Le cavie. Una selezione d’autore di poesie di Valerio Magrelli
ari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Valerio Magrelli ha selezionato per LN alcune poesie da Le cavie. Poesie 1980-2018, Einaudi, 2018, che raccoglie tutti i suoi libri a partire dall’esordio di Ora serrata retinae. Ringraziandolo, le pubblichiamo per i nostri lettori e lettrici con una nota di Damiano Frasca.
***
In questa breve nota vorrei partire da un passaggio di un’intervista che Magrelli ha rilasciato alla rivista «Micromega». L’intervista è datata 2014, pochi anni fa, eppure in anticipo sul corposo volume Le cavie, che riunisce e ordina le sei raccolte poetiche pubblicate da Magrelli dal 1980 a oggi.
Ho scritto una poesia in cui paragono le poesie alle cavie, ispirato da una frase molto bella di Isabelle Stengers. La grande epistemologa rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. Diceva sostanzialmente che Galileo non si affezionò di certo alla palla di piombo che gli serviva per dimostrare la rotazione della terra. Uno scienziato oggi non torna a casa col Bosone che studia, mentre uno zoologo sviluppa dell’affetto per la scimmia con cui lavora. Ecco, il poeta, nei riguardi delle poesie che elabora, è un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata[i].
Tra i componimenti che Magrelli ha selezionato per Laletteraturaenoi figura anche la poesia a cui fa riferimento nell’intervista, Cave cavie! dalla raccolta Il sangue amaro. Il paragone tra le cavie e i testi è talmente tanto riuscito per Magrelli da diventare un titolo che condensa quarant’anni di scrittura poetica. Le poesie sono cavie, dunque organismi viventi, secondo una vecchia immagine cara ai poeti modernisti. Crescono, vivono di vita propria, si estinguono. Ciò che rende ben magrelliana la declinazione dell’immagine è che questi organismi viventi, le poesie-cavie, si muovono sotto gli occhi di uno zoologo, di un poeta-scienziato.
Fin dalla sua prima raccolta, Ora serrata retinae del 1980, Magrelli ha unito la poesia alla filosofia, ma anche alla scienza, alla precisione e all’osservazione (si pensi solo al titolo della raccolta, traducibile “linea di confine della percettività”). Nel giovane Magrelli (anzi giovanissimo, pubblica la sua prima raccolta a soli ventitré anni) agisce una verve polemica nei confronti della poesia italiana che lo precede, così presa dai traumi storici e/o esistenziali[ii] (quando non claustrofobicamente privati, come in tanta confessional poetry degli anni Settanta). Per reazione Magrelli sceglie di ritirarsi, appunto di parlare e dire “io” come da dentro una stanza chiusa o un laboratorio. Per autoritrarsi nelle poesie di Ora serrata retinae, e nelle raccolte successive, spesso Magrelli punta sull’identificazione con figure che rimandano, come è stato notato, alla «competenza tecnica»[iii]: ad esempio il cuoco, il sarto, il custode, il chirurgo. Figure insomma, a modo loro, in camice bianco, proprio come uno scienziato che maneggia le cavie. E in fondo anche L’imballatore della poesia di Esercizi di tiptologia (è la terza raccolta, del 1992) ha pure lui – doppio del traduttore – un ruolo delicato e dalle grandi responsabilità se deve tradurre il passato nel presente.
La poesia di Ora serrata retinae si nutre di competenza e precisione. In Scivola la penna – il secondo testo della selezione – si legge di «confini geometrici» e «filari paralleli». Nel testo finale della raccolta (qui non riportato) si parla invece di «passione geometrica»; e si potrebbero fare facilmente altri esempi ancora. Uno degli elementi di novità del Magrelli degli esordi consiste nella costruzione di un soggetto lirico nuovo, un io-pensante, razionale, un alfiere dell’autocontrollo e dell’equilibrio.
