Il mestiere del traduttore /8: Il traduttore alle prese con l’Autore Reticente: appunti su Leviatano o L’inutile traversata e altri racconti dell’inquietudine di Julien Green
Quando Filippo Tuena, che all’epoca dirigeva la collana “Tusitala” per l’editore romano Nutrimenti, ci propose un progetto di traduzione cooperativa dei racconti più noti di Julien Green, accettammo subito con entusiasmo. L’idea di partenza era quella di offrire al lettore una traduzione a più voci, nella speranza di approdare a un testo polifonico, ma al tempo stesso omogeneo e privo di sbavature (soprattutto per quanto atteneva alla coerenza delle scelte lessicali). L’editore ha accettato (coraggiosamente) di pubblicare, in appendice, delle ampie note abbastanza tecniche, utili a illustrare i principali problemi affrontati dai singoli traduttori: qui di seguito offriamo un testo che riprende, in parte, quelle note, ma in un’ottica focalizzata su un tema dominante: la reticenza dell’autore – e quella, che inevitabilmente ne consegue, della voce narrante.
È questa una caratteristica che sembra connotare in toto la scrittura di Julien Green – e che, senz’altro, attraversa tutti i suoi racconti. Ce ne siamo accorti in corso d’opera, e poi confrontando le nostre note di lettura, trasformatesi strada facendo in veri e propri saggi che si leggono ora in appendice al volume J. Green, Viaggiatore in terra, Nutrimenti, Roma 2015.[1]
L’approccio che ha ispirato questa traduzione a più mani (un’esperienza che si è ripetuta nel 2017, per Vertigine, dello stesso Green, ancora una volta per Nutrimenti) è ben illustrato dalle considerazioni conclusive di Scala:
Trasportare i personaggi, attraverso le parole, da un sistema di riferimento linguistico all’altro, senza variarne troppo le posizioni reciproche; fare la stessa cosa con i grandi temi toccati […], mirando a mantenerli intatti, facendoli slittare da un sistema di riferimento all’altro senza che si perdessero troppe sfumature o troppe corrispondenze: questo è ciò che si è cercato di fare. A volte è stato possibile, a volte ci è parso che non lo fosse. Ma per fortuna, a porre rimedio a uno scarto talora inevitabile, è arrivata la nota del traduttore. Con l’ulteriore, pregevole effetto collaterale di favorire in chi legge una presa di coscienza: ciò che leggiamo in traduzione è qualcosa che altri hanno già letto prima di noi, è la lettura di un altro, è in qualche modo una lettura di seconda mano. Il che potrebbe far pensare a una diminuzione dell’aura sacrale che circonfonde la scrittura e potrebbe indurre a concludere che si voglia qui sminuire lo statuto dell’autore. Nient’affatto. Ci si rallegra al contrario di poter aumentare la consapevolezza di tutti gli altri.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta, Viaggiatore in terra (prima edizione: 1926), si regge interamente su una serie di non-detti, che conducono, a sorpresa, verso un mistero di natura teologica e uno sviluppo narrativo destinati a uno scioglimento solo parziale: il finale è aperto (il che è tipico di tanta letteratura ‘dell’inquietudine’); del tutto inedita, e particolarmente complessa, è la stratificazione dei piani enunciativi e delle voci narranti, che Filippo Tuena illustra in dettaglio nella sua nota (questo aspetto è peraltro ‘complicato’ dalla diglossia di Julian/Julien Green); tutto ciò contribuisce a rimescolare le carte della narrazione e, al tempo stesso, chiama di continuo in causa il lettore, delegando a lui l’onere dell’interpretazione del mistero. Se da un lato questo meccanismo è caratteristico della letteratura fantastica classica, dall’altro si ha come la sensazione che Green lo porti alle estreme conseguenze, chiedendo al lettore un contributo particolarmente impegnativo. Ebbene: il traduttore è innanzitutto un lettore molto attento; in questi testi deve quindi porre la massima attenzione ai non-detti e a tutti gli effetti retorici che ci hanno portato a isolare, qui, il tema della reticenza (dell’autore e dei narratori).
Le trappole in cui il traduttore corre il rischio di cadere con un autore così programmaticamente reticente sono due, e di segno opposto. La prima è quella di generalizzare, per dir così, il sintomo del non-detto, sfumando i contorni anche degli oggetti o dei concetti più nitidi e spargendo così per ogni dove un mistero che ha invece i suoi precisi e isolati luoghi di residenza. La seconda è quella di avventurarsi, per sete di comprensione, per scrupolo di chiarezza, a “dire il non-detto”, a esplicitarlo, o anche soltanto a suggerirne, con lievi ma decisive forzature del testo, l’eventuale dicibilità.
