La scuola, la governance, gli uomini di buona volontà dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà
Il 30 settembre il nostro blog ha proposto un Manifesto per la scuola intorno alle idee forti della «mobilitazione» e del «senso critico». Questo intervento del nostro collaboratore Daniele Lo Vetere è un contributo a una sua declinazione entro il discorso pubblico sulle politiche scolastiche.
«Ma il neoliberismo […] non si capisce se, oltre a riflettere su chi ha concepito certe idee, non ci si occupa anche di esse in quanto progetto politico, promosso da particolari attori (l’élite dominante, nella definizione di [David] Harvey) e del modo in cui sono state diffuse, cercando di ottenere su di esse il consenso», Antonio Cobalti, Globalizzazione e istruzione, 2006
Un episodio estivo
Il 14 agosto sul Corriere della sera si leggeva:
«È nostra convinzione che per contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica possa essere efficace l’introduzione della metodologia didattica delle non-cognitive skills (amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale) nel percorso didattico delle scuole medie e delle scuole superiori. È questo il contenuto di una nostra prima proposta di legge. È infatti puntando sul superamento di una visione solo cognitiva dell’apprendimento e facendo leva sull’educazione della personalità e della consapevolezza dei ragazzi che si può contrastare la loro disaffezione verso la scuola e migliorare la qualità del sistema scolastico. A partire da significative esperienze internazionali, proponiamo una sperimentazione che unisce e non divide, che valorizza sia le autonomie dei territori sia quelle delle singole scuole sia il carattere nazionale del sistema, e da realizzare in collegamento con il disegno di legge sull’educazione alla cittadinanza/educazione civica approvato in maggio alla Camera dei deputati e ancora fermo in commissione Cultura al Senato»;
«L’attuale mismatch tra richiesta e competenze evidenzia quindi come il “capitale umano” sia un elemento fondamentale non solo del sistema formativo ma anche per l’impresa. La nostra seconda proposta di legge vuole invertire il paradigma di riferimento attuale basato solo su inserimento scuola-lavoro a quello continuo lavoro-scuola: anche durante le fasi critiche (di inserimento e/o cambiamento) della vita professionale-lavorativa. Punti cruciali di questa proposta sono il cosiddetto capitale umano 4.0 (capitalizzazione degli investimenti in formazione per persone sotto i 40 anni stabilendo quanto di questo investimento può definire redditi futuri per l’azienda e una conseguente tassazione agevolata); e la proposta di un Erasmus del lavoro per gli italiani che si formano all’estero e per gli stranieri che si formano in Italia a spese dell’azienda, mantenendo il posto di lavoro e con il vincolo di rimanere in azienda alcuni anni».
Si tratta dei passaggi dedicati alla scuola contenuti in una lettera al giornale firmata dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Tale Intergruppo, esattamente un anno fa e sullo stesso quotidiano, aveva pubblicato un «Manifesto per il Bene Comune» (che ora si può reperire, e la fonte è significativa, sulla pagina web di Maurizio Lupi).
Le firme che si leggono in calce alla lettera di quest’anno sono prevalentemente di parlamentari del Partito democratico (un paio confluiti poi in Italia viva di Renzi), di Fratelli d’Italia, della Lega, di Forza Italia, ma ci sono anche un Cinque stelle, Paolo Lattanzio, e l’attuale ministro della Salute, Roberto Speranza, appartenente a quell’ondivaga area politica che di volta in volta è la sinistra del Pd o sta a sinistra del Pd. Coloro che in questi anni hanno avuto incarichi legati all’istruzione non sono pochi, e sono anch’essi bipartisan: Maria Stella Gelmini, Gabriele Toccafondi, Paola Frassinetti, Simona Malpezzi.
I temi che nel manifesto del 2018 e nel rilancio del 2019 l’Intergruppo scrive di avere a cuore sono le imprese, il sud, l’educazione, il welfare, cui, con tempismo eccellente, solo quest’estate si è aggiunta la «sostenibilità». Tutte cose su cui, ovviamente, saremmo in astratto tutti d’accordo: più difficile è spiegare persuasivamente come l’enfasi sulla competitività e la sussidiarietà, per dirne una, possa essere appaiata alla centralità del sud, senza percepire alcuna contraddizione nelle proprie parole. Nonostante l’ecumenismo, gli inviti al «dialogo» fra parlamentari di tutti i partiti e, bontà loro, alla «stima reciproca», non dovrebbe essere un mistero che la sussidiarietà, in Italia, sia un tema particolarmente caro al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione e alla Fondazione per la sussidiarietà di Giorgio Vittadini e come esso sia legato a doppio filo a quello dell’autonomia regionale.
Analisi linguistica
Che cosa accomuna tutti questi parlamentari quando parlano di istruzione? In quale linguaggio, in quali categorie di interpretazione del reale, questo intergruppo trova una reciproca intercomprensibilità, da Liberi e uguali a Fratelli d’Italia?
(Un’osservazione fra parentesi: la presenza di un solo Cinque stelle nell’Intergruppo è spia soltanto del fatto che i parlamentari di questo partito, di breve corso, non hanno ancora fatto in tempo ad essere catturati nell’orbita di questo felpato modo di fare politica? Che non fanno parte ancora dei giri giusti? Di sicuro Maurizio Lupi, un anno fa, teneva a lasciar intendere la conversione di almeno 200 parlamentari all’irenismo del “Bene Comune”: fra questi, anche molti Cinque stelle, sia pure «a titolo personale»). Torniamo alla lettera al Corriere e analizziamola.
