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diretto da Romano Luperini

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Su Lux di Eleonora Marangoni

Eleonora Marangoni,  LUX

Neri Pozza, 2018 

«Il giorno in cui gli comunicarono che aveva ereditato una sorgente d’acqua minerale, un vulcano inattivo e una pensione scalcinata in un’isola del Sud dell’Europa, Thomas G. Edwards amava ancora perdutamente Sophie Selwood.

I due non si vedevano da quasi sette anni; lei nel frattempo si era fatta crescere i capelli fin sotto le spalle e aveva preso a legarli tutti i giorni in una treccia che pendeva sempre leggermente da un lato. […] Thomas tutto questo non poteva saperlo: aveva conosciuto Sophie con un rassicurante caschetto castano e non la immaginava mai con una pettinatura diversa.

Quel giorno era un martedì […]. Thomas era in macchina verso Primrose Hill, al ritorno da un pranzo di lavoro con un coreografo turco che lo aveva ingaggiato per curare le luci del suo prossimo balletto, La nave abbandonata. All’altezza del parco un po’ di traffico obbligava i londinesi a rallentare, invitandoli a sbirciarsi l’un l’altro dai vetri appannati delle auto. Attività cui Thomas si stava dedicando senza grande interesse quando il telefono squillò, dando inizio alla serie di eventi che queste pagine cercheranno di raccontare.»

La prima pagina di questo romanzo d’esordio di Eleonora Marangoni sembra aprire prospettive allettanti per il lettore alla ricerca di nuovi orizzonti. L’isola e il vulcano, la sorgente d’acqua e il Sud suggeriscono archetipi di quei viaggi letterari in “nave” che sono a fondazione della nostra cultura e sottintendono pagine e autori famosi. Ma poi c’è l’amore de lohn, così cortesemente lirico, e Londra, la città moderna, che garantisce la presa sul presente del nostro tempo. Il tutto imbandito da un narratore che si dichiara subito onnisciente. Il lettore, che ha letto la prima pagina, si attrezza per l’inevitabile avventura che gli è stata promessa. È il patto a cui non si può derogare: lo scrittore ne stabilisce i confini e le caratteristiche per sua libera necessità; il lettore ne accetta i termini, sospende la logica della realtà in cui vive per entrare nella logica della realtà del racconto che legge. Una volta stabilito, il patto non può essere infranto. Se accade, crolla il castello di carta.

L’isola che non c’è

Non c’è nulla di male nello sbarcare su un’isola che non esiste, a patto che l’approdo abbia un senso, spalanchi l’altra dimensione e nell’utopia si realizzi il sogno, si manifesti la protesta politica o sociale, la rivelazione psicologica o esistenziale. Ma quest’isola dell’Italia del Sud, dalla vegetazione e dal clima tropicale, non è un altro mondo, è soltanto, suo malgrado, proprio “come un punto e virgola buttato a caso su una prova di stampa” (p. 55). E su un’isola di carta nessuno si fiderebbe di poggiare i piedi.

Ma vediamo gli “eventi” che ci sono stati promessi. Thomas G. Edwards, di padre inglese e di madre italiana, sfacciatamente benestante, eredita da uno stravagante zio materno quanto detto in incipit. Per sbarazzarsi dell’inutile lascito, per bizzarra clausola del compratore, deve recarsi sull’isola dove sorge l’Hotel Zelda. Parte con Ottie Davis, con la quale fa “coppia fissa” “da quasi un anno” e il figlio di sette anni. “Ottie non era bella” e sta costruendo “una piccola fama” come chef “per aver inventato un modo di cucinare gli scarti delle verdure”. Il soggiorno della donna sull’isola dura soltanto una notte perché, “la spalla sfregiata da una medusa e la gamba destra dalle punture di un insetto indiavolato” (p.87), è costretta per curarsi a recarsi sull’isola Grande, lasciando Thomas all’Hotel Zelda, in attesa del compratore. Qui si sistema anche Agave, una “puttana” locale, “grassona”, che, dietro compenso, aveva ceduto ad Ottie il proprio posto su un gommone. Gli altri ospiti sono: Gugliemo Gandini, scrittore, di Monza; Olivia Lubic, triestina, biologa, incinta di sette mesi, giunta per studiare Leonis amaryllis ducatae di cui è ricca l’acqua della sorgente. Altri personaggi presenti sono il custode Gero Ruticò, ozioso e un po’ brutale di cui si narrano i trascorsi sessuali con precedenti cuoche e clienti, e Bembo, un bambino, che fa l’autista, il cuoco, e pronuncia discorsi costituiti da un’unica parola per volta. Una notte di pioggia un piano e mezzo dello Zelda si allaga e tutti, ospiti, custode e bambino tuttofare, trascorrono insieme la notte nella stanza di Gandini che era la più alta dell’edificio. Thomas parla del suo amore per Sophie ad Agave

«E dov’è adesso, Sophie?».

«E chi lo sa».

