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Metahistory di Hayden White: Intervista a Fabio Milazzo

 A cura di Claudia Boscolo 

L’editore Meltemi ripropone l’importante opera di Hayden White, Metahistory, pubblicata nel 1973 dalla Johns Hopkins University Press (e riedita dallo stesso editore negli Stati Uniti nel 2014 con una nuova prefazione dell’autore). L’opera è apparsa in Italia nel 1978 nella traduzione di Pasquale Vitulano per l’editore napoletano Guida. Fuori catalogo da tempo, era introvabile: questa riedizione costituisce quindi un momento importante per gli studi storici e storiografici, ma anche per la ricerca filosofica e per la critica letteraria. Abbiamo intervistato Fabio Milazzo, autore dell’Introduzione ai due volumi in cui è stato suddiviso il volume originale. Milazzo inserisce l’opera di White nel contesto culturale in cui è apparsa, discutendone il ruolo e la rilevanza per l’interpretazione dei fenomeni storici e culturali, a cui appartiene anche la letteratura.

***

1. Per quale motivo si è ritenuto che questo fosse un buon momento per proporre al pubblico una traduzione integrale di Metahistory di Hayden White? C’è una ragione particolare per cui quest’opera viene riedita proprio in questa fase storica?

Prima di rispondere vorrei innanzitutto ringraziare te e la redazione di La letteratura e noi per questa intervista e per l’attenzione dimostrata alla nuova edizione di Metahistory. Venendo alle tue domande, invece, preciso che la scelta di proporre al pubblico l’opera di Hayden White è di Maurizio Guerri (Accademia di Belle arti di Brera, Milano e Istituto nazionale “Ferruccio Parri”), direttore della collana di Estetica e Cultura visuale di Meltemi che ha ospitato i due volumi che costituiscono l’edizione italiana di Metahistory. La ragione principale è che l’opera risulta da tempo irreperibile sul mercato editoriale italiano e questo nonostante rappresenti uno degli studi di teoria storiografica più importanti del Novecento. A questo motivo bisogna aggiungere che la scrittura della storia, intesa come pratica sociale, conosce in questa fase un momento di crisi legato, secondo me, a un diffuso “presentismo” le cui cause sono legate a trasformazioni sociali, storiche e finanche antropologiche. A questa crisi il mondo degli storici, degli insegnanti, degli intellettuali, ha risposto perlopiù con delle chiusure conservatrici e attraverso delle rigidità corporative che non hanno giovato al dibattito storiografico innanzitutto. In relazione a ciò l’opera di Hayden White è quanto mai “inattuale”, ma ancora in grado di dire qualcosa di importante sulla storiografia, di problematizzarne lo statuto discorsivo e di aprirla verso un nuovo futuro.

2. Dalla sua prima pubblicazione nel 1973, Metahistory è stato subito acclamato come un testo fondamentale per comprendere la storiografia. Qual è, secondo te, la novità di questo approccio alla storiografia – considerato che si tratta di un’opera che ha oramai più di quarant’anni –, e quali invece ritieni che siano i suoi limiti?

Sintetizzando brutalmente possiamo dire che Hayden White, con la sua opera, ha posto i riflettori su un aspetto centrale della pratica storiografica, ma sovente messo tra parentesi per salvaguardare le esigenze di scientificità della disciplina: l’intreccio retorico che sostiene e dà forma all’operazione storica. Muovendo da questo punto di osservazione, che si inserisce in una più generale attenzione che in quegli anni viene rivolta ai problemi posti dal linguaggio, Hayden White si è interrogato sui limiti e le condizioni di possibilità del discorso storico. Nello specifico egli ritiene che lo storico, come qualunque altro narratore, nel suo lavoro si caratterizzerebbe non tanto per l’organizzazione metodologica attraverso cui puntare alla ricostruzione oggettiva del passato, ma per le strategie discorsive attraverso cui organizzerebbe il materiale a disposizione. Questo punto di vista ha il grande merito di mostrare come la narrazione storica sia innanzitutto una costruzione di senso, una interpretazione di elementi che nella loro singolarità non rimandano ad alcuna realtà che attende di essere scoperta o ritrovata. Il limite di questa operazione è – come in effetti è avvenuto – favorire l’idea che ciò equivalga all’impossibilità di separare il vero dal falso e quindi la disseminazione potenzialmente infinita delle narrazioni, tutte ugualmente legittime. Non è così, neppure per Hayden White.

3. Nel corso dei decenni Metahistory è stato utilizzato con maggiore entusiasmo come strumento interpretativo nel campo della critica letteraria, piuttosto che in quello della storiografia. Penso ad esempio a Scritture di resistenza (che ho curato con Stefano Jossa, uscito con Carocci nel 2014), oppure a La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo di Emanuela Piga Bruni (Mimesis 2018, qui una recensione), saggi interpretativi in cui si è fatto ampio uso del pensiero di White per comprendere i meccanismi della narrativa metastorica. Da cosa credi dipenda questa particolare applicazione delle teorie che vi sono enunciate?

