Gramsci critico e interprete di Dante
E’ urgente chiedersi, [1]anche a proposito dell’insegnamento della letteratura, quali strumenti siano oggi ereditabili del pensiero di Antonio Gramsci: è la sfida lanciata dal recente volume Il presente di Gramsci curato da Desogus, da Gatto e da altri.
Semplificando in modo brutale, di Gramsci circolano a questo riguardo due immagini, speculari e opposte: la prima, che lega il suo nome a un’epoca sentita come del tutto tramontata (il secondo dopoguerra, il neorealismo, l’impegno), la seconda, che lo percepisce come molto attuale solo connettendolo al campo della teoria postcoloniale (alla critica dell’egemonia occidentale).
L’esperienza della letteratura non è un dato ma un processo. La critica letteraria è un agire pubblico. La didattica della letteratura, dunque, a scuola e all’università – dovrebbe essere essa stessa critica della letteratura, conflitto delle interpretazioni e lavoro intersoggettivo sul senso dei testi (cfr. la lezione catanese di Romano Luperini). Cercherò, alla luce di questa premessa, di verificare la praticabilità della critica gramsciana fuori da quei due luoghi comuni, e in particolare riguardo: 1) alla lettura gramsciana di Dante 2 ) alla funzione del critico e del docente.
Il canto di Cavalcante
Tra i pochi scritti specificamente letterari dei Quaderni del carcere vi è la «nota dantesca» sul Canto X dell’Inferno., ‘il canto degli eretici’ (Q 4, 78-88). Dante è un autore indispensabile per Gramsci recluso. La richiesta di poter avere in carcere «una Divina Commedia di pochi soldi» compare subito dopo l’arresto, nella famosa Lettera dal carcere n. 1 dell’autunno 1926, indirizzata alla «Gentilissima signora» Clara, sua padrona di casa a Roma: lettera sequestrata dalla polizia fascista. Solo due anni dopo la cognata Tatiana potrà fargli avere «il Dante minuscolo hoepliano», con i volumi di Benedetto Croce La poesia di Dante (1921) e Poesia e non poesia (1923) e con un libro dal titolo Dante, Farinata, Cavalcanti (1927) del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac. Gramsci acquisisce questi pochi volumi per un grande e coraggioso progetto critico: il 26 agosto 1929 (Lettera 161) annuncia a Tatiana di aver «fatto una piccola scoperta che […] verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B. Croce sulla Divina Commedia». La nota dantesca è dunque un grimaldello teorico e occupa infatti un posto centrale nell’elenco dei temi da trattare in carcere, scritto sulla prima pagina dei Quaderni l’8 febbraio 1929:
“Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia (Q1 p. 5).
Il termine “struttura” è la spia di come Gramsci attribuisca a questo progetto sul canto degli eretici il compito di criticare e rovesciare la critica letteraria egemone nel suo tempo anche tra gli antifascisti, (quella idealistica) e in specie la distinzione crociana fra ‘poesia’ e ‘struttura’. È Croce infatti, in La poesia di Dante (1921), che distingue nella Commedia, poesia da struttura intendendo con “struttura” le parti dell’opera che per lui sono inerti materiali di costruzione e per separare le architetture tematiche e argomentative dagli elementi puramente lirici di ogni singola opera. Le contaminazioni, o i campi di tensione, tra forme e ideologie, sono interpretati come «vizio d’origine» e divengono oggetto di vere e proprie stroncature.