«Hai fatto qualcosa per rivederla?».

«No. Ma è l’unica donna che abbia mai amato».

«Sarà».

«Come?».

«Da queste parti ragioniamo diversamente. Se vogliamo qualcosa o qualcuno ce lo andiamo a prendere».

«Ma cosa si fa se si ha la certezza che quel qualcuno sta molto meglio senza di noi?»

«Te l’ho detto: non ci facciamo tutte queste domande».

«Comunque amare qualcosa a distanza ha la sua bellezza» aggiunse Thomas subito dopo. (p. 158)

E dopo due pagine Thomas bacia Olivia. Al mattino gli occupanti della stanza si svegliano perché Agave nel sonno recita strofe di Rosa fresca aulentissima. L’acqua che aveva inondato l’albergo è scomparsa e in compenso dentro l’albergo “al centro del salotto” c’è una nuvola che attraversa le stanze e poi esce fuori. Gandini, da scrittore, rimane deluso “perché sperava che dopo un’apparizione tanto plateale quell’evento avrebbe prodotto qualcosa di altrettanto prodigioso, e così invece non era stato.” (p.164) Intanto la sorgente, in cui prosperavano amaryllis, all’improvviso secca e il “Nuovo Proprietario”, Ettore Musante, constatato il fatto e le condizioni della pensione, decide di non concludere l’affare. Ritornati a Londra, Thomas e Ottie si separano senza alcuna sofferenza o ragione. Dopo un anno e un mese dalla notte di pioggia apre il Nuovo Hotel Zelda, voluto da Thomas

«Il principio del Nuovo Hotel Zelda è semplice: è un luogo in cui chiunque può lasciare andare quello che non gli serve più e, in cambio, portarsi via qualcos’altro. Non è nato per vendere. È un posto fondato sul baratto, pensato per regalare alle cose, e alle persone, un’altra possibilità. È tutto il contrario di una discarica, perché nasce per salvare, e non è di certo un museo, perché vive di disordine e casualità. Ricorda più un laboratorio o un gattile […]. È lì che Tom ha portato tutte le cose di Sophie […]» (pp.238-9)

Il libretto, da distribuire ai primi ospiti, che elenca gli oggetti presenti in hotel finisce nelle ultime pagine del romanzo nelle mani di Sophie, che senza sapere perché lo mette “sul comodino” e si addormenta accanto al marito Javier, dopo aver convinto Daniel, il figlio, a mettersi a letto.

Le parole e le cose 

La Marangoni sembra affascinata dalle parole che usa con disinvoltura dannunziana mescolando termini botanici a titoli di canzoni, l’espressione lombarda (usata anche da Porta) “gibigiane” (p. 78), con marche di costose valige tedesche ultraleggere, marshmallow e qualche altro campione lessicografico che induce il lettore alla meditabonda postura di don Abbondio che si imbatte in Carneade. Forse si vuole far risaltare il lemma come gemma nella pagina e far scoccare il plauso per la desueta o ingegnosa trovata verbale. Ma chi si compiace della parola molto spesso perde il contatto con la cosa. L’adagio del Censore, rem tene verba sequentur, dovrebbe essere la regola aurea per chi si accinge a raccontare qual-cosa: chi decide di scrivere un romanzo deve sapere che cosa vuole raccontare e le parole saranno adeguate alla narrazione, l’esistenza del significato copre, allora, il silenzio della pagina bianca. Invece, molto spesso assistiamo al paradosso di leggere un romanzo pieno di elenchi di cose che sono soltanto elenchi di parole. Piacevoli successioni, curiosi inventari da nouveau roman ma senza una struttura che ne organizzi la presenza e che dia al lettore il conforto di capire perché legge quello che sta leggendo. Del resto questo romanzo non vuole essere un antiromanzo, fondato com’è su un protagonista intorno al quale ruotano gli altri personaggi, tutti scrutati dall’occhio onnisciente del narratore. C’è l’amore infelice considerato come unico vero amore, ma non si capiscono le ragioni per le quali bisognerebbe pensarla così. Le cose vengono dette e non raccontate. Tutto rimane in superficie, il che può anche  essere piacevole. Se si vuole intrattenere, lasciando al lettore qualche pausa per pensare quando si imbatte in una bella frase, improvvisamente dotata di un qualche spessore, in una sentenza gnomica o in un principio dato per universale, allora il risultato è stato raggiunto.