Ritengo dipenda proprio dall’attenzione che Metahistory dedica a quella che François Hartog ha definito la «questione del segno», vale a dire l’idea che la realtà si dia al soggetto conoscente sempre in una forma organizzata discorsivamente. Ciò ha favorito un uso metanarrativo abbastanza esteso delle teorie di Hayden White, in particolare per ciò che riguarda la ricostruzione dei dispositivi retorici che danno forma all’artefatto narrativo. D’altra parte, il lavoro svolto in Metahistory consiste essenzialmente in una serrata e attenta analisi dei tropi narrativi rintracciabili nelle opere di quattro storici – Michelet, Ranke, Tocqueville e Burckhardt – e quattro filosofi – Hegel, Marx, Nietzsche e Croce. L’intento di Hayden White, che è quello di delineare un metodo attraverso cui identificare le componenti strutturali del racconto storico, favorisce la sua applicazione – come è stato fatto – anche nel campo della critica letteraria. Ciò, se da una parte ha consentito un certo successo di Metahistory in campi diversi, di fatto ha contribuito ad aumentare il sospetto e la diffidenza degli storici per un’operazione che, in ultima istanza, è stata recepita come un attacco alle pretese di scientificità della storiografia.

4. La presa di posizione di Carlo Ginzburg nei confronti dell’opera di Hayden White ne fa emergere una criticità, ovvero l’ipotesi che gli storici possano essere considerati alla pari degli altri narratori. La preoccupazione di Ginzburg origina dalla comparsa del negazionismo nel panorama della storiografia internazionale. Vorresti sintetizzare per i lettori del nostro blog i punti salienti di questa critica e la sua attualità e rilevanza? Ti sembra che una critica così posta sia giustificabile nei fatti, cioè a giudicare dal modo in cui la storiografia si è mossa negli ultimi decenni?

La questione che tu poni, relativa alla possibilità che gli storici vengano considerati alla pari degli altri narratori, in effetti, è quella che più ha inciso sulla ricezione di Metahistory e sulla diffidenza che l’opera ha riscontrato presso gli storici stessi. D’altra parte, non bisogna negarlo, è stato lo stesso White ad aver considerato programmaticamente «l’opera storica […] una struttura verbale in forma di discorso in prosa narrativo». Per comprendere adeguatamente la posizione di White bisogna però inserirla nell’orizzonte culturale  ̶  il linguistic turn  ̶  in cui ha preso forma e nella feroce critica da questo sviluppata nei confronti delle grandi narrazioni e delle teleologie tipiche della filosofia della storia ottocentesca. Sullo sfondo l’idea che sia impossibile rintracciare il riferimento ultimo della realtà e quindi stabilire la verità di una visione storica piuttosto che un’altra.

Tale prospettiva ha attirato su White le critiche di molti storici che hanno individuato in lui un riflesso della degenerazione postmodernista e del relativismo nichilistico. Per restare in Italia, Momigliano prima e Ginzburg dopo, hanno espresso i loro timori per le conseguenze di un approccio che a loro dire eliminerebbe la ricerca della verità come compito fondamentale dello storico. Il rischio concreto, come sostenuto da Ginzburg in Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, pubblicato nel 1992,[1] è quello di riconoscere legittimità a degenerazioni storiografiche come il negazionismo che sostiene l’invenzione dei campi di sterminio. In fin dei conti, si chiede Ginzburg evocando Pierre Vidal-Naquet, la cui madre è morta ad Auschwitz, una volta messe in discussione le idee di verità e di realtà, cosa impedisce di credere a Faurisson e agli altri negazionisti?

Gli interrogativi e i timori di Ginzburg sono legittimi ma, a mio parere, mancano il bersaglio quando si riferiscono all’opera di White. Lo storico statunitense, infatti, ha indubbiamente sostenuto che il discorso storiografico può essere avvicinato all’opera letteraria, con cui condivide dei “tropi” scelti sulla base di valutazioni estetiche e morali e non scientifiche. Ed è sempre vero che secondo White la storia prende forma sulla base di una scelta dello storico che dà senso a un insieme disperso di avvenimenti che «nel loro stato primitivo» sono sconnessi e in frantumi. Eppure questi avvenimenti possono essere contraddistinti come accaduti o non accaduti, ed è quanto è possibile stabilire a livello della cronaca, a tutti gli effetti la precondizione dell’operazione storiografica. In sintesi, lo storico costruisce una narrazione dotata di senso sulla base di dati intersoggettivamente verificabili  ̶  gli avvenimenti  ̶  che presi nella loro singolarità sono insignificanti. Questo vuol dire però che ci sono interpretazioni ammissibili e altre illegittime (come quelle dei negazionisti), poiché basate su informazioni scorrette, non adeguatamente verificate o su eventi semplicemente non accaduti. E all’interno delle interpretazioni ammissibili l’unico responsabile delle scelte effettuate è proprio lo storico, eticamente chiamato a rispondere nell’agone pubblico della propria “costruzione di senso”. Ciò, secondo me, contribuisce a riconoscere un valore etico e politico fondamentale all’azione dello storico. Un valore che, nelle sue conseguenze, attende ancora di essere adeguatamente problematizzato e riscoperto.

[1] In Quaderni storici, Vol. 27, No. 80 (2), 1992, pp. 529-548.

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