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Insegnare italiano ai richiedenti asilo

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Lavoro in un CAS di Padova, ossia una delle strutture di prima accoglienza offerte a coloro che, una volta arrivati in Italia, fanno domanda di protezione internazionale. Il mio compito è quello di insegnare l’italiano e indirizzare verso il conseguimento di un titolo di studio riconosciuto, generalmente una certificazione linguistica o la licenza media. Ho in carico circa cinquanta persone: uomini, maggiorenni, provenienti dall’Africa subsahariana e dalle zone del Bangladesh e del Pakistan. Alcuni sono arrivati in cooperativa direttamente dallo sbarco, altri hanno trascorso prima parecchi mesi in centri più grandi e problematici come quelli di Cona e Bagnoli. Molti di loro sono già sposati e con figli a carico, parlano due lingue o più ma non necessariamente hanno anche un percorso di scolarizzazione alle spalle. Sono circa un terzo, infatti, gli analfabeti.

Per questi ultimi andrebbe fatto un discorso a parte perché costituiscono uno degli aspetti più problematici e irrisolti del fenomeno migratorio in atto. Basti pensare che nell’intera provincia di Padova non ci sono scuole pubbliche che contemplino nell’offerta formativa l’inserimento di adulti non alfabetizzati. L’onere della prima alfabetizzazione ricade così interamente sulla discrezionalità delle singole cooperative ospitanti che, non di rado, si disinteressano della questione o la affidano a volontari che improvvisano una didattica basata sul buon senso e sui pochi manuali esistenti. Ma anche quando si lavora col massimo della preparazione e della costanza, i risultati sono spesso estremamente lenti e limitati.

La causa va ricondotta alla più ampia cornice di difficoltà in cui l’insegnamento dell’italiano ai richiedenti asilo, analfabeti e non, si inserisce. Vanno tenuti in considerazione sia l’impatto, in termini di dignità, del costringere degli adulti ad andare a scuola, sia il progetto migratorio con cui questi partono e che presupporrebbe invece un rapido e immediato accesso al mondo del lavoro, sia le aspettative che le famiglie di origine hanno sul loro essere finalmente arrivati in Italia. Ma non è tutto: altri ostacoli all’apprendimento sono i traumi subiti prima e durante il viaggio, nonché la logorante preoccupazione per l’esito della richiesta di protezione. Si tratta quindi di un quadro le cui premesse svelano un grande livello di complessità a cui si aggiunge la precarietà data dalle condizioni materiali e dall’imprevedibilità dei tempi di permanenza di ogni studente.

Nei primi mesi di attività facevo lezione nel soggiorno degli appartamenti, condivisi da ospiti di nazionalità e livelli linguistici diversi. Avevamo appoggiato una lavagna sul mobiletto delle medicine accanto alla tv e appeso ai muri della stanza dei cartelloni con qualche informazione lessicale o grammaticale. Ogni volta che arrivavo con la macchina trovavo almeno un paio di loro dietro le finestre ad aspettarmi. Anche durante le lezioni c’era un continuo viavai di persone che transitavano fintamente affaccendate per la stanza. Ma a fronte di questa curiosità ricordo altresì la grande fatica che dovevo fare, poi, per convincerli a concentrarsi sullo studio, vestirsi adeguatamente, sgomberare il tavolo da cibi, cellulari e altri oggetti d’uso quotidiano.

Oggi invece tengo le lezioni in uno spazio esterno più strutturato che permette di avere l’abbonamento dell’autobus, il Wi-Fi e un luogo di socializzazione accogliente. La necessità di preparare libri e vestiti per andare a scuola, di rispettare gli orari, gli spazi e le comunicazioni col docente in caso di assenza ha certamente contribuito a rendere più seria e credibile l’attività didattica. Ciononostante il problema maggiore rimane quello della poca motivazione, schiacciata dal peso di una condizione di eterna attesa: da intendere sia come aspettativa, desiderio di poter ricominciare in Italia una nuova vita, sia come sospensione, stallo. Infatti, per percorrere l’iter legale in cui ciascuno presenta la sua storia e la documentazione di cui dispone per comprovarla ci vogliono in alcuni casi anche più di due anni.

La partita del lavoro in accoglienza si gioca allora soprattutto sulla ricerca delle giuste leve per portare gli ospiti fuori dalla lamentosa passività e, al contrario, dentro una visione costruttiva e dinamica del proprio presente e futuro; ivi compresa l’utilità, in tal senso, dello studio. La parola dell’insegnante o dell’operatore si scontra infatti spesso con un substrato di esperienze assai diverse, frutto di passaparola e narrazioni provenienti da amici più autorevoli che per qualche fortuita occasione dicono di aver trovato un buon lavoro senza bisogno di studiare o conoscere la lingua. O, analogamente, che consigliano di aspettare i documenti per poi proseguire il viaggio verso altri paesi non italofoni. Ma il deterrente maggiore resta l’esperienza di studenti che conseguono risultati esemplari, apprendendo con rapidità la lingua e trovando un buon lavoro con contratto regolare, e ricevono poi un esito negativo dalla Commissione tale da annichilire completamente lo sforzo fatto e costringerli alla clandestinità o al rimpatrio entro la scadenza del permesso di soggiorno.

Per superare le barriere della diffidenza e della scarsa motivazione all’apprendimento lo strumento più efficace è l’instaurarsi di una relazione di reciprocità, basata sulla stima e sulla fiducia, tra docente e allievo. La costruzione di una solida relazione è però un terreno tanto fertile quanto rischioso perchè si scontra con l’alto grado di isolamento e di vulnerabilità psicologica dei richiedenti asilo. Non di rado si sviluppano infatti dinamiche di dipendenza affettiva, competitività e sconfinamento dai ruoli nella speranza che l’insegnante possa intercedere con le altre figure dell’equipe anche per la risoluzione di questioni sanitarie, lavorative, economiche, sentimentali.

Su questo limite relazionale decade allora ogni buonismo ingenuo ed emergono due necessità pratiche che a mio avviso sul piano dell’insegnamento possono tamponare, ma certo non risolvere, le grandi contraddizioni su cui si basa l’intero processo di accoglienza. La prima è quella di incentivare gli ospiti a costruirsi un sistema di relazioni esterno alle cooperative e al proprio gruppo di connazionali, interagendo tra pari con italiani che, anziché isolarli e discriminarli, stimolino in loro il desiderio di integrarsi e apprendere la lingua accrescendo così anche i loro punti di riferimento sul territorio. La seconda è l’esigenza di sviluppare giorno per giorno, su sentieri ad oggi ancora poco battuti, una professionalità per i docenti del settore che tenga conto tanto degli aspetti didattici quanto di quelli psicologici, culturali, politici e sociali che definiscono l’esperienza dei richiedenti asilo.

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