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diretto da Romano Luperini

olimpiadi di italiano

Chi ha paura dell’INVALSI?

  Negli ultimi mesi l’Invalsi è tornato a fare notizia non solo perché le prove sono approdate all’ultimo anno delle superiori, ma soprattutto perché il governo ha manifestato l’intenzione di cambiare, se non addirittura di sopprimere, gli Enti di valutazione tra cui INVALSI e ANVUR.(Repubblica 14/12/2018) Al momento in cui pubblichiamo queste riflessioni non sappiamo se e per quanto ancora saranno in vita le prove INVALSI perché le intenzioni del governo non sono molto chiare. La notizia ha però acceso un ampio dibattito sulla stampa, con interventi per lo più molto critici, (Rossella Latempa. Fa eccezione un articolo favorevole di Chiara Saraceno). Le critiche all’INVALSI non sono un fatto nuovo ma ne hanno accompagnato lo sviluppo dal momento dalla sua comparsa sulla scena della scuola italiana, con forme di dissenso a volte particolarmente accese come nel caso del gruppo “noInvalsi”.

 Le principali critiche rivolte all’Invalsi sono che le prove:

1- sono utilizzate in modo surrettizio per valutare i docenti e i dirigenti;

2- non sono uno strumento valido per misurare l’apprendimento degli studenti; in particolare non si può valutare la comprensione del testo attraverso un questionario a risposta multipla;

3- favoriscono una distorsione della didattica attraverso l’addestramento a superare la prova (teaching to test);

4- più in generale, rappresentano una “deriva tecnocratica” della scuola, non solo italiana.

Queste obiezioni hanno un certo fondamento e spiegano anche la cattiva fama di cui gode l’Invalsi tra gli insegnanti.

Tuttavia, prima di pronunciare una condanna senza appello, è importante capire perché le rilevazioni nazionali siano state introdotte nella scuola italiana e quale ricaduta abbiano avuto sulla didattica delle discipline coinvolte: italiano e matematica.

A partire dall’anno 2000 l’OCSE ha promosso un’indagine periodica sui sistemi scolastici dei vari stati, per valutare la loro efficacia. Attualmente il “Programma per la valutazione internazionale dello studente” (P.I.S.A.) coinvolge più di 80 paesi e promuove un’indagine sui quindicenni per comparare le loro competenze di lettura, matematica, scienze e, da ultimo, in ambito finanziario.

Si può discutere sull’idea di mettere i sistemi scolastici in competizione tra loro, ma l’indagine PISA valuta certamente competenze essenziali per affrontare la vita adulta. Per questo motivo i singoli Stati sono molto interessati a capire la salute del loro sistema scolastico e gli ambiti di miglioramento.

Le prime indagini PISA hanno evidenziato che i quindicenni italiani erano in notevole ritardo rispetto ai loro coetanei di altri paesi.

PISA Competenze di lettura 

Media OCSE: 500

Punteggio dell’Italia

tra parentesi il posto in classifica dell’Italia

2003

2000

2006

476 (25)

487 (20)

469 (24)

L’OCSE PISA ha dato la sveglia alla scuola italiana e ha spinto il legislatore a introdurre una rilevazione annuale promossa dall’INVALSI, che è ora prevista in seconda e quinta primaria, alla fine della terza media, in seconda superiore e da quest’anno anche alla fine della quinta superiore.

Che cosa valuta l’Invalsi?

Le rilevazioni OCSE PISA sono state pensate per monitorare i sistemi scolastici e questa è anche la finalità primaria dell’Invalsi che a differenza del PISA non indaga solo un campione statistico, ma tutti gli studenti dei vari livelli, per ricavare informazioni dettagliate anche sui singoli soggetti. Tuttavia da questi dati spesso sono state estrapolate surrettiziamente anche delle valutazioni sui docenti o sui dirigenti. Questa operazione rappresenta il vulnus originario che ha reso gli insegnanti sospettosi e sfiduciati perché è stata percepita come una forzatura inaccettabile. Infatti lo strumento d’indagine, pensato per valutare il sistema scolastico attraverso alcune competenze degli studenti, non risulta congruente con la valutazione della didattica di una parte dei docenti (di italiano, matematica) o con la valutazione dei dirigenti. Per reazione gli insegnanti hanno sviluppato una specie di resistenza passiva, che ha impedito di trasferire alla didattica l’elaborazione teorica e operativa dell’Invalsi. Ad esempio da alcuni anni l’Invalsi rilascia alle scuole i microdati, cioè i risultati di ogni singolo studente, che sono di grande interesse per il docente perché gli consentirebbero di verificare la posizione dello studente rispetto alla media di quelli che hanno partecipato alla prova. Questo dato, al netto di possibili distorsioni, può essere di grande aiuto per tracciare un profilo più preciso dello studente, confrontando i risultati della prova con i risultati scolastici e con la valutazione dell’insegnante. Tuttavia i microdati sono quasi sempre ignorati dalle scuole.