È molto significativo, per noi, che per confutare Croce e per valorizzare Dante, Gramsci scelga il medesimo canto dell’Inferno su cui lavorerà, un decennio dopo, esule a Istanbul Auerbach in Mimesis. Auerbach nel canto di Farinata e Cavalcante riscontra una complessità realistica mai raggiunta prima in un testo in volgare. Farinata e Cavalcante sono accomunati dallo stesso peccato di ateismo e epicureismo e stanno l’uno accanto all’altro nel sesto cerchio, tuttavia per Auerbach sono tipi umanamente diversissimi ed è la loro individualità e la mescolanza stilistica che mostra come Dante applichi la tradizione cristiana della Figura a soggetti a lui contemporanei. In modo sorprendentemente analogo, Gramsci rileva nel canto X la medesima complessità di mutamenti scenici, la medesima compresenza tragica di opposti che dà conto della totalità materiale dell’umano. Farinata è il capo politico ghibellino: è superbo e fiero, sta in piedi nel fuoco e si rivolge a Dante con parole altere; Cavalcanti viceversa, in ginocchio, compare e scompare fulmineamente, scosso da violente emozioni paterne, chiama l’Inferno “Cieco /carcere” e rivolge a Dante la domanda sul figlio Guido destinata a non trovare risposta: – «piangendo disse: -“Se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno, /mio figlio ov’è? /perché non è ei teco?”». Quando crede di capire dalle parole di Dante (Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno») che il figlio Guido è morto, si accascia (“supin ricadde e più non parve fora”). Alla domanda di Cavalcante non può seguire che il silenzio: uscito di scena Cavalcante, Farinata indifferente (“non mutò aspetto/né mosse collo, né piegò sua costa” ) può preannunciare a Dante il prossimo esilio.
Gramsci intende rovesciare le interpretazioni dominanti di questo canto proprio a partire dalla valorizzazione dell’intrusione ‘strutturale’ dei 21 vv. dedicati a Cavalcante: l’architettura scenica, tematica e argomentativa non è per lui come per Croce bruto materiale costruttivo, o ‘struttura’ didascalica, ma è il veicolo stesso di complessità e identificazione – si direbbe “teatrale” – e grazie alla breve comparsa sulla scena infernale di Cavalcante, la forza realistica e psichica dei sentimenti ‘terreni’ permette al lettore di fare i conti con il supremo dolore, e produce l’identificazione con i due opposti personaggi. In una lettera a Tania, Gramsci scrive:
“Il decimo canto tradizionalmente è quello di Farinata. Io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcanti, il vero punito tra gli epicurei delle arche infuocate”
Se la critica letteraria è sempre un compromesso fra oggettività e soggettività dell’interprete, e se un elemento soggettivo si può mettere in rilievo nel Gramsci interprete di Dante, mi pare sia quello della condizione di internamento: il “cieco /carcere” agisce da moltiplicatore del tasso di identificazione-emozione e accentua l’universalità attribuibile alla tragedia di Cavalcante, come accadrà di li a poco a Primo Levi che rammenterà a Jean il Canto d’Ulisse nel Lager di Auschwitz in un celeberrimo capitolo di Se questo è un uomo.
Un altro elemento da ereditare e attualizzare, praticabile è la forma critica policentrica, saggistica e interdisciplinare che gli appunti di Gramsci su Dante assumono. La nota dantesca dei Quaderni del carcere è fatta di diversi elementi tematici accostati e non fusi tra loro e questa forma di montaggio non si è solo l’indice di uno stile, di un modo di scrivere ma (secondo Raoul Mordenti) di un vero e proprio modo di pensare strategico, che procede dipanando dialetticamente un nucleo, “espandendolo in più direzioni fino a farlo esplodere”.
Gli appunti sul canto X dell’ Inferno sono realizzati con pochi strumenti: nonostante ciò, Gramsci allestisce una serie di brevi, agili blocchi argomentativi coraggiosi e molto polemici, montati l’uno accanto all’altro: rovescia l’egemonia culturale crociana; re-interpreta il canto X come canto di Cavalcanti e non di Farinata, capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi, e fa di Cavalcante il vero eroe dell’episodio, in quanto nell’ indicibilità del suo dolore risiede la vera natura del contrappasso riservato agli epicurei
La parola più importante del verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» non è «cui» o «disdegno» ma è solo ebbe. Su «ebbe» cade l’accento «estetico» e «drammatico» del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata: e c’è la «catarsi»; Dante si corregge, toglie dalla pena Cavalcante, cioè interrompe la sua punizione in atto.