Andrea Sperelli

«Al tempo stesso, tutto lo interessava e tutto lo lasciava indifferente; solo la bellezza di cose minuscole e di connessioni effimere pareva colpirlo nel profondo, perché in quegli attimi passeggeri scorgeva la parte più vera e durevole di se stesso, quella che sapeva resistere alla noia e allo strano uso che le abitudini facevano del tempo» (p.24)

Thomas ci viene presentato come un pronipote dell’esteta, certo lavora, per quanto “avrebbe potuto permettersi di vivere senza quasi lavorare”, e dopo la morte della madre

«Salì su un treno che attraversava la Manica e da quel giorno, per tre mesi, non fece che andarsene in giro per il mondo perdendosi dove gli capitava, da solo o con persone che non avrebbe più rivisto, abbandonando quel che trovava sul suo cammino, abusando di tutto e senza prendersi cura di nulla, viaggiando senza sosta e dormendo senza mai trovare riposo. Non scrisse mai a casa, perché nessuno aspettava sue notizie […]» (p.13)

Il che è un’elaborazione del lutto che non tutti possono permettersi e che comunque non lascia alcuna traccia in quanto viene, per così dire, narrato: questa caratterizzazione del protagonista non collima con quanto accade dopo le pagine iniziali, sembra che la narratrice abbia a che fare con un altro personaggio nelle pagine successive, senza che nulla sia accaduto a modificarne i connotati psicologici.

 «Ma la vita intanto era andata avanti, e nel frattempo Thomas aveva fondato il suo studio, cambiato due case e altrettante macchine, ben quattro assistenti e almeno una decina di ragazze.» (p.13)

E così raggiungiamo una sorta di dandy degradato, che da raffinato ed eccentrico collezionista, di cui conserva un ricordo “Spesso a parlargli di lei erano oggetti, e allora li collezionava” (p. 47), diventa consumatore massificato di “semplici souvenir di viaggio” (p. 48). È abbastanza sconcertante che a costruire Thomas così sia una donna: c’è una specie di vena misogina nel considerare ovvi comportamenti evidentemente maschilisti che mettono sullo stesso piano la sostituzione di oggetti, donne amanti, e dipendenti donne. Ma Thomas, ci viene detto, continua a pensare a Sophie. Anche Andrea Sperelli continuava a pensare ad Elena, ma con decadente sensualità e con una profondità sufficiente a dare corpo al personaggio. Thomas, invece, nella sua dimensione epidermica è la deformazione postmodernista della decadenza. Oppure è semplicemente un personaggio di carta. Un personaggio che non c’è. Come l’isola.

Del resto, una volta accumulati nella centenaria casa di campagna di Shere, Thomas “dimenticava” gli oggetti accumulati. Alla fine del romanzo tutti questi oggetti saranno raccolti e depositati nell’Hotel Zelda per essere scambiati. Forse è una catarsi. Ma da un romanzo ci si aspetta qualcosa di meglio o di più della liberazione degli oggetti.

Fiat lux

Il titolo rimane abbastanza oscuro. Certo Thomas è un architetto light designer, ma fosse stato notaio, medico o petroliere non sarebbe cambiato nulla. Una volta stabilito l’alto reddito, il resto rimane insignificante nella costruzione del personaggio. Nessuna nuova luce, peraltro, investe il lettore a conclusione della lettura. Gradevole. Adatta forse alla luce estiva. Come accade a tanti libri da leggere sotto l’ombrellone.

Anche il ruolo del narratore onnisciente rimane oscuro. Certo leggiamo pagine di diario di Gandini, leggiamo l’unica email  spedita da Olivia al padre del nascituro, ma non aggiungiamo molto a  quanto già sapevamo. Per esempio non riusciamo a capire che tipo di uomo sia Thomas e che donna sia Sophie. Non riusciamo a capire neanche cosa sia l’amore per i personaggi e per il narratore. Daniel chiede: 

«Come faccio a capire che sono innamorato?» […] Erano in aeroporto, avevano ritirato le valigie e stavano camminando uno accanto all’altra verso l’uscita. «Le vedi quelle porte laggiù?» gli aveva risposto Sophie indicando le porte automatiche che aveva davanti. «Se quando le attraversi ti guardi intorno e, anche se non ce ne sarebbe la benché minima ragione, per un attimo speri di incontrare quella persona, be’, allora significa che sei innamorato». (pp. 228-229)

Tuttavia, Sophie “Amava Javier dal primo giorno. Ma le porte automatiche degli aeroporti, con lui, non avevano niente a che fare.” Sembra la tradizionale distinzione tra un placido amore coniugale e il tempestoso e infelice amore passionale, Emily Brönte in versione Sliding doors.

Prose della volgar lingua

Perché chiamare un bambino, nativo di un isola dell’Italia meridionale, Bembo? E perché abbigliarlo con una “tunica bianca” (p.57) e delle “scarpe da ginnastica” un tempo rosse? Perché il suo nome è ricamato sulla sua tunica? Come fa un bambino a guidare “un vecchio scuolabus dipinto di blu”? A parte quest’ultimo evidente omaggio a Domenico Modugno e alla canzone considerata nel mondo l’inno italiano, questa serie di domande, che si concentrano su un personaggio secondario, sono emblematiche della condizione di recupero dell’incredulità del lettore, troppo spesso messo a cimento dalla Marangoni.

Il testo si consuma in qualche bella frase. Troppo poco per fare di un libro un romanzo. Anche se scritto bene.

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