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Franco Moretti, Un paese lontano. Cinque lezioni sulla cultura americana

 

 Da un po’ di tempo gli Stati Uniti d’America sono diventati un paese “lontano”. L’ultimo libro di Franco Moretti possiede fra i suoi meriti anche questo: squadernare, fin dal suo titolo, davanti agli occhi dei lettori questa palpabile evidenza. La questione principale attorno a cui ruotano i cinque saggi che compongono il volume è dunque quella dell’egemonia americana. E, in filigrana, della sua attuale crisi.

I saggi si strutturano secondo la forma del contrappunto, tesa a esaltare le differenze fra cultura americana e cultura europea, qui osservate da una specola “letteraria” – l’aggettivo va inteso in un’accezione molto estensiva. Moretti compie cinque passi verso l’oggetto del suo studio, ponendo uno di fronte all’altro Baudelaire e Whitman, Hemingway e Joyce, il cinema western e il noir, il teatro di Miller e quello di Brecht, gli interni pittorici di Vermeer e di Hopper e i ritratti di Warhol e quelli di Rembrandt. Il metodo seguito è quello micrologico di Benjamin, per cui a partire da un dettaglio isolato e reso sensibile si tenta di dare un’interpretazione complessiva dell’intera opera a cui il particolare appartiene. Un altro modello critico apertamente rivendicato dall’autore è quello della «grande sociologia guglielmina» incarnata da Weber, Simmel e Sombart.

Secondo Moretti infatti bisogna saper «osservare delle forme e riconoscere delle forze». E ancora: lo studio delle «conseguenze concrete dei modelli astratti – la forza delle forme – fu una costante dell’opera di Weber, Simmel, e Sombart. Né è un caso che proprio loro siano stati i grandi teorici del capitalismo moderno e dell’esistenza borghese […] La forma, per loro, divenne la chiave per ragionare su come il potere conferiva ordine e stabilità alle società moderne». Ma per discernere il profilo di una forma nella sua organica interezza bisogna porsi di fronte a essa, e a una certa distanza. Il libro alterna dunque continuamente cannocchiale e microscopio, lontananza e prossimità, sguardo d’insieme e precipitazione sul dettaglio. E la divaricazione di metodo finisce per riflettersi, quasi inevitabilmente, sull’interpretazione dell’oggetto di volta in volta indagato. Facciamo un esempio. Se il momento decisivo del film western si sprigiona nel duello, in cui due uomini si affrontano in pubblico, a una certa distanza, a viso aperto e, letteralmente, alla luce del sole, nel cinema noir viceversa la morte arriva nella segretezza del buio, da vicino e a bruciapelo; spesso a tradimento. Da una parte la formalizzazione quasi geometrica di una distanza agonistica ben codificata, dall’altra l’intimità falsa ed esoterica dell’intrigo. Ma non è solo nel duello che i personaggi sono messi uno di fronte all’altro. Accade anche nel dialogo drammatico. Che però nel teatro di Miller entra, non a caso, in crisi. Moretti qui prende le mosse da Hegel, per cui soltanto nel dialogo drammatico «gli individui in azione possono esprimere gli uni contro gli altri il […] lato sostanziale del loro pathos». Ma nella Morte di un commesso viaggiatore accade che il dialogo di Miller perde il suo pathos e la sua rilevanza. E il momento culminante della vita del protagonista si sbriciola di fronte all’inanità di uno scambio di battute col suo avversario, in cui le cose importanti non vengono dette. Moretti spiega questa perdita di centralità del dialogo con la sopraggiunta marginalità dell’individuo. E cita un passo luminoso di Brecht, per il quale a partire dalla Prima guerra mondiale si era capito che «non era più tanto semplice rappresentare i principali eventi umani mediante una personificazione delle loro forze motrici». Le cose si decidono altrove, “lontano” e quindi il dialogo faccia a faccia diventa irrilevante. Ma gli uomini, visti da lontano, finiscono per assumere le fattezze di puntini insignificanti. Dal noir Il terzo uomo viene estrapolata una scena decisiva in cui Welles, osservando dall’alto dei passanti, li qualifica appunto come «puntini» trascurabili, per nulla degni di qualsiasi pietà. Chiosa prontamente Moretti: «La distanza funziona come un equivalente della mancanza di solidarietà». Il fatto che le forze motrici dei cambiamenti sociali si spostano in un altrove sfuggente e imprendibile rende le persone – e i popoli – simili a puntini. Per questo l’America si fa sempre più “lontana”, perché non riesce più a dare la risposta estetica giusta – cioè efficacemente egemonica – alla dissonanza e alla lacerazione che squarciano il tessuto sociale e la psiche dell’individuo moderno. Ancora col western si era riusciti a dare una forma narrativa credibile al trauma bellico. Ma già la fase storica della Grande Depressione aveva prodotto gli atomi umani anemici e irrelati che campeggiano nel quadri di Hopper. Più tardi la stagione del postfordismo si concretizzerà nel supermercato seriale dell’opera di Warhol, in cui i volti degli uomini vengono congelati nell’eterno presente della merce. Ma andando a ritroso, già in Whitman la straripante epopea “democratica” dei versi mimava l’accumulazione tutta orizzontale del catalogo e dell’elenco caotico, senza riuscire a creare nessi solidali fra gli individui. Moretti individua una precisa giustificazione storica della forma-catalogo: «Il XIX secolo sviluppa tutto un insieme di tecniche per “vedere” la società nel suo insieme – censimento, mappa, statistiche, tableaux, panorami… – e il catalogo è la forma poetica di questa nuova visibilità razionale». E riprende un’osservazione di Spitzer a proposito del parallelo che si può istituire fra i lunghi elenchi del poeta americano e gli almanacchi che reclamizzavano le merci. Foglie d’erba fu pubblicato nel 1855 e in quegli anni presero il via i moderni grandi magazzini.

 

L’antidoto all’elenco parcellizzato può essere allora proprio la forma del contrappunto. La risposta alla standardizzazione e alla spersonalizzazione astratta si annida anche nell’esaltazione del dettaglio capace, hic et nunc, di sovvertire l’ordine rappacificante delle cose. Se, con una frase di Lukács tanto cara a Moretti, si può ribadire che «ogni forma è la risoluzione di una dissonanza fondamentale dell’esistenza», allora possiamo affermare che questo libro, nel suo piccolo, col suo contenuto e tanto più con la sua forma, contribuisce a costruire quella risposta estetica che ancora manca di fronte alle dissonanze di oggi. «Osservare delle forme e riconoscere delle forze». Il libro di Moretti rischiara, seppur per intermittenze e baluginii, le forze e le forme che stanno tramutando l’Occidente in un puntino sempre più “lontano”, principalmente da se stesso. 

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