Analfabetismo funzionale e comprensione del testo

Negli stessi anni Tullio De Mauro ha acceso un faro su un fenomeno nuovo, definito analfabetismo funzionale: l’incapacità da parte di giovani e adulti di comprendere il contenuto di testi anche molto semplici. Non si tratta dell’analfabetismo classico, ormai ridotto a dimensioni residuali, ma di una nuova forma di povertà culturale che la società dei social media ha contribuito a rilanciare e ad acuire. Il soggetto in questione è in grado di effettuare agevolmente una lettura strumentale, ma non è in grado di comprendere pienamente il significato del testo.

Se nell’Ottocento e in tutta la prima metà del Novecento la missione della scuola era quella di alfabetizzare, cioè di diffondere almeno la competenza di lettura strumentale, la scuola di oggi ha il compito centrale di insegnare agli studenti a comprendere i testi e utilizzarli per i loro scopi di cittadini consapevoli, maturi ed autonomi.

Mentre l’OCSE avviava l’indagine PISA, l’Europa fissava nel 2000 la strategia di Lisbona, assegnando un ruolo centrale alla formazione scolastica, agli strumenti di comprensione e all’educazione estesa lungo tutto l’arco di vita dell’individuo (lifelong learning). Con la strategia di Lisbona l’Europa ha elaborato un ambizioso progetto di promozione della “società della conoscenza” che considera la conoscenza come il capitale sociale e come il vero motore dell’economia e dello sviluppo. In questa visione le competenze di comprensione del testo e di matematica hanno assunto un ruolo strategico.

La comprensione del testo era già da tempo oggetto di indagini teoriche ma, a partire dagli anni ‘80 del Novecento, questi studi hanno subìto una forte accelerazione, grazie a nuovi filoni di ricerca che si sono affiancati all’ermeneutica. Questi nuovi studi hanno evidenziato che la comprensione mobilita e coordina in parallelo un’ampia gamma di processi cognitivi automatici, di cui il lettore non ha piena consapevolezza, se non quando si imbatte in particolari aporie del testo. Allora le difficoltà si trasformano in domande di significato e si apre un processo di “problem solving”.

Inoltre le neuroscienze hanno aperto nuovi campi di ricerca sperimentale offrendo importanti contributi alla comprensione del testo; queste ricerche hanno permesso di esplorare il cervello umano mentre elabora i significati e di mappare le aree deputate ai processi di elaborazione dei significati.

Si può insegnare la comprensione del testo?

Prima delle indagini OCSE PISA, la comprensione del testo era data per acquisita già al termine della scuola dell’obbligo e alle superiori l’insegnante di italiano concentrava tutti i suoi sforzi sull’interpretazione del testo. Ma i deludenti risultati dei quindicenni italiani e i nuovi studi teorici hanno costretto tutti a ripensare il curricolo della lettura. Infatti la comprensione del testo ha un ruolo di rilievo anche nelle recenti indicazioni nazionali che raccomandano di esercitare questa competenza fino al termine della scuola superiore. Solo in questo modo l’individuo può acquisire gli strumenti per un apprendimento autonomo di life-long learning e diventare a tutti gli effetti un buon lettore.

Ma qual è il profilo del buon lettore che la scuola dovrebbe formare? Si tratta di un lettore esperto, in grado di affrontare un’ampia gamma di testi, letterari e non letterari, con maggiore o minore vincolo interpretativo. Sarà un lettore in grado di utilizzare strategie di lettura diversificate e adeguate alle varie tipologie testuali, ai vincoli interpretativi più o meno stringenti e ai particolari scopi di lettura che lui stesso ha prefissato.

Questo profilo ideale di lettore è stato delineato con precisione dall’Invalsi nei vari quadri teorici di riferimento e rappresenta un importante contributo al rinnovamento della didattica del testo che ogni docente dovrebbe conoscere.

Si può davvero misurare la comprensione del testo?

Questa domanda focalizza la questione centrale attorno alla quale ruota la polemica sull’Invalsi. Infatti i docenti di italiano storcono il naso solo all’idea di valutare la comprensione di un testo, magari una bella pagina letteraria, attraverso un questionario a risposta multipla, che con un certo disprezzo chiamano “quiz”. L’obiezione è fondata e ha costretto anche il PISA ad una approfondita riflessione sull’appropriatezza dello strumento. Infatti la prova a risposta multipla, pur necessaria per indagini molto estese, non si presta ad esplorare tutti gli aspetti di lettura di un testo. Perciò sono stati introdotti altri formati di domande, ad esempio a risposta aperta, che tuttavia richiedono un lavoro di standardizzazione ancora più complesso.

Ma, per inquadrare meglio la questione, dobbiamo allargare l’orizzonte e chiederci: è possibile sapere con precisione che cosa accade nella mente di un lettore che legge un testo?

No, non lo possiamo sapere direttamente, perché la comprensione è un processo interno al soggetto e solo lui può fornirci qualche indizio sulle trasformazioni cognitive che sono avvenute nella sua mente in seguito al contatto col testo. Anzi, molto spesso il lettore non è del tutto consapevole dei processi e quindi ha l’illusione di veder sgorgare il significato direttamente dal testo. Ma se poniamo delle domande al testo, l’illusione svanisce, si arresta l’automatismo dei processi e si apre una procedura di problem solving che costringe il lettore a prendere posizione. Proprio grazie a queste domande possiamo monitorare i processi e raccogliere indizi sul livello di comprensione.