In due racconti della raccolta, Christine e Maggie Moonshine – cronologicamente molto distanti l’uno dall’altro (rispettivamente del 1924 e del 1989) – i temi principali del segreto e del mistero (tipicamente greeniani) sono collegati a quelli del desiderio (frustrato) e dell’erotismo tormentato; in Maggie Moonshine, in particolare, una nouvelle ambientata a Savannah, i segreti su cui si impernia la narrazione sono addirittura due: l’omosessualità di un personaggio che appartiene al passato della protagonista (Miss Eddleston) e il mistero relativo alla nascita della bambina il cui nomignolo dà il titolo al racconto. In questi due testi Green mette in opera una serie di accorgimenti che rientrano nell’ambito della sua poetica reticente (il ‘dir poco’, il ‘levare’, l’occultamento di informazioni importanti). In Christine (forse il più inquietante di questi racconti) Green ricorre in modo sistematico alla preterizione, una strategia che risulta tanto più efficace in quanto è possibile registrare una ulteriore soppressione di informazioni utili se si mettono a confronto le diverse redazioni. Anche per Maggie Moonshine è possibile apprezzare i benefici effetti di questa tecnica del levare: abbiamo infatti a disposizione un avant-texte e due redazioni molto diverse della nouvelle, che dimostrano quanto dei tagli più o meno cospicui possano giovare alla buona riuscita di un racconto (in questo caso un racconto mélo, e non di genere fantastico).
Anche Léviathan (nella presente edizione Leviatano o L’inutile traversata) ha subìto lo stesso processo di progressivo impoverimento della materia narrata (facciamo sempre riferimento ai dati, alle informazioni esplicite), a tutto vantaggio della suspense e di una deliberata ambiguità diffusa. Due tagli piuttosto significativi intervengono, infatti, a trasformare la prima redazione (del 1926) in quella (del 1928) che Green decide di inserire nella raccolta. Anche in questo testo abbiamo a che fare con un ‘segreto’: un segreto che resta tale fino all’ultimo, e che è l’oggetto di una lunga, esitante confessione (diversi elementi lasciano intendere che si tratti, anche in questo caso, del peccato di Sodoma, non a caso associato alla parola-chiave ‘crimine’, e sanzionato, nel finale, da una morte folgorante). ‘Reticenza’ è la parola chiave di questo racconto: reticenza del protagonista, dei cui sentimenti ci viene detto che «ce qui en paraissait, paraissait malgré ses efforts» («quel che ne traspariva traspariva a dispetto dei suoi sforzi»), ma reticenza anche e soprattutto del racconto stesso, che non si piega neppure a svelare al lettore il segreto che il misterioso passeggero si decide infine a confessare al capitano della nave.
Se la reticenza è l’effetto che si vuole ottenere, quali sono gli strumenti di cui Julien Green si serve e quali gli accorgimenti che mette in opera per conseguirlo? Rispondere a questa domanda è di grande importanza per il traduttore e, di conseguenza, di qualche interesse per il lettore: perché, in verità, il traduttore non è che un lettore costretto a mordere il freno, un lettore-tartaruga che cammina su ogni pagina per ore anziché galopparvi in un minuto, ed è proprio la sua lentezza a offrirgli un vantaggio sul lettore-Achille, troppo veloce per cogliere nella coda dello sguardo i piccoli segni di cui il paesaggio è costellato. Se dunque il traduttore ha qualche scampolo di conoscenza da trasmettere al lettore (e sempre ammesso che ne abbia), lo deve esclusivamente alla sua condanna professionale all’attenzione.
Il primo strumento funzionale all’effetto-reticenza consiste nella parsimonia o, per usare un termine ancora più esplicito, nella scarsità. Un deliberato risparmio di mezzi agisce su ogni componente del testo: il racconto è condensato in poche pagine, le frasi sono brevi, la sintassi distilla le subordinate con il contagocce (e, su dieci gocce, sei o sette sono proposizioni relative, grado zero della complessità), il vocabolario – infine – è così rarefatto da ridursi all’essenziale. Viene spontaneo pensare, volendo cercare un termine di paragone, a Simenon, incline nelle sue interviste a farsi vanto di avere scritto alcune centinaia di romanzi utilizzando meno di duemila vocaboli e, in particolare, nessun avverbio.
