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La collana Wildworld e la realtà possibile

 

 Pubblichiamo una nota di Giulio Milani sulla collana Wildworld con considerazioni molto interessanti sulla situazione editoriale in Italia. Ringraziamo Milani per averci concesso la pubblicazione.

***

Una freccia verso l’altro

In un mondo editoriale e letterario sempre più colonizzato dalla celebrity press, dalla vanity press e dall’omologazione dei contenuti, un gruppo di autori ha deciso di chiudere con l’esperienza della narrativa italiana prevalente – romanzo di formazione giovanile, noir, affresco storico, non fiction novel, distopia, eccetera –, per produrre uno scarto dell’immaginario e intercettare una nuova generazione di lettori.

Due sono i miti/feticci di consolazione e adattamento che gli addetti ai lavori impiegano per ritualizzare la produzione esistente, stabilire gerarchie fantoccio e comminare prescrizioni di pubblicazione: il capolavoro senza pubblico e il successo senza qualità. Tra le due sponde, scorre un fiume da cui la filiera produttiva pesca il grosso dell’offerta libraria nazionale, costringendo di fatto chiunque aspiri – lettore o autore –, a una letteratura altra, prima che alta, a navigare sotto il confine frastagliato della riserva indiana degli aspiranti maestri/idoli della critica superstite oppure a spostarsi lungo la piatta costa della lotteria del successo; in tutti i casi l’autore, specie se esordiente (e prima di lui l’agente e l’editore, condizionati dai diktat della distribuzione e del marketing) viene spinto a rinunciare a ogni rapporto col pubblico interessato alle novità in campo letterario e alla ricerca di nuove storie e di nuovi metodi per raccontarle: l’opposto di quanto ci dovremmo aspettare, specie dalle scritture d’esordio, in termini di apporto delle cosiddette “novità”. Così il problema, in Italia e non solo, resta quello di produrre un “innesco” con una nuova generazione di lettori e quindi di generare un evento letterario, non una “novità”. Ecco, pensare i libri come eventi, ragionarci a partire da un contesto allargato, interindividuale, il più possibile condiviso: non dovrebbe essere questa la vera sfida?

Le grandi case editrici, come d’altra parte le medie e le piccole, in questo senso hanno un deficit di partenza: anche quando fanno ricerca, si limitano a recepire l’esistente e a rilanciare sempre gli stessi temi, gli stessi generi, perché la distribuzione – che è l’”editore ombra” di tutti gli altri –, chiede sempre lo stesso libro, lo stesso autore, lo stesso tema di successo. Questa tendenza del mercato all’omologazione, e quella parallela dell’autore all’epigonalità – ossia la tendenza a lavorare su modelli preesistenti – convergono e producono un’influenza che dura in media 25/30 anni: finché un vecchio filone non si è esaurito e uno nuovo ha preso piede. In questa serializzazione del mercato librario, i generi letterari muoiono dunque per inflazione? Nient’affatto. C’è chi, come Franco Moretti in “La letteratura vista da lontano”, ha studiato questo fenomeno, statistiche alla mano, e ha scoperto che un avvicendamento così regolare delle forme romanzesche deriva dal succedersi delle generazioni di lettori. Un determinato filone si esaurisce perché la generazione di lettori che lo sosteneva non esiste più, è stata sostituita da una nuova.

 

Eppure, nonostante i dati sconfortanti sul mercato editoriale, una recente generazione di lettori esiste e aspetta solo di essere intercettata dai capofila di un nuovo genere: il successo internazionale di alcune serie televisive d’autore ha dimostrato che è possibile produrre un’arte popolare che non rinunci alla qualità e all’innovazione; pur con tutti i limiti della loro serialità, che consistono nel diluire lo spessore del racconto in un funzionalismo esasperato, volto a giocare con le aspettative dello spettatore fino al limite dell’assurdo e del bozzettismo, queste prove dimostrano che là dove la produzione artistica e culturale viene ancora pensata, magari con un lavoro di squadra non frettoloso, si può guadagnare un pubblico consistente senza appiattirsi sull’evasione e sulla serializzazione fine a sé stessa.

Che fare? Non ci serve un memorandum, un dogma o un manifesto, ma un metodo: perché il metodo è un libero percorso e può cambiare

Se c’è una cosa che ci insegna la letteratura di ogni tempo e di ogni latitudine, è che «la realtà supera la fantasia»; chiosava Sartre, all’indomani di una catastrofe storica e umana senza precedenti, che «l’esistenza precede l’essenza»: crisi e opportunità sono le due facce di ogni trauma. Sempre nel dopoguerra, si racconta che Zavattini aprisse i giornali, ogni mattina, alla ricerca di fatti di cronaca da elaborare in forma di soggetto: appena ne trovava uno interessante, subito correva in Siae per registrare lo spunto per un nuovo film. Vera o no l’aneddotica, dobbiamo ripartire da questo spirito, per trasformare la nostra vocazione al racconto nella necessità di essere letti e di leggere una realtà che ci sta spesso un passo avanti.

Il riferimento a una realtà umana traumatica, tuttavia, non può (più) limitarsi alla pedissequa rappresentazione dei fatti, poiché insieme ai fatti ci sono i media, i dispositivi tecnologici e le interpretazioni/narrazioni prevalenti: nell’epoca del relativismo scientifico cristiano, dello storytelling politico-giornalistico, della inesausta costruzione di percezioni di emergenza, dello spazio di lavoro globale offerto dai social network per uno sviluppo formidabile (anche in senso etimologico) della coscienza intersoggettiva, cade il secondo movimento, dove la realtà possibile del romanzesco può lanciare le sue ipotesi e lavorare proprio sulla percezione prospettica. La narrazione è infatti un’arte metacognitiva e manipolatoria (in senso tecnico) che può farsi scienza, in modo non dissimile dalla medicina. Possiamo chiamarla, per brevità, “scienza storica spettrale”: a questo metodo affidiamo il compito prometeico di superare i limiti del percepito e dell’esperienza del singolo.