Ma, dato che le possibili domande sono pressoché infinite, quali ci consentono di affermare con precisione che la comprensione è effettivamente avvenuta e il testo è stato veramente compreso? Questo è il cuore del problema e può essere affrontato solo se si dispone di un solido quadro teorico che permetta di individuare i processi essenziali di comprensione in modo da costruire un modello attendibile di prova. Infatti non tutti i questionari ci permettono di inferire con sufficiente attendibilità il grado di comprensione, che rimane, in ogni caso, la nostra variabile nascosta. Il Quadro di Riferimento e il modello di prova che l’Invalsi ha messo a punto sono una risposta al quesito e costituiscono un importante contributo alla didattica del testo.

L’Invalsi ha individuato 7 aspetti di lettura (di recente raggruppati in tre aree) che corrispondono ad altrettante variabili da indagare per coprire tutto lo spettro delle difficoltà: il lessico, le informazioni date, le inferenze, le anafore, i meccanismi di coesione, le inferenze globali, la valutazione e l’interpretazione.

Questo strumento, più volte rivisto e aggiornato, permette di formulare le domande fondamentali ma non risolve la questione di fondo che si può così sintetizzare: un questionario a risposta multipla è uno strumento attendibile per stabilire il livello di comprensione di un testo?  E ancora: sono da preferire i test a risposta chiusa o le prove a domanda aperta? In realtà questo dilemma non contrappone due modelli alternativi che si escludono reciprocamente. Al contrario si possono immaginare come due strade diverse che convergono sullo stesso oggetto, cioè stabilire il livello della comprensione: la prima “estensiva”, la seconda “intensiva”.

Il test a risposta chiusa si può definire “estensivo” perché può essere sottoposto a migliaia di studenti. Se questo strumento è costruito correttamente secondo la teoria dei test e secondo il modello teorico della comprensione, può offrire degli indici statistici sulla difficoltà degli item e degli elementi oggettivi per determinare il grado di comprensione del testo. Inoltre, grazie alle elaborazioni statistiche, è possibile individuare l’evoluzione che hanno specifiche difficoltà di lettura durante il percorso scolastico dello studente: i riferimenti anaforici, il valore logico dei connettivi e le inferenze-ponte che permettono di collegare tra loro le diverse parti del testo.

Tuttavia la risposta esatta o sbagliata a un test resta pur sempre un dato parziale e non basta da sola a chiarire il percorso logico che ha portato lo studente a fare quella scelta. Infatti, se dopo la somministrazione del test apriamo una discussione sulla prova, possiamo scoprire il variegato ventaglio di ragionamenti messi in campo dagli studenti che la rigidità del test non riesce a valorizzare. Per questo la comprensione resta una realtà sfuggente e, per certi versi, soggettiva che può essere affrontata anche andando più in profondità con domande aperte, cioè con una modalità “intensiva”. Questa seconda strada, più individuale, permette di illuminare meglio i percorsi del singolo lettore e di affrontare le questioni più complesse dell’interpretazione. 

Considerazioni finali

In questi anni attorno all’Invalsi si è combattuta una battaglia ideologica tra chi ha visto in questa prova nazionale lo strumento ideale per sviluppare l’efficienza del sistema scolastico e controllare gli insegnanti, e chi lo ha considerato un pericolo e una forzatura, in particolare gli insegnanti che operano nelle aree più difficili. Ora siamo arrivati ad un punto di svolta e il futuro si presenta piuttosto incerto.

A partire dalle considerazioni fin qui sviluppate possiamo dire, in generale, che le rilevazioni Invalsi sono uno strumento delicato, difficile da mettere a punto e da manipolare con molta cura. 

Entrando poi nel merito si può affermare in negativo:

1) che non sono uno strumento adeguato per la valutazione dei docenti, tra l’altro solo di alcuni;

2) che l’addestramento a superare la prova è una grave distorsione della didattica della lettura e potrebbe essere visto come la risposta dei docenti alla pretesa di valutarli attraverso il test.

In positivo, si può affermare che:

1) sono uno strumento essenziale per monitorare e comparare le diverse situazioni della scuola italiana;

2) possono dare un grande contributo alla conoscenza dei processi implicati nella comprensione del testo e allo sviluppo del curricolo della lettura;

3) possono contribuire alla valutazione dei singoli studenti, a patto che i risultati del test siano messi in relazione dai docenti con i risultati scolastici.

Lo scontro ideologico che si è combattuto attorno alle prove Invalsi può essere superato se saranno rispettate le finalità originarie della rilevazione. Tuttavia ogni iniziativa di rinnovamento della scuola che non passa attraverso il coinvolgimento dei suoi protagonisti, cioè gli insegnanti, è destinata, prima o dopo, al fallimento. E, nel caso delle prove Invalsi, questa eventualità sarebbe certamente dannosa perché verrebbe eliminato uno strumento importante per la didattica del testo

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