

Se Deaglio si muove tra cronaca e storia, un altro storico si posiziona invece nel terreno borderline tra memorialistica e storiografia: è Giovanni De Luna. Ne Le ragioni di un decennio lo storico evidenzia la doppia inevitabile anima che deve avere un’opera sugli anni Settanta: da una parte quella testimoniale, che basa la ricostruzione sulla memoria delineando la percezione dell’epoca, e dall’altra quella storica, che utilizza le fonti per ricostruire i fatti attraverso un’operazione di distant reading, definita con “il senno di poi”. Questa ambivalenza del lavoro di De Luna, è motivata dall’opacità che contraddistingue gli anni di piombo, segnati da un’indeterminatezza giuridica, a cui concorre il segreto di Stato (un miglioramento in tal senso c’è stato con il governo Prodi che ha ridotto la durata massima del segreto di stato a trent’anni e con il governo Renzi che ha declassificato gli atti relativi a numerose stragi avvenute nel nostro paese). Perciò fino a quando gli archivi non saranno resi pubblici, scrive De Luna, ogni ricostruzione storica è problematica e fondata su materiale indiziario. Il lavoro storiografico deve pertanto ricorrere alla memoria, creando uno sguardo strabico, tra vicinanza e lontananza, tra passione e criticità, tra percezione di allora e senno di poi.

Quanto espresso da De Luna è utile per buona parte della storia del Novecento, ma risulta ancora più pregnante per gli anni Settanta, in cui a una presa di coscienza della lacunosità storiografica e giuridica deve seguire una ricostruzione attenta della memoria e delle testimonianze. Nell’immaginario comune il grande spartiacque che segna l’inizio degli anni di piombo è la strage di piazza Fontana. Il 12 dicembre 1969 è una data fondamentale non solo perché ha in nuce elementi di lunga durata che contrassegnano il decennio, ma anche perché ha determinato una situazione di crisi e paranoia verso gli apparati governativi che si è andata sedimentando nel corso degli anni. Per capire cosa rimane della strage di piazza Fontana, la ricostruzione dei fatti deve dialogare con l’immaginario dell’epoca a livello percettivo e artistico.

12 dicembre 1969. Esplodono quattro bombe: una a Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, e tre a Roma, tra piazza Venezia e l’Altare della Patria (una quinta trovata alla Banca di commercio in piazza della Scala rimase inesplosa). È il tragico epilogo di una serie di attentati dinamitardi avvenuti nel corso dello stesso anno nel nord-est d’Italia che causarono decine di feriti. Il 12 dicembre del 1969 dalle 16:30 alle 17:30, nel giro di un’ora, rimasero uccise 17 persone e 106 ferite (88 nella sola Milano). Le indagini, seguite dal commissario Luigi Calabresi e dal questore Marcello Guida, si concentrarono sulla pista anarchica e portarono allo stato di fermo del ferroviere Giuseppe Pinelli, insieme a tanti altri esponenti del gruppo. Il 16 dicembre, passata da poco la mezzanotte, dopo tre giorni di interrogatorio (nonostante il fermo massimo fosse di 48 ore), Pinelli precipitò dalla finestra del quarto piano della questura: qualche ora dopo la sua morte, venne arrestato l’anarchico Pietro Valpreda, indicato come esecutore della strage. La morte dell’anarchico, fatta passare subito per suicidio e di conseguenza come confessione, innescò una serie di conseguenze drammatiche che inasprirono il clima di insicurezza e paranoia. In pochi, infatti, credettero alla versione della questura di Milano, tanto che Lotta continua lanciò una violenta campagna contro il commissario Calabresi, per loro colpevole di aver insabbiato la verità su piazza Fontana con l’omicidio di Pinelli.

Parallelamente a quella di Milano, iniziarono le indagini della questura di Treviso, questa volta contro gli esponenti di Ordine Nuovo, gruppo di estrema destra orbitante nella zona di Padova. Nel 1972, quando i risultati delle indagini furono comunicati alla questura di Roma permisero la liberazione di Valpreda, mentre furono arrestati Franco Freda, Giovanni Ventura e Marco Pozzan. Il processo, iniziato nel 1977, si concluse nel 1979 con la condanna in primo grado per i neofascisti. La storia della strage di piazza Fontana, però, è destinata drammaticamente a continuare: il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi venne ucciso sotto casa da parte di ignoti. Nel 1988 Leonardo Marino, esponente di Lotta continua, confessò di aver partecipato all’omicidio, indicando come esecutore Ovidio Bompressi e come mandanti Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. L’anno prima Freda e Ventura vennero prosciolti con formula dubitativa; quando negli anni Novanta inizierà la nuova istruttoria del giudice Salvini non saranno più processabili.

Questa, però, è una ricostruzione sincopata che si avvale del senno di poi, che non tiene conto della frammentarietà della percezione di allora, della paura delle bombe e del profilarsi di trame golpiste. La risposta letteraria di quegli anni riesce a mostrare questa difficoltà di narrare la strage, lo sgomento degli intellettuali e degli scrittori di fronte a una realtà che era sempre più carica di dubbi, di ingiustizie, di menzogne e di ansie cospiratorie. Al racconto si preferisce usare l’immagine e la recitazione, come dimostrano alcune opere realizzate a ridosso del 12 dicembre 1969:

– l’opera di Enrico Baj, I funerali dell’anarchico Pinelli

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– Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo

– il cortometraggio di Elio Petri con Gian Maria Volontè https://www.youtube.com/watch?v=Lj8iaMgQo5w.