Proprio per un’ansia di tenere tutto sotto controllo, l’io lirico riflette continuamente sulla scrittura, seleziona i contenuti, esclude (almeno a un primo livello) tutto ciò che potrebbe risultare spurio e centrifugo. La metapoesia è una vera e propria tentazione a cui Magrelli continuamente cede. In Dieci poesie scritte in un mese si legge: «Neanche i temi poi sono diversi / anzi c’è un solo tema / ed ha per tema il tema, come adesso».
Senza grandi ostacoli il discorso in versi sulla scrittura può aprire al discorso sul corpo. L’io parla dell’atto di scrivere, ma finisce col nominare parti del fisico umano. In Scivola la penna è emblematico «l’inguine della pagina»; ma nell’attacco di un’altra poesia di Ora serrata retinae si può leggere «Questa carta è per me prima del sonno / l’incarnazione del corpo». L’analogia associa la carta su cui si scrive (o disegna) e il corpo. E il corpo è uno dei temi frequentati abitualmente (e ossessivamente) dalla poesia magrelliana. In Codice a barre, il primo dei testi tratti da Didascalie per la lettura di un giornale (1999), il corpo – con i tendini, le vene e quanto costituisce il polso – sembra erompere nel testo gratuitamente e d’improvviso, inaspettato, mentre si parla di tutt’altro (appunto di un codice a barre).
A partire dagli anni Novanta, nelle raccolte di Magrelli il corpo comincia ad apparire nella sua fragilità, un corpo che si ammala, che si corrompe. D’altronde proprio fin da Esercizi di tiptologia (1992) l’io magrelliano esce fuori da quel laboratorio asettico in cui l’ha conosciuto il lettore di Ora serrata retinae. Nei testi del poeta il mondo e i frammenti autobiografici acquistano peso («Che la materia provochi il contagio», si legge nel primo testo da Esercizi di tiptologia). L’io parla dei propri vizi anche per il loro rapporto nocivo con il corpo.
In Io cammino fumando da Nature e venature (1987) in effetti siamo ancora un passo prima. L’io parla del fumo, ma è un fumo che non ha controindicazioni se quel «soffiavo» dell’ultimo verso richiama alla mente le filosofie antiche, con l’idea del soffio vitale.
Con Esercizi di tiptologia (il riferimento colto alla «tiptologia» allude a una comunicazione sonora condotta picchiettando, come fanno i carcerati sulle pareti che separano le celle) la poesia di Magrelli si fa estroflessa, stabilisce un nuovo rapporto con gli altri e il mondo. Si affaccia con forza nei versi la dimensione autobiografica e così tornano momenti della formazione del poeta, ricordi d’infanzia, episodi familiari. L’abbraccio, il secondo componimento qui riportato da Esercizi di tiptologia, suggerisce una parentesi privata tra l’io e il tu. Con una ripresa del topos del poeta che si rivolge a un’interlocutrice già dormiente, Magrelli offre l’immagine di un nido d’amore intimo («la cameretta è un nido riscaldato»), eppure già minacciato. C’è qualcosa di perturbante in ciò che alimenta il calore e che viene da lontano, anche nel tempo («riscaldato / da depositi organici, da roghi, da liquami»).
Un filo che lega alcuni dei testi è d’altronde proprio l’attenzione alla famiglia e alla figura dei figli. Il fuoco, il calore, la luce che puntellano L’abbraccio ritornano nel ritratto intitolato La famiglia del poeta da Disturbi del sistema binario (2006). In Infanzia del lavoro si scorge meraviglia e insieme tenerezza nell’adulto che guarda la bambina mentre impara a leggere. L’io sembra voler tirare dentro la scena il lettore, con l’imperativo «guarda» posto in apertura di testo. E (non senza specularità) il binomio figlio-scrittura si ritrova anche in Difesa e illustrazione del licantropo.