Infine Gramsci conduce un’aspra polemica con “Rastignac” il giornalista e letterato dannunziano Morello (che si firmava Rastignac nei suoi articoli sulla Tribuna), sbeffeggiato come emblema della cialtroneria “brescianesca”[2] degli intellettuali italiani “ruffiani”. Rivendica così l’orgogliosa assunzione di responsabilità esercitata sul massimo testo del canone italian da parte di un intellettuale militante marginale e non accademico. Anche un rappresentante in carcere “del gruppo sociale subalterno” (cioè lui stesso), si può occupare di critica dantesca: facendo “le fiche (…) a ruffiani intellettuali come Rastignac” (l’espressione volgare far le fiche è dantesca: sono le parole che Vanni Fucci rivolge a Dio nella bolgia dei ladri in Inf. XXIV,2). È il gesto che si fa inserendo tra l’indice e il medio, il pollice, con le altre dita della stessa chiuse a pugno, alludendo al sesso femminile.
Gramsci nella sua cella fa le fiche alla critica letteraria ufficiale e marca la distanza, con orgoglio polemico, fra il suo modo di leggere i testi e quello dell’accademia italiana.
Poiché occorre infischiarsi del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all’edifizio commentatorio e chiarificatorio del divino poema ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare debba proprio essere quello polemico, per stroncare un filisteo classico come Rastignac [Vincenzo Morello], per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono far le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac. Ma Rastignac conta meno di un fuscello nel mondo culturale ufficiale! Non ci vuole molta bravura per mostrarne l’inettitudine e la zerità. Ma intanto la sua conferenza è stata tenuta alla Casa di Dante romana: da chi è diretta questa Casa di Dante della città eterna? Anche la Casa di Dante e i suoi dirigenti contano nulla? E se contano nulla perché la grande cultura non li elimina?
Il critico come docente
La critica carceraria gramsciana nel suo concreto farsi, applicata a un grande classico come Dante, ci serve ancora oggi nelle concrete situazioni della nostra marginalità critica e didattica. Possiede infatti in situazioni estreme (il carcere), una vitalità autentica, impiega una lingua polemica, battagliera, prensile, viva, tiene conto di dettagli testuali con attenzione filologica ma li trasforma in armi di una battaglia culturale con un’energia sorprendente, reattiva alla violenza della marginalità e della reclusione.
Gramsci drammatizza, storicizza e attualizza i suoi dettagli, coglie in modo “molecolare” le contraddizioni dei testi come spie o indici di valore, rivendica nuove interpretazioni utilizzando formule memorabili (“far le fiche”, “Rastignac conta meno di un fuscello”), e perentorie (occorre infischiarsi; deve; nessuno) si direbbe debitrici dello stile disgiuntivo e dilemmatico di Machiavelli.
Così Gramsci agisce nella sua filologia vivente, nella sua utopia critica. Ed è questa, perentoria, battagliera, concreta, la strada oggi percorribile, la lezione di emergenza da ereditare nelle nostre aule. La filologia viva di Gramsci, anche per la forma concentrica dei suoi Quaderni, (come ha scritto Romano Luperini) mostra delle parentele con il concetto di contenuto di verità di un altro grande critico marxista: Walter Benjamin.
Per questo, la categoria di “storicismo crociogramsciano” – su cui si è fondata la rimozione italiana del pensiero materialistico di Gramsci- non regge più: il dissenso da Croce in Gramsci è radicale perché investe la definizione crociana stessa dell’arte come intuizione lirica. E perché nei Quaderni inventa forme nuove di critica e colloca non solo il mediocre “Rastignac” fra i giornalisti “ruffiani” ma anche il grande Croce fra gli intellettuali organici alla classe egemone:
il Croce, specialmente, si sente legato fortemente ad Aristotele e a Platone, ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò appunto è da ricercare il carattere più rilevato della filosofia del Croce.
La prassi critico-letteraria in Gramsci è a un tempo didattica e politica, come quella da fare oggi, contravvenendo in tutti i modi alla riduzione della scuola e dell’università a mera riproduzione dell’ideologia dominate e della critica a pura descrizione subalterna al mercato culturale.
