(Ri)leggere un classico della critica letteraria/1. Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire
Un modo praticabile per interrogare nel nostro presente Walter Benjamin (1892-1940), teorico della cultura ebreo-tedesco, è innanzitutto quello di trattarlo per quel che è stato: un precario del lavoro intellettuale. Benjamin ha esercitato da outsider il lavoro culturale, sopravvivendo di traduzioni, recensioni, trasmissioni radiofoniche e racconti per l’infanzia. Una delle sue opere più note il Dramma barocco tedesco, inoltre, altro non è che la tesi presentata nel 1925 per accedere alla docenza universitaria, una tesi rifiutata dalla commissione esaminatrice perché poco accademica. Va detto inoltre che la sua opera critica, comprensiva di saggi illuminanti su grandi autori come Goethe, Kafka, Brecht, Proust e Baudelaire, è frammentaria anche per la concreta posizione precaria e esule dell’autore. Un altro modo per sentirlo prossimo è quello di interpretarlo (come Gramsci) come un esemplare testimone del rapporto tragico fra cultura e potere politico nell’Europa dello stalinismo e del nazifascismo trionfante. Nel 1933, per sfuggire al terrore nazista, emigrò a Parigi dove visse in una dura povertà, nonostante la quale riuscì a mettere a punto la sua riflessione sulla mercificazione dell’arte, sulla rappresentazione urbana e due progetti interconnessi: uno studio delle gallerie commerciali o passages, costruite a Parigi nel primo Ottocento e interpretate come preistoria della cultura dei consumi, e un libro su Baudelaire, poeta della modernità. A differenza di altri intellettuali tedeschi, come Thomas Mann o Adorno, Benjamin non riuscì a lasciare l’Europa: quando, nel 1940, la Francia fu invasa dai tedeschi, tentò disperatamente di attraversare il confine con la Spagna ma fu fermato alla frontiera e si tolse la vita il 26 settembre 1940. Per sottrarlo alla sua leggendaria oscurità messianica, che lo rende inattingibile, credo inoltre si possa procedere isolando e comprendendo le sue parole-chiave: aura, merce e allegoria. Il saggio critico più rilevante in cui questi termini-chiave sono messi alla prova nella lettura di un testo, è quello su Baudelaire. Utilizzando Georg Simmel, che era stato suo professore a Berlino, Benjamin identifica in un preciso luogo delle Fleurs du mal, il sonetto A una passante, i segni distintivi dello shock della vita metropolitana:
La folla: nessun altro oggetto si è imposto più autorevolmente ai letterati dell’Ottocento. (…) La massa è talmente intrinseca a Baudelaire che si cerca invano in lui una descrizione di essa. (…) Nei Tableaux parisiens si può provare, quasi sempre, la presenza segreta di una massa. Quando Baudelaire prende ad oggetto il crepuscolo del mattino, c’è nelle strade deserte, qualcosa del “silenzio formicolante” che Hugo sente nella Parigi notturna. Basta che Baudelaire posi l’occhio sulle tavole degli atlanti anatomici esposti in vendita sui quais polverosi della Senna, e su quei fogli la massa dei defunti ha preso inavvertitamente il posto dove apparivano scheletri isolati. Una massa compatta viene avanti nelle figure della Danse macabre. (…) La massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi. La sua presenza domina uno dei pezzi più famosi delle Fleurs du mal.
Non un giro di frase, non una parola, ricorda la folla nel sonetto A une passante. Ma il processo riposa solo su di essa, come sul vento la marcia di un veliero. In velo da vedova, velata dal suo stesso essere trasportata tacitamente dalla folla, una sconosciuta incrocia lo sguardo del poeta. Il significato del sonetto è, in una frase, questo: l’apparizione che affascina l’abitante della metropoli – lungi dall’avere nella folla solo la sua antitesi, solo un elemento ostile – gli è arrecata solo dalla folla. L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo quanto all’ultimo sguardo. E’ un congedo per sempre, che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Che questi versi potevano nascere solo in una grande città, come ha scritto Thibaudet, è ancora insufficiente. Essi fanno emergere le stimmate che la vita in una grande città infligge all’amore. E’ così che Proust ha letto il sonetto (…).
All’esperienza dello choc fatta dal passante nella folla corrisponde quella dell’operaio addetto alle macchine. (…) Se si definiscono le rappresentazioni radicate nella mémoire involontaire, e che tendono a raccogliersi attorno a un oggetto sensibile, come l’ aura di quell’oggetto, l’aura attorno a un oggetto sensibile corrisponde esattamente all’esperienza che si deposita come esercizio in un oggetto d’uso. I procedimenti fondati sulla camera fotografica e sugli apparecchi analoghi successivi estendono l’ambito della mémoire volontaire; in quanto permettono di fissare un evento, sonoramente e visivamente, con l’apparecchio in qualunque momento.