Lo scorrere del tempo, il succedersi delle raccolte, permette poi, nel libro Il sangue amaro, di mettere in relazione, attraverso il ricordo, il passato e il presente, le vacanze con il solito mal d’auto della «figlia, piccolina,» e le vacanze del poeta e della moglie anni dopo («Altre vacanze, noi vecchi, lei cresciuta», in La curva). Questo rapporto tra il poeta-padre e i figli in Magrelli sembra richiamare certi testi di Bertolucci di Viaggio d’inverno (e Viaggio d’inverno, d’altronde, si intitola una sezione di Esercizi di tiptologia). Talvolta, come in un testo non incluso in questa serie come Children corner con il suo andamento da filastrocca (ma anche per alcune tessere lessicali), potrebbe venire in mente addirittura Sanguineti.
Magrelli parla di padri e figli (si pensi al libro in prosa Geologia di un padre del 2013), ma anche della distanza tra generazioni, come si evince in “Giovani senza lavoro” e Ai giovani soli per strada (e si noti nei due casi il ricorso alla parola “giovane”). Si intravede, qui, come in alcuni dei testi sopracitati, il tono ironico e sarcastico a cui può ricorrere Magrelli. È il sarcasmo di chi si fa il sangue amaro per citare il titolo della raccolta del 2016 (Magrelli gioca spesso a riattivare metafore spente): «Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il Sangue Amaro. / È una specialità della casa, sin dal lontano 1957». Magrelli guarda la società, ne resta infastidito e non lo nasconde. La poesia è usata per denunciare le brutture del presente; la distanza da Ora serrata retinae è netta.
Nelle poesie di Magrelli l’epigrafe ha grande frequenza (qui, tra le altre, citazioni da Baudelaire, Apollinaire); il poeta sembra non poterne fare a meno, riconoscendo loro un ruolo centrale nella costruzione del significato dei versi. Con gli anni Novanta Magrelli comincia a dare sfogo alla sua vena saggistica, affiancando alle poesie – come mostra Esercizi di tiptologia – pagine di prosa. Con le prove più recenti si registra un’altra tappa nella parabola magrelliana; aumenta la presenza dei testi suddivisi in strofe e non più ideati come un unico blocco. E si può dire che Magrelli arriva a pensare in strofe, come confermano – ma sono solo alcune – le poesie “Giovani senza lavoro” o La curva o Ai giovani soli per strada.
Da Ora serrata retinae, 1980
**
Dieci poesie scritte in un mese
non è molto anche se questa
sarebbe l’undicesima.
Neanche i temi poi sono diversi
anzi c’è un solo tema
ed ha per tema il tema, come adesso.
Questo per dire quanto
resta al di qua della pagina
e non può entrare,
e non deve. La scrittura
non è specchio, piuttosto
il vetro zigrinato delle docce,
dove il corpo si sgretola
e solo la sua ombra traspare
incerta ma reale.
E non si riconosce chi si lava
ma soltanto il suo gesto.
Perciò che importa
vedere dietro la filigrana,
se io sono il falsario
e solo la filigrana è il mio lavoro.
**
Scivola la penna
verso l’inguine della pagina,
ed in silenzio si raccoglie la scrittura.
Questo foglio ha i confini geometrici
di uno stato africano
in cui disegno
i filari paralleli delle dune.
Ormai sto disegnando
mentre racconto ciò
che raccontando si profila.
È come se una nube
arrivasse ad avere
forma di nube.
Da Nature e venature, 1987
**
E se questi giri di serratura
non finissero più?
E se dovessi restare tutta la vita
qui fuori, a girare la chiave?
Faccio la copia delle mie chiavi
faccio la copia delle mie copie
quello che spendo per moltiplicarle
serve a togliere a ognuna il suo valore
il mio Valerio. Nel profilo dei versi
io riproduco la sagoma
dentellata delle chiavi.
**
Rosebud
Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scuri forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio
intorno all’oggetto colpito,
io non colgo nel segno
ma segno ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come con un’arma difettosa
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira.
**
Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo
dove prima soffiavo.