C’è un testo breve in cui Gramsci ci insegna in modo esemplare questa prassi culturale e questa didattica permanente. È una lettera dal carcere alla moglie a proposito del desiderio del figlio Delio di leggere La capanna dello zio Tom. (Lettera n. 364 del 8 agosto 1933) Gli ingredienti per attualizzare e far nostra questa situazione ci sono tutti: un testo “di massa”, un giovane lettore in formazione, un “mediatore” intellettuale reso impotente e imprigionato. Gramsci non si arrende: utilizza, per parlare del rapporto fra l’emozione e la sua formalizzazione in un testo “popolare”, lo stesso termine “catarsi” che aveva usato a proposito del canto di Farinata e Cavalcanti. E invita il lettore a rafforzare il giudizio, a tenere saldamente assieme la passione immediata e la comprensione mediata della sua forma artistica. Gramsci pensa insomma a un critico-docente, ‘dirigente’ e non subalterno, capace di indicare il contenuto di verità di quel mondo finzionale
Puoi dirgli tu stessa che gli saranno spediti due libri: le novelle della jungla, dove sono comprese le Novelle della Foca Bianca e Rikki-Tikki-Tawi e La capanna dello zio Tom. Sarei contento di sapere come sia venuto in testa a Delio di leggere questo ultimo libro e se, quando egli lo avrà, qualcuno glielo spiegherà storicisticamente, collocando i sentimenti e la religiosità di cui il libro è impregnato nel tempo e nello spazio. Questo lavoro mi pare molto difficile da fare con un ragazzo (da fare seriamente, s’intende, e non con le solite generalità e luoghi comuni). (…) Non sono in condizione di scrivere coerentemente e conseguentemente ciò che penso in proposito. In generale (…) mi pare che tu ti metta (e non solo in questo argomento) nella posizione del subalterno e non del dirigente, cioè di chi non è in grado di criticare storicamente le ideologie, dominandole, spiegandole e giustificandole come una necessità storica del passato, ma di chi, messo a contatto con un determinato mondo di sentimenti, se ne sente attratto o respinto rimanendo però sempre nella sfera del sentimento e della passione immediata. (…). A me pare che debba avvenire in noi una catarsi, come dicevano i greci, per cui i sentimenti si rivivono “artisticamente” come bellezza, e non più come passione condivisa e ancora operante. È una cosa da spiegare più a lungo, ma mi pare che tu debba capire anche da questi pochi accenni. Ti abbraccio teneramente. Antonio”
Risemantizzato, il concetto aristotelico di catarsi diviene così nella critica gramsciana sinonimo di mediazione: fra forma e contenuto, fra piacere estetico e critica dell’’ideologia. Il critico gramsciano è colui che sa riconoscere la forza dell’identificazione emotiva del testo “popolare” ma sa anche svelare in quel testo l’ideologia. In Gramsci “tutto è catarsi” (è il brasiliano Carlos Nelson Coutijho a affermarlo alla voce “catarsi” del Dizionario gramsciano) “ossia tutte le forme di prassi – dal lavoro volto alla dominazione della natura fino alle forme più complesse di interazione sociale” – e dunque anche la didattica della letteratura – “contengono questa possibilità di passaggio dal particolare all’universale, dall’oggettivo al soggettivo, dalla necessità alla libertà”.
C’è chi, davanti alla conclamata assimilazione della formazione all’impresa, oggi ci invita cinicamente a rinunciare a questa prospettiva di mediazione critica (a esempio Claudio Giunta in E se non fosse una buona battaglia? denunciandola come desueta e velleitaria. Da parte mia, credo che l’insegnamento della letteratura (la critica nel senso etimologico del termine) non possa che essere gramscianamente comprensione estetica delle ragioni profonde del piacere del testo (da cui l’attenzione alla letteratura “popolare” nei Quaderni ) e critica politica della società, perché allena a mettere in dubbio nella polisemia dei testi le univocità delle ideologie dominanti.
[1] Questo testo riproduce una parte dell’intervento tenuto a al Convegno “Culture et critique littéraire chez Gramsci” – Parigi – Université Sorbonne, 2 febbario 2019
[2] Padre Antonio Bresciani, gesuita antiromantico, autore de L’ebreo di Verona (romanzo storico, stroncato da De Sanctis) collaboratore della rivista La civiltà cattolica. Gramsci nei Quaderni indicò nel brescianismo e nei nipotini di padre Bresciani rispettivamente il carattere e i portatori di una «letteratura tutta verbale e di nascosti o manifesti spiriti reazionari»
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