Questo testo su Baudelaire è stato scritto in esilio, dopo l’avvento del nazismo: dunque, in un clima di allarme, disperazione e nostalgia. Benjamin mette alla prova sul sonetto A una passante un metodo di lettura che possiamo praticare anche noi oggi, nelle nostre aule, in tempi di analogo allarme, pena la devitalizzazione e l’insensatezza del nostro insegnamento. Al centro c’è un’affermazione che può sembrare paradossale o anacronistica: “All’esperienza dello choc fatta dal passante nella folla corrisponde quella dell’operaio addetto alle macchine”. Perché la scena erotica all’ultimo sguardo del poeta e della passante in lutto sul marciapiede possono venire accostati all’esperienza del lavoro nella produzione fordista? Benjamin concepisce la critica come un lavoro di distruzione e ricostruzione: l’opera viene strappata via dal suo contesto tradizionale e riconfigurata alla luce del presente. La critica per Benjamin è insomma attualizzazione dell’opera letteraria, trascinata dal suo passato al momento presente della lettura: in tal modo egli rifiuta di vedere nel testo un documento d’epoca o un semplice risultato dell’intenzione autoriale. Baudelaire infatti a suo parere, non affronta consapevolmente i problemi della modernità capitalistica e metropolitana: la folla non è direttamente rappresentata nelle Fleurs e tantomeno la fabbrica, eppure il “contenuto di verità” di quelle poesie, che emerge solo leggendole dal punto di vista del presente, è dato appunto dalla fantasmagoria urbana, dall’incontro casuale come shock e catastrofe del desiderio, dal tempo puntiforme e istantaneo in cui nella grande città si brucia l’esperienza umana. In tal senso, per Benjamin, Baudelaire è per eccellenza il poeta allegorico del moderno: così l’attualizzazione può giungere al suo massimo azzardo quando egli crea un cortocircuito tra lo sguardo turbato e impotente del poeta sulla strada assordante e l’azione automatica dell’operaio nella catena fordista.
L’attualizzazione benjaminiana riguarda anche i destini della produzione artistica. L’aura, ossia il senso di distanza e prestigio come prerogativa dell’arte tradizionale all’origine dell’autenticità dell’esperienza estetica, è per Benjamin dissolta dall’avvento dei mezzi di riproduzione tecnica. Nei suoi anni, la fotografia e il cinema sostituiscono l’unicità del dipinto: non solo annullano la distinzione tra originale e copia ma rendono anche desueti i procedimenti della memoria involontaria narrati da Proust nella Recherche. Infatti, grazie alla riproduzione seriale dell’immagine e del suono, i media audiovisivi impongono e rafforzano la presenza della memoria volontaria, imbalsamando e archiviando gli istanti strappati dalla caducità.
Benjamin non è un “apocalittico” o un nostalgico della tradizione: come l’urto della folla nella metropoli, la perdita dell’aura e la riproducibilità seriale delle arti non sono semplicisticamente per l’interprete materialista una minaccia, un elemento negativo e ostile: sono viceversa condizione e premessa ineludibile del lettore/produttore culturale contemporaneo. Dunque, secondo Benjamin, il critico deve saper esplorare quelli che nella sua epoca erano i generi e le forme dell’avanguardia (il teatro epico brechtiano, il montaggio di materiali) che i nuovi mezzi di comunicazione (la fotografia, la radio, il cinema): nello scritto su Baudelaire così come nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935-36) la riproduzione seriale disincanta il lavoro culturale e liquida i rituali tradizionali, aprendo al contempo possibilità per un uso materialistico dell’arte. Benjamin, insomma, non celebra semplicisticamente la cultura popolare di massa (come vorrebbe Baricco in una recente sua lettura banalizzante) né la considera solo come barbarie e apocalisse. Ci chiede viceversa di interpretare le opere contemporanee, anche quelle Midcult (Macdonald) senza piegarsi alla seduzione che emanano ma evitando al contempo ogni sterile lamento per i bei tempi andati e ricercando tra le pieghe del discorso, il “momento di verità” dell’interpretazione.
Come per Gramsci anche per Benjamin è possibile affermare che proprio grazie alla forma non sistematica dei suoi scritti, dovuta non solo a scelte concettuali ma soprattutto alle dure contingenze contestuali, ci troviamo davanti a un’opera congetturale e ancora viva, a una critica della cultura in fieri che esplora la cultura contemporanea con una serie incrociata di strategie cognitive non convenzionali. Se l’assioma benjaminiano che il mondo sia leggibile solo in frammenti e che tra merci e allegoria vi sia una affinità elettiva, sembra precorrere il trionfo dello spettacolo e del sistema di oggetti integrato nella moda, pubblicità e design (quello che abbiamo chiamato postmoderno), alla luce della nuova crisi economica e della marginalità della mediazione culturale, del nuovo razzismo e della cecità neoliberista che lo alimenta, la condizione del lavoro intellettuale che si delinea nei suoi frammenti è la nostra, quella che viviamo tutti i giorni da critici letterari e da operatori culturali desueti e straniati. Nella sua proposta di lettura del “momento di verità” delle opere, non c’è ombra di rassegnazione o di nostalgia ma l’invito ad alzare la testa, rivolto a tutto il lavoro salariato cognitivo.
L’opera di cui si parla: W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1962, pp. 97-119.
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