Da Esercizi di tiptologia, 1992
Che la materia provochi il contagio
se toccata nelle sue fibre ultime
recisa come il vitello dalla madre
come il maiale dal proprio cuore
stridendo nel vedere le sue membra strappate;
Che tale schianto generi
la stessa energia che divampa
quando la società si lacera, sacro velo del tempio
e la testa del re cade spiccata dal corpo dello stato
affinché il taumaturgo diventi la ferita;
Che l’abbraccio del focolare sia radiazione
rogo della natura che si disgrega
inerme davanti al sorriso degli astanti
per offrire un lievissimo aumento
della temperatura ambientale;
Che la forma di ogni produzione
implichi effrazione, scissione, un addio
e la storia sia l’atto del combùrere
e la Terra una tenera catasta di legname
messa a asciugare al sole,
è incredibile, no?
**
L’abbraccio
Tu dormi accanto a me così io mi inchino
e accostato al tuo viso prendo sonno
come fa lo stoppino
da uno stoppino che gli passa il fuoco.
E i due lumini stanno
mentre la fiamma passa e il sonno fila.
Ma mentre fila vibra
la caldaia nelle cantine.
Laggiù si brucia una natura fossile,
là in fondo arde la Preistoria, morte
torbe sommerse, fermentate,
avvampano nel mio termosifone.
In una buia aureola di petrolio
la cameretta è un nido riscaldato
da depositi organici, da roghi, da liquami.
E noi, stoppini, siamo le due lingue
di quell’unica torcia paleozoica.
**
L’imballatore
Cos’è la traduzione? Su un vassoio
la testa pallida e fiammante d’un poeta
-
Nabokov
L’imballatore chino
che mi svuota la stanza
fa il mio stesso lavoro.
Anch’io faccio cambiare casa
alle parole, alle parole
che non sono mie,
e metto mano a ciò
che non conosco senza capire
cosa sto spostando.
Sto spostando me stesso
traducendo il passato in un presente
che viaggia sigillato
racchiuso dentro pagine
o dentro casse con la scritta
“Fragile” di cui ignoro l’interno.
È questo il futuro, la spola, il traslato,
il tempo manovale e citeriore,
trasferimento e tropo,
la ditta di trasloco.
Da Didascalie per la lettura di un giornale, 1999
Codice a barre
Onoriamo l’altissimo vessillo
che sventola sul regno della cosa
l’anima crittografica del prezzo
rosa del nome e nome della rosa
mazzo di steli, fascio
di tendini e di vene
— polso
per auscultare
il battito del soldo.
**
Annunci immobiliari
Affittasi villino sopra la ferrovia
con tavernetta adiacente
il capolinea dei bus
e salotto limitrofo al metrò.
Povere case abitate dal rumore
dove famiglie piccole e isolate
si stringono — uccelletti sopra i cavi
dell’alta tensione. L’alta
tensione del censo
e delle classi, l’alta
tensione del denaro,
quella scossa invisibile
che divide le vacche
nei campi, e voi da noi.
Non toccare la corrente che ti scivola accanto,
lasciala sospirare mentre romba
via sui tralicci
nel suo cupreo fiume
intrecciato.
**
L’angolo del bambino: Associazione Sostegno Malati d’Asma
Non avere paura del respiro,
perché dà e toglie come la marea:
lascialo andare senza trattenerlo,
non chiuderlo nel pozzo dell’apnea.
Devi essere indulgente col respiro,
come se fosse uno yo-yo invisibile:
se frusciando scompare e ti abbandona,
sempre frusciando tornerà infallibile.
Da Disturbi del sistema binario, 2006
Su un’aria del “Turco in Italia”
Cara Italia, alfin ti miro.
Vi saluto, amiche sponde.
-
Rossini
Riposa tutta quanta la Penisola
avvolta da una trepida collana
di affogati. Ognuno di loro è una briciola
fatta cadere per ritrovar la strada.