Il secondo strumento, efficacissimo, della reticenza è offerto dalla mobilità vagabonda, ma curiosamente esclusiva, del punto di vista. In poche parole, e con un rischio davvero minimo di esagerare, si potrebbe riassumere il metodo adottato da Green come segue: il punto di vista, in questo racconto, è dappertutto, tranne che all’interno del passeggero, indiscusso protagonista della storia. La cosa appare manifesta al lettore fin dalle prime righe. Il passeggero, che non è ancora tale, attende sul molo, in mezzo a un gruppo di bambini che giocano, di essere ammesso a bordo. Dice il testo originale: «Des cris et des rires lui parvenaient, sans doute, mais il semblait ne rien voir et tenait la tête baissée» («Certo [qui nel senso di “probabilmente”], gli arrivavano grida e risate, ma lui, a capo chino, sembrava non vedere niente»). Le parole da noi evidenziate in corsivo colpiscono subito il lettore come una sorta di dichiarazione d’intenti da parte dell’autore: che cosa passi per la testa del passeggero è e resterà ignoto; la sola azione lecita è tentare di arguirlo da alcuni indizi. Così, qualche riga più sotto, la voce narrante, capace – come nel più classico romanzo ottocentesco – di intrufolarsi ovunque, anche nella cabina chiusa del passeggero, aspetterà che quest’ultimo si tolga il cappello per descriverne l’aspetto. Come dire che l’autore è onnipresente ma non onnisciente.
Nelle sue successive peregrinazioni il punto di vista si sposterà senza tregua, ma mostrerà un’accentuata tendenza a fissarsi negli occhi del capitano. In questo secondo personaggio del racconto la legge in virtù della quale l’autore può parlare di tutto fuorché della ‘verità’ del passeggero trova la sua consacrazione. Del capitano, a differenza di quanto accade per il suo ospite, il lettore è autorizzato a scrutare i pensieri: il senso crescente di sicurezza che acquista a mano a mano che la nave si spinge in alto mare, il suo convincimento – un po’ ridicolo – di essere un fine psicologo, capace di «trouver […] la formule des personnes qu’il examinait» («trovare la formula […] delle persone che studiava»), la sua fiducia nella solitudine del viaggio che, prima o poi, spingerà “une nature nerveuse” come quella del passeggero a socializzare. È una posizione illusoria e fuorviante, del cui filtro l’autore si serve abilmente per confondere quei rari indizi che potrebbero a poco a poco aiutare il lettore a penetrare nella mente del passeggero e a immaginare la causa o almeno la natura del suo disagio.
Un terzo strumento della reticenza si nasconde nei dialoghi o, per meglio dire, nella loro beffarda capacità di esistere e non esistere a un tempo. Il capitano parla, il passeggero non risponde o, tutt’al più, risponde con una formula («Je sais») che sembra svuotare di ogni scopo le parole dell’altro: niente di più inutile che parlare a un interlocutore per dirgli ciò che già sapeva. Di modo che il contenuto prevalente delle battute di dialogo del capitano diventa con lo scorrere dei giorni e delle pagine proprio questo: il silenzio del passeggero: «Dites donc […] est-ce que vous parlez quelquefois?» («Ma mi dica un po’, insomma, […] le capita qualche volta di aprire bocca?»); «Mais vous! […] Vous ne dites rien» («E lei? […] Lei non dice mai niente»); «Mais oui […] vous ne dites jamais rien» (Ma sì, […] lei non dice mai niente»).
In un contesto in cui le parole sono così poche e il punto di vista così tenacemente eccentrico, i gesti acquistano un’importanza anomala: per ricorrere a una similitudine che l’ambientazione marinara del racconto sembra suggerire con una certa forza, i gesti diventano i soli oggetti galleggianti, i rari segni che, affiorando alla superficie, possono dirci qualcosa di ciò che l’oceano nasconde nei suoi abissi. Sistematicamente, quando si trova in una situazione di imbarazzo (e vi si trova ogni volta che il capitano gli rivolge la parola), il passeggero agisce sul suo lorgnon (che va qui inteso non come ‘monocolo’, ma come occhialetto a pince-nez, a due lenti): se lo sistema sulla sella del naso, lo inforca, se lo toglie, ci giocherella, lo tormenta. Volontari o involontari, studiati o automatici che siano, questi gesti non mirano mai a vedere meglio, né tanto meno a lasciarsi meglio vedere: il loro scopo è al contrario quello di proteggere e confondere lo sguardo nella sua funzione attiva, e di nasconderlo e renderlo irraggiungibile in quella passiva, temibilissima, di ‘specchio dell’anima’.
[1] Filippo Tuena, “Dunque, sono un altro?” su Viaggiatore in terra; Francesca Scala, “Ricorsività stilistica e scelte traduttive” su Le chiavi della morte; Giuseppe Girimonti Greco, “Né troppo, né troppo poco” su Christine, e “Il mélo in bianco e nero e i segreti del testo”, su Maggie Moonshine; Ezio Sinigaglia, “L’inammissibile trasparenza” su Leviatano o L’inutile traversata
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