Tutti, dai post-socialdemocratici ai neo-nazionalisti sono progressisti e mossi da ottime intenzioni («contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica»); tutti si premurano di prescrivere direttamente questa o quella metodologia di apprendimento, con un salto privo di mediazioni dialettiche dalla politica alla didattica e viceversa («efficace l’introduzione della metodologia didattica delle non-cognitive skills»); tutti traducono nell’ambito scolastico concetti ed etichette prelevati da quello della psicometria e del management, di nuovo in forme totalmente adialettiche (le “soft skills”: «amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale»); tutti credono in una sola statistica, specie se consente loro di abbellire il proprio eloquio di pregiati forestierismi («mismatch»); tutti usano – o sono usati da – il linguaggio del new public management, reso più eccitante da quel tocco di transvalutazione di tutte le tecniche e da quell’aura di informatica futuristica che sono evocati dall’uso linguisticamente pre-razionale e asemantico della specificazione «4.0».
Un altro episodio
Ma non vorrei far credere di essere pregiudiziale – in questa felice epoca delle epoche sobriamente pragmatica e priva di accecamenti ideologici e storici, lo so, sarebbe un peccato capitale. In fondo l’alternanza “scuola-lavoro” che diventa “lavoro-scuola” non è altro che la “formazione degli adulti”, le 150 ore, di epoche in cui la parola “progressismo” aveva un significato, così come l’idea di favorire la formazione dei dipendenti di un’azienda garantendo loro il mantenimento del proprio posto è un diritto che – confesso la debolezza – anche io vorrei vedere realizzato e rispettato.
Che cosa, allora, fa allargare le braccia e scuotere la testa? Forse la sensazione di sentir parlare degli automi? Forse quell’aria di slogan imparaticcio che promana da questa prosa? Forse l’ennesima prova di trovarsi di fronte a una vasta egemonia culturale? Retrocediamo di qualche anno, per mostrare come il fenomeno di cui stiamo trattando non sia né accidentale né transitorio. Ecco un’altra citazione, di quelle eloquenti in sé. Leggiamo che cosa dichiarasse nel 2013 al Meeting di Rimini Dario Nardella – insomma, quello a sinistra nella foto di intergruppo – non esimendosi dal ricordare, nello stesso contesto, quanto le “dolorose” riforme di Schroeder siano servite per rendere la Germania la locomotiva europea (strano come il dolore riformistico faccia bene a un corpaccione sano e teutonico e come porti alla quasi morte di un corpicino gracile ed ellenico):
«Quante volte avrete sentito parlare del mito della Silicon Valley, che nacque nel 1939 perché due giovani, Signore Hewlett e Signor Packard, inventarono quello che oggi è il colosso della Hewlett-Packard in un garage. Nel ’39 gli Stati Uniti consentirono a questi due ragazzi di diventare quello che sono diventati. Oggi se due giovani aprissero un laboratorio in un garage in Italia arriverebbero i NAS, l’ASL e li farebbero chiudere dopo un giorno, oppure li arresterebbero direttamente, e non è solo una questione di burocrazia, perché poi c’è anche quella, è un fatto di mentalità, cioè di cultura, di modello culturale, secondo il quale lo Stato non è al di sopra di tutto, perché al di sopra di sé ha qualcosa e sono i cittadini. Questo è il passaggio di cambiamento culturale che noi dobbiamo fare, che non significa eliminazione dello Stato, ma significa ripristinare la scala di valori che c’è tra popolo, cittadini e Stato».
Siamo dalle parti di Renzi sottobraccio a Marchionne e della “sinistra” che, scambiando la parte per il tutto, parla ai giovani cosmopoliti che non anelano che ad aprire start up come se fossero i giovani disoccupati tout court, adombrando il sogno americano (volevo dire l’incubo) del “stay hunger, stay fool” come il sogno di un’intera generazione. Questo linguaggio vincente e onnipervasivo, nel caso dell’Intergruppo, si sposa perfettamente al linguaggio del carisma cristiano di don Giussani. È una interessante convergenza: chissà se qualcuno l’ha mai studiata a fondo.
L’oltre-politica: la governance
Di sicuro la trasversalità, il dialogo, la buona volontà, il superamento del conflitto, il pacato pragmatismo, sono caratteri ormai ben noti di quella liquidazione con le migliori intenzioni della politica che risponde al nome di governance. Essa, secondo il suo più acuto diagnosta e feroce critico, Alain Denault (Governance. Il management totalitario, Neri Pozza, 2018), è interamente fondata su parole d’ordine e categorie filosofiche, politiche, economiche del tutto vacue: tante «premesse» date già per dimostrate, sulle quali costruire un illusorio consenso e una illusoria orizzontalità che la fa finita con questioni spinose come il conflitto sociale, la sovranità come fondamento della politica moderna, le differenze di potenziale nella distribuzione del potere: «Ridurre la politica a una tecnica», «Fantasticare sulla “società civile” in uno stato di natura dove tutto è tranquillo», «Postulare che un “cittadino” abbandonato a se stesso acquisti nuovo vigore», «Applicare una logica di esclusione facendola passare per il suo contrario», «Costringere al consenso», «Assottigliare le parole e la loro cosa», «Naturalizzare l’economia di mercato», «Riciclare i discorsi militanti senza nuocere al sistema di sfruttamento», «Darsi arie da teorici», «Fare ricorso scientemente a un pensiero disincarnato», «Anestetizzare chiunque sia sensibile alla dissonanza cognitiva», «Fare del nulla una forza», ecc…
Contro questo vuoto linguistico e concettuale che camuffa sotto garbate vesti un’ideologia politica ed economica egemone e pericolosa, occorre continuare a tenere alta la guardia intellettuale.
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