Ma i pesci le hanno mangiate e i clandestini,
persi nel mare senza più ritorno,
vagano come tanti Pollicini
seminati nell’acqua torno torno.
**
Misery non deve morire
Il professor Terribile fruga dentro la bara di Petrarca.
Terribile è quest’opera di necrologia,
recensione di polvere,
critica del sudario.
Ma il professor Terribile fruga anche dentro il cranio
di Petrarca,
casomai vi restasse una quartina
avanzata,
una quartina di tenebra.
Terribile è l’amore di chi legge
e non vorrebbe smettere di leggere
nemmeno fra le ossa di chi scrisse.
Nota. Nella mattinata di martedì 18 novembre 2003, all’interno dell’arca sepolcrale di Francesco Petrarca presso Arquà Petrarca, Vito Terribile Wiel Marin, professore onorario di anatomia patologica nell’Università di Padova, ha avviato una ricognizione scientifica sui resti mortali del poeta, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. In tempi di Tomb Raider, ha rilevato Marco Giovenale, l’evento rappresenta “una specie di pac: Poetografia Assiale Computerizzata”.
**
Infanzia del lavoro
Guarda questa bambina
che sta imparando a leggere:
tende le labbra, si concentra,
tira su una parola dopo l’altra,
pesca, e la voce fa da canna,
fila, si flette, strappa
guizzanti queste lettere
ora alte nell’aria
luccicanti
al sole della pronuncia.
**
Difesa e illustrazione del licantropo
Siamo giovani, barcolliamo ancora per strade irregolari, la nostra età non ci dà la calma di pensare e agire. Non conosciamo ancora la formula dello scongiuro. Soltanto il tempo potrà placare le figure meravigliosamente diseguali che frugano nel nostro intimo e lo sconvolgono.
-
von Kleist
Mio figlio copia lettere di fuoco,
maiuscole che guizzano miniate.
Scruta per ore un libro di graffiti
riproducendo sul suo quadernetto
talismani illeggibili:
li aiuta a ardere meglio disegnando,
in un futuro criptato,
l’oroscopo della sua generazione.
E cancella, e dipinge, e corregge
affinché i fiammeggianti arabeschi
si contorcano nella vampa del colore
come le vittime di un rogo sacrificale
chiamate a ammonire i passanti
e insieme mostrare l’ustione
immedicata dell’adolescenza.
**
La famiglia del poeta
Ci amiamo tanto
ma ogni cozzo è un lampo,
qui dentro, stretti stretti,
vicini ogni momento
in un sacchetto annodato dalla sorte:
si sente forte come
per gli urti ticchettiamo!
Da noi non fa mai notte,
c’è sempre uno sprazzo che scocca
illuminandoci appena ci tocchiamo.
Noi ci vogliamo bene,
ma di un bene che abbaglia
e certe volte scotta.
Noi siamo la famiglia
delle pietre focaie.
Da Il sangue amaro, 2014
Cave cavie!
A Isabelle Stengers
O forse sono cavie, queste poesie che scrivo,
per qualche esperimento concepite,
che tuttavia non so.
Non so perché si formano,
eppure mi affeziono e le chiamo per nome,
topolini vivissimi, allarmati
da che?
**
La curva
Nella curva, la stessa, in montagna,
scendendo dalla macchina,
mia figlia, piccolina,
vomitava, per strada, tutti gli anni.
Ormai la conoscevo:
come al nostro santuario, ci fermavamo
per consolarne i pianti, pulirla e passeggiare
lungo il tornante dell’alba.
Altre vacanze, noi vecchi, lei cresciuta,
ma quella sosta mi rimane in mente,
cruna della nostra famiglia
nella fuga in Egitto.
Ogni famiglia è in fuga,
solo l’Egitto cambia.
**
“Giovani senza lavoro”
I
Giovani senza lavoro
con strani portafogli
in cui infilare denaro
che non è guadagnato.
Padri nascosti allevano
quella sostanza magica
leggera e avvelenata
per le vostre birrette.
