Fabrizio De André era qualcosa di più di un alcolizzato timido
Se volessi parlare col sopracciglio alzato della miniserie «Il principe libero» (in onda il 13 e il 14 febbraio), dovrei direi che tutte le premesse erano buone per garantire un risultato non memorabile: destinazione iper-generalista (la prima serata Rai, quella dei carabinieri e degli investigatori in tonaca da prete); corteo di gadgets pubblicitari (uscita prima nelle sale dei cinema poi in tv, cofanetto con dvd già predisposto, riedizione degli album); diretto coinvolgimento di Dori Ghezzi, persona emotivamente troppo vicina a De André per non vivere un film su di lui come rispecchiamento del proprio sé e come atto di devozione; problematicità, forse aporia, del genere stesso del biopic. Ma non voglio parlare così.
Se Fabrizio De André è ormai abbondantemente santificato e venerato, è pur vero che non avevamo ancora visto un film su di lui e nessun fan, per quanto supercilioso, potrebbe negare la soddisfazione un po’ morbosa di guardarselo. Inoltre non sono affatto fra quanti ridicolizzino i Don Matteo (per non parlare dei gradevolissimi Montalbano) e la “fiction all’italiana”, che è certo imparagonabile alle serie americane per qualità di scrittura, realizzazione, ambizioni artistiche, ma che fornisce un decoroso prodotto d’intrattenimento capace di perpetuare, nell’attuale volgarità della tv dei reality, la dignità della narrazione popolare. Infine, non mi aspetto che una biografia destinata alla tv riesca a superare gli ovvi cliché narrativi del genere.
Ma mi sarei aspettato, quanto meno, che Faber non ne uscisse addirittura degradato nella memoria.
Vita e opera
Il biopic è un genere più adatto a raccontare la vita di un grande statista, di un sindacalista, di un giornalista: un personaggio, insomma, la cui sostanza stia nelle decisioni e nelle azioni, nella vita esteriore. L’essenza di un artista è invece in quella vita interiore che, come Montale ha osservato per Leopardi, è esponenzialmente infinita pur a fronte di una biografia magari poverissima. Così mettere in scena la vita di un pittore o di un poeta è sempre rischioso e di norma anche gli esiti migliori scontano dosi massicce di riduzionismo: ci si limita a stabilire corrispondenze del tutto esteriori fra la cronaca, l’intimo sviluppo spirituale e il venir alla luce dell’opera. È quanto accade anche in questo film. E, come ho detto, è un difetto che si potrebbe perdonare a un prodotto pop, se non fosse che questa esteriorità ha completamente cancellato la vita dell’artista per renderci solo la biografia dell’uomo, per di più a frammenti e tessere.
Fabrizio De André era una persona colta, un lettore anarchico e onnivoro (le sue annotazioni a margine dei testi letti sono spesso interessantissime), un artista maniacale: come tutto questo ne abbia fatto il cantautore che conosciamo, sembra non essere stato considerato degno di troppo approfondimento da parte dei due sceneggiatori, Francesca Serafini e Giordano Meacci.
Né angelo, né ubriacone
Nel film la vita di De André è raccontata per succinte e superficiali allusioni, come se si scorresse l’indice dei capitoli del romanzo della sua vita. Ritroviamo molti degli aneddoti a noi noti: la battuta volgare e ironica con la quale iniziò l’amicizia con Tenco, la serata nella quale De André mandò a quel paese quanti pretendevano che suonasse, per ritirarsi in solitudine a scrivere Amico fragile, ecc…
Questa tendenza a ridurre il racconto biografico all’infilata di aneddoti è aggravato da un altro difetto: le canzoni di Faber sono quasi sempre semplicemente giustapposte alla vita e agli episodi che ne sono all’origine. Tenco si suicida, Puny sveglia Fabrizio, parte Preghiera in gennaio in sottofondo. Tutto qui. Così in quasi ogni altra occasione, con la parziale eccezione di Hotel Supramonte, grazie al fatto che il rapimento in terra sarda è episodio organicamente sviluppato, forse l’unico momento narrativamente efficace del film. C’è qualcosa di quasi stucchevole in questo ridurre le canzoni e le loro “occasioni” poetiche a repertorio di citazioni, tanto che esse finiscono per essere solo una colonna sonora d’accompagnamento per le immagini, non la ragione stessa del film.
Sappiamo bene come sia stata la vita di Fabrizio De André: dipendenza dal fumo e dall’alcol, timidezza patologica che gli ha impedito per lungo tempo di salire sul palco. Tutti questi dettagli sono perennemente in scena, ma in questa cornice di positivismo biografico spezzettato finiscono per rubarla fin troppo. Forse la volontà era quella di non angelizzare l’immagine del cantante (come si sarebbe fatto, che so, se si fosse voluta spiegare la volontà di non fare concerti con lo sdegno dell’artista che vive sempre «in direzione ostinata e contraria»): ma a furia di mostrarlo con il bicchiere e la sigaretta sempre in mano, lo spettatore si dimentica di avere di fronte colui che ha saputo, all’inizio della sua carriera, trasfigurare la morte brutale di una prostituta in una tenera fiaba senza tempo e, alla fine, scrivere un capolavoro come l’album Anime salve. E si finisce per accorgersi soprattutto che Fabrizio De André era un alcolizzato (e un puttaniere). Ma quella è solo la scorza dell’uomo. E la slegata, trita, semplicistica referenzialità della narrazione non sembrava essere in grado di andare oltre.
Cosa sta dietro qualche etto di piombo
Ha scritto Gadda, in polemica con quanti intendevano il neorealismo come immediata trascrizione della realtà, che una sventagliata di mitra, in letteratura, è qualcosa di più di qualche etto di piombo.
C’erano due nuclei poetici nella figura dell’artista (non dell’uomo, per di più così bidimensionalmente rappresentato) che sarebbero stati suscettibili di un più ispirato sviluppo anche entro un’opera destinata al grande pubblico: l’inabissarsi nel letame da cui nascono i fiori – l’ormai proverbiale mondo “degli ultimi” che De André frequentava nei carruggi della città vecchia: ma su questo bisognerà prima o poi sceverare la storia dalla leggenda del “poeta maledetto” – e il suo anarchismo. Nel film la storia grande dei suoi anni, densa di eventi politici e lotte e trasformazioni, è del tutto rimossa: De André si giustifica da sé, sembra di capire.
La tutela di Dori Ghezzi sulla realizzazione del film ci dà garanzie sull’onestà delle intenzioni. Ma alle intenzioni la realizzazione non ha saputo minimamente tenere dietro. E non basta la capacità mimetica davvero pregevole del bravissimo Luca Marinelli. Ci si è appesi a quella, nella speranza che la sensazione del pubblico di trovarsi di fronte a un De André redivivo fosse in grado di surrogare l’incapacità di rappresentare quel “qualcosa di più” che sotto qualche etto di carne umana, così travagliata dalla fragilità e dal vizio, ci ha lasciato quelle meravigliose canzoni.
[Ringrazio Roberta Olmastroni e Marianna Marrucci per il fecondo scambio di informazioni e opinioni su De André e «Il principe libero»]
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