– Il documentario inchiesta di Lotta continua 12 dicembre https://www.youtube.com/watch?v=zXsri6amiMI.

– possiamo ricollegare al clima di piazza Fontana anche il film di Montaldo del 1970 Sacco e Vanzetti, sui due anarchici condannati a morte negli Stati Uniti nel primo Novecento.

Il romanzo, invece, tace.

Si potrebbe obiettare che le forme in quegli anni erano altre e in parte è vero, però come scrive Edward M. Foster «il re morì e poi la regina morì» è cronaca, «la regina morì perché il re era morto» è narrazione: senza i nessi causali, che appunto mancarono all’epoca, non è possibile scrivere una storia.

Se il romanzo comunica in absentia, le parole di un intellettuale sono utili per rivelare quanto di inesprimibile era presente nel pensiero di molti. Il 14 novembre 1974 Pier Paolo Pasolini pubblica Il romanzo delle stragi. È il caos nel suo svolgimento: Pasolini riesce a registrare i tormenti di un paese che stava implodendo, in cui Stato e magistratura non riuscivano o non volevano fare chiarezza e giustizia. Il tono profetico e intuitivo, condensato nella celebre massima, «Io so. Ma non ho le prove», è usato in virtù del suo ruolo di intellettuale «che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» (p.363). Eppure in quanto scrive Pasolini possiamo rintracciare i sintomi di un sentire diffuso che antepone la visione complottistica a un adeguato scandaglio dei fatti, poiché quando la verità è latitante il complotto pacifica una realtà difficile a disvelarsi.

Il clima politico, sociale e letterario dopo piazza Fontana è quindi dominato da una sensazione di menzogna e di paradossi dove si sa, senza avere le prove. Per fare fronte a una storia che non riesce a farsi storia e al dilagare complottistico, la memoria riesce con il suo statuto testimoniale a riscattare dall’oblio gli eventi, senza ricorrere all’inventio, rinunciando quindi a creare una nuova narrazione, ma raccontando i fatti in modo da «ritrovare il tempo di coloro che l’hanno vissuto e prescindere dal senno di poi» (De Luna, p.33). La pratica del ricordo mette in mezzo il nostro corpo prima di tutto, per «restituire ai morti il loro tempo» senza rinunciare a quei brandelli imprescindibili di verità, perché parte integrante di un percorso di conoscenza che riesce a supplire la ricostruzione indiziaria. A questo quindi serve la memoria: a narrare quell’ansia e quella sfiducia verso lo Stato, la paura e la paranoia; a narrare quella rabbia giovane che era rimasta inascoltata e anche per questo si era aglutinata in una spirale di violenza autodistruttiva.

Oggi sono passati cinquant’anni dalla strage di piazza Fontana e gli scaffali novità delle librerie sono lì a ricordarcelo. Soltanto negli ultimi mesi sono usciti: La maledizione di piazza Fontana. L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati, del giudice Guido Salvini con Andrea Sceresini; La bomba. Cinquant’anni di piazza Fontana del già citato Deaglio; Piazza Fontana. Il processo impossibile di Benedetta Tobagi; Piazza Fontana. Il primo atto dell’ultima guerra italiana di Gianni Barbacetto; La mattina dopo di Mario Calabresi; e la lista potrebbe continuare. A questi si aggiunge L’Italia delle stragi, in cui a prendere la parola sono i giudici protagonisti di quegli anni che ricostruiscono le inchieste e i processi alle stragi degli anni di piombo. Ne fuoriesce una sorta di calendario terribile che l’Italia è costretta ciclicamente ad affrontare, divisa fra lutto e rabbia. Sebbene lo scopo del volume sia quello di mostrare l’avanzamento delle indagini, ancora i nodi salienti rimangono indiziari o opachi, se non addirittura senza riprova giudiziaria. E anche se volessimo lambire la verità giuridica con la verità storica, bisogna considerare i danni che fece la mancanza di un’azione repentina da parte dello Stato come nel caso della strage di piazza Fontana. La menzogna iniziale e i sospetti sempre più crescenti intorno alle istituzioni, infatti, hanno innescato una serie imprevedibile di trame e di ricostruzioni e anche quando la verità iniziò a delinearsi nel 1972 con l’inchiesta su Ordine Nuovo, arrivò troppo tardi, perché nel mentre Valpreda resta in carcere, vengono fondate le Brigate Rosse e poco prima il commissario Calabresi viene ucciso. Si è generata una crisi incolmabile anche per il fatto che il processo di primo grado fu avviato nel 1977 e la condanna arrivò nel 1979, quando ormai si era concluso il ’77, l’anno caldo degli extraparlamentari e Aldo Moro era stato ucciso. Per concludere nei gradi successivi Freda e Ventura furono assolti per piazza Fontana (condannati, però, per i precedenti attentati del 1969). Fu assolto anche Guido Giannettini, agente del SID, che aveva svolto da collegamento tra Ordine Nuovo e i servizi segreti. Nella percezione e nell’immaginario comune permane, quindi, la sensazione che piuttosto di affrontare a viso aperto alcune questioni, si sia scelto di imporre storicamente alcuni passaggi per inerzia, senza accompagnarli da un effettivo lavoro di verifica, segno di un malessere all’interno della nostra Repubblica.

Perciò, in attesa che la storia si scriva, ricorrere alla testimonianza e alla memoria allontana il senso della fine ed è un’operazione di resistenza e di impegno.

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