Condannati a accettare
un regalo fatato
sprofondate nel sonno
mortale dell’età,
la vostra giovinezza,
la Bella Addormentata,
langue nel sortilegio
di una vita a metà.
II
Giovani senza lavoro
chiacchierano nei bar
in un eterno presente
che non li lascia andar.
Sono convalescenti
curano questo gran male
che li fa stare svegli
senza mai lavorare.
Di notte sono normali,
dormono come tutti gli altri
anche se i sogni sono vuoti
anche se i sogni sono falsi.
Falsa è la loro vita,
finta, una pantomima
fatta da controfigure,
interrotta da prima.
**
Invettiva sotto una tomba etrusca
Latino mortale…
-
Apollinaire
Adesso parleranno tutti uguale,
tutti la stessa lingua che ci ha tolto la nostra.
Hanno cacciato l’alfabeto tra i campi
braccandolo come un fuggiasco, come un ladro,
l’alfabeto dei padri.
Nessuno ci capirà, e nemmeno tra noi
impiegheremo più le vecchie parole,
corrose, diroccate mura delle nostre fortezze.
Ci hanno lasciato soltanto
le tombe, l’estremo ridosso.
Perciò parlo da qui,
voce reclusa nel buio
tra forme colorate, ma immobili per sempre
come l’ultimo alito
della nostra pronuncia.
Da Guida allo smarrimento dei perplessi, 2016
[…] nous devrions pourtant […]
-
Baudelaire
Questa è la mia preghiera del mattino:
controllo il mio cc ma come password
ogni volta ritrovo la tua data
di nascita.
Passo l’intero giorno senza pensarti mai,
eppure non c’è alba in cui dolente
tu non mi vieni incontro,
mentre effettuo un bonifico,
come un Lazzaro uscito dalla tomba.
Ti levi dal sepolcro del computer
e mi saluti per rimproverarmi
con l’amarezza, con quell’astio dei morti
di cui portavi in te il seme profondo
già viva. Che vogliono i morti?
Che vogliamo dai morti, per chiamarli,
con un turpe cinismo mnemotecnico?
Io sfrutto il tuo ricordo per sistemare i conti,
mentre tu torni a me,
la tua figura dura,
per fare i conti con la mia tortura.
**
I brutti gabinetti
di certi ristoranti di paese,
che hanno di speciale?
Confinano col niente.
I cani dietro abbaiano
e io mi fermo, ascolto.
Confinano col niente.
Anonimi sacrari, mite cesso
dove arrivo al confine di me stesso.
Da Sei poesie inedite (Le cavie)
Ai giovani soli per strada
gli sono cresciute le cuffie.
L’anziano cammina svagato
o corrucciato, pensa per conto suo,
ma ai giovani soli per strada
gli sono cresciute le cuffie.
Io, quando vado a spasso,
non vedo l’ora d’arrivare
e penso per conto mio;
loro, al contrario, ascoltano,
ascoltano, ascoltano, ascoltano.
Loro non fanno altro che ascoltare.
È un popolo in ascolto, che non vuole
perdere tempo, e sfrutta ogni momento
per aspirare musica. Guardali
come sfrecciano in moto o in bicicletta
e sempre avvinti al dio delle cuffiette.
Sono nutriti dalle loro flebo di note
– dipendono dai fili che pendono
e che gli somministrano catene
di liquide molecole sonore.
Un po’ pazienti, un po’ tossici,
belli, però, quando vagano assorti,
tutti votati alla pozione magica.
[i] È l’intervista apparsa su Micromega, F. Deodato, La poesia al tempo delle “larghe offese”. Intervista a Valerio Magrelli, leggibile qui http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-poesia-al-tempo-delle-larghe-offese-intervista-a-valerio-magrelli/
[ii] A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi, Carocci, Roma 2007, p. 35
[iii] G. Simonetti, La letteratura circostante, Il Mulino, Bologna 2018, p. 189
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