Se c’è un terreno da gioco dove invece «la fantasia supera la realtà», questo è il romanzo di genere: distopia, ucronia, thriller, gotico, soprannaturale psicologico o sociologico, per citare solo alcuni dei rimedi a cui possiamo demandare il compito di curare le interpretazioni, le rappresentazioni, il simbolico che ammalano di isteria metaforizzante il linguaggio della realtà, sul suo stesso corpo. Occorre allora ripensare l’intera categoria del genere “realista”, e nello stesso tempo portare all’estremo ogni confine tra generi letterari. Bisogna sfondare i limiti della aderenza ai fatti, o per meglio dire della loro narrazione standardizzata, di maniera, come della focalizzazione soggettiva, giocando l’estraniamento verso e contro sé stesso. I riferimenti a “persone esistenti e a fatti realmente accaduti” costituiscono il pretesto, ossia l’intreccio “superiore a ogni fantasia” per intercettare sensibilità e fenomeni collettivi e lanciare, da qui, ipotesi romanzesche che non si appiattiscano su un valore meramente documentario, ma accedano al livello simbolico/metaforico universale attraverso la narrazione di relazioni biografiche individuali.

Se si dà per scontato il ritorno alle piccole patrie e la crisi del modello corrente di globalizzazione, è necessario tornare alla riscoperta di quei caratteri che resistono, nel nostro paese più che altrove, all’omologazione dei contenuti. Questo, non per riproporre un passato idealizzato o fantomatiche matrici culturali, ma per andare a ricercare con curiosità e voglia di lasciarsi sorprendere quegli infiniti spazi di libertà e di differenza che gli individui e le comunità riescono ancora a riservarsi.

Il paese cambia e lo dice, la realtà umana è conoscibile, ma bisogna prestargli ben più di un organo di percezione: ci occorre una metodo e una teoria. Ne scaturisce una nuova attitudine all’ascolto, attenta per esempio alla cronaca, alla storia, come alla fragilità dell’individuo e alla coabitazione col paradosso e il mostruoso, ma “curvate” – dalla commistione con altri generi letterari –, fino a configurare una sorta di “neorealismo avantpop”.

I naufragi dei migranti sulla rotta europea, per esempio, vengono raccontati con forme narrative asettiche, ripetitive, indistinguibili le une dalle altre: la nostra graduale assuefazione all’assurdo e al male è la stessa che provano i parenti di Gregor Samsa davanti all’insetto. Il colpo di scena non è soltanto, scrive Orlando ne “Il soprannaturale letterario”, il dato in sé della trasformazione nella sua assoluta inverosimiglianza, quanto soprattutto il modo in cui la cosa viene accolta dalla vittima e da tutti gli altri personaggi: «Ci si scandalizza, sì, ci si meraviglia, ma non come di fronte a un fatto mostruoso, o meglio soprannaturale, bensì come davanti a una disgrazia piuttosto insolita, strana, ma non inammissibile». La metamorfosi da persona umana a insetto, nell’indifferenza dei più, finisce col rappresentare la premessa di un consenso passivo al male. L’inerzia non è un programma di sterminio, ma un processo di adattamento naturale e insieme di riduzione della persona a spettatore di eventi che ridefiniscono in continuazione il concetto di normalità. Proponiamo dunque di uscire da determinati schemi narrativi con la stessa forza dell’incipit della “Metamorfosi”, che è «come un pugno sul tavolo» della realtà e delle sue rappresentazioni. La scrittura di eventi realistici o verosimili, come pure la loro rielaborazione, non deve più passare dalla presunta oggettività dei mezzi di informazione di massa o del giornalismo narrativo, ossia dalla doxa dell’opinione pubblica, dall’impalcatura dei luoghi comuni, ma dal lavoro di impostura e manipolazione – ossia di mediazione sociale, tra voce collettiva e individuale –, tipico dell’intersoggettività del letterario: solo in questo modo la menzogna e il paradosso diventano un mezzo (perturbante) per restituire il trauma delle relazioni umane.

I sei romanzi usciti fin qui nella collana Wildworld propongono dunque un’idea di realismo allargato, con un regime di realtà che annette al suo interno anche elementi inverosimili e mitopoietici, come in Balzac e Trollope, o nel Petrolio di Pasolini, evitando di infognarsi nelle questioni di autofiction e non-fiction che designano delle categorie narrative molto più ristrette. Invece, il passaggio dall’io possibile dell’autofiction alla realtà possibile della Wildworld deve essere letto come un ritorno al romanzo: non un romanzo integralmente verosimile, come quello realista tardoottocentesco, ma una narrazione capace di espandere la realtà attraverso la nominazione di enti immaginari o impossibili trattati “come cosa salda”.

La prima bozza di queste note è stata redatta nel giugno del 2017 presso il rifugio “Nello Conti” ai Campaniletti (Alpi Apuane), sulla base dei colloqui tra gli autori Marco Aragno, Mario Bramè, Marco Mantello, Fabio Morpurgo, Giulia Seri e l’editore Giulio Milani. A quel primo nucleo di considerazioni, si sono sommati nel tempo i consigli, le integrazioni, gli spunti di altre persone a diverso titolo interessate allo sviluppo originario del progetto, come lo scrittore Demetrio Paolin e il critico letterario Lorenzo Marchese, oltre al contributo degli autori che in seguito sono entrati a far parte della collana.

Gli autori della Wildword, che firmano collettivamente queste note, ringraziano per l’aiuto e la collaborazione.

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