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Don Milani e la Parola. Su «La lettera sovversiva» di Vanessa Roghi

 Un amico, anche lui insegnante, mi raccontava di come una collega cadesse dalle nuvole alla sua frase «Don Milani? Era innanzitutto un prete». «Un prete? Lui, il comunista?», «Sì, un prete». Eppure quel “don” è inequivocabile. Nella nostra mente, che accumula dati, li sintetizza, li travisa, e li trasforma in simbolo, evidentemente è come se il titolo si fosse fuso con il cognome: “Dommilani”.

Incontro Vanessa Roghi alla presentazione del suo libro, La lettera sovversiva (Laterza, 2017). Le racconto l’aneddoto. Lei rilancia: «In una scuola dove ero stata invitata a parlare di don Milani ho detto: “Guardate che don Milani non è Don Backy. Il ‘don’ non fa parte del nome”». Insomma, ci troviamo subito d’accordo: non si può parlare pubblicamente di lui se non sciogliendo per prima cosa le tante incrostazioni che si sono depositate sulla sua figura.

Distanza critica e immedesimazione

La deformazione della figura di don Milani è avvenuta in due fasi: durante la sua stessa vita e immediatamente dopo la sua morte – gli anni Sessanta e Settanta –, quando è stato assimilato tout court alla “contestazione”, e nel tempo lungo che porta fino alle polemiche di quest’anno su quotidiani e in rete, stimolate proprio dal cinquantennale della pubblicazione della Lettera a una professoressa e della morte di don Milani (1967). 

Il libro di Vanessa Roghi è innanzitutto un libro di storia, uno sguardo sulla materia a sorvegliata distanza: un antidoto alle semplificazioni degli ultimi dibattiti. La Lettera a una professoressa entra in scena a pieno titolo nel centro esatto, il quinto capitolo: c’è bisogno, prima, di contestualizzare e, dopo, di decostruire. Nei primi quattro capitoli infatti Roghi ricostruisce il tessuto storico e personale dal quale Lettera a una professoressa è germinata: la borghesia coltissima nella quale Lorenzo Milani nasce; le molte figure del «cattolicesimo del dissenso» toscano del Dopoguerra; le altre esperienze di scuola democratica, quella di Lodi soprattutto; la rinata questione della lingua. Gli ultimi quattro capitoli raccontano invece la fortuna postuma e la nascita del primo “donmilanismo” («malattia infantile dell’istruzione di massa» per l’autrice): la Lettera a una professoressa che diventa “libretto rosso” per la Rivoluzione, la sovrapposizione approssimativa fra l’esperienza di Barbiana e le pedagogie antiautoritarie italiane e straniere… 

Don Milani muore prima di quel Sessantotto con cui a volte viene superficialmente identificato, ma fece in tempo a far capire che gli studenti della contestazione non gli sarebbero piaciuti: erano borghesi, erano figli di papà. Il suo impegno, invece, era tutto per i suoi contadini del Mugello. 

Don Milani, inoltre, restò sempre obbediente alla Chiesa: proprio lui, il prete “disobbediente” (Lettera ai cappellani militari). Si dimentica spesso che a Barbiana egli era finito per punizione e che all’inizio ne soffrì molto, anche se è pur vero che l’obiettivo era allontanare dalla inquieta e poco allineata Firenze lapiriana un sacerdote che già aveva dato parecchi grattacapi alla gerarchia ecclesiastica. Se a Barbiana rimase, era perché credeva che un cristiano dovesse stare dove era stato messo, e lì testimoniare la propria fedeltà a Cristo.

Ma è difficile guardare a don Milani soltanto come storici, sine ira et studio. È la sua stessa radicalità a dividere. Egli sembra sempre chiedere a ciascuno di noi un sì o un no definitivi: «con don Milani “immediato tende ad essere il coinvolgimento, diretta è la chiamata al consenso o al dissenso”» (Roghi, Prologo). 

Questo doppio registro – distanza critica e immedesimazione – è anche una delle chiavi di lettura de La lettera sovversiva. Da un lato, come ho detto, il libro di una storica, annotato, documentato, rigoroso; dall’altro un libro militante (fin dal titolo), che si identifica idealmente ed emotivamente con il suo “oggetto”, che non rifugge dagli inserti autobiografici (interessante, fra gli altri, quello dell’incontro con la compagna di Alex Langer, che della Lettera a una professoressa fu traduttore in tedesco), che non elude la questione fondamentale: se di don Milani parliamo ancora, anzi, se don Milani divide e viene così amato o odiato, è perché la sua radicalità senza residui ci mette ancora a disagio e ci interroga.

Mondo, arte, Parola

Il ben noto carattere ispido di don Milani e la mancanza di mediazioni della sua esperienza nascono proprio dal suo essere cristiano. Persino la questione della lingua, che in quegli anni agitava il dibattito culturale e pedagogico di un paese ancora ampiamente dialettofono, diventa rilevante a partire dalle esigenze del sacerdote: i suoi parrocchiani non capiscono la parola di Dio durante la messa, pur parlando «la lingua di Dante» (ma, come ha osservato Pier Vincenzo Mengaldo qualche anno fa, l’essere toscano in Toscana gli fece probabilmente sottovalutare il peso degli altri dialetti nell’educazione linguistica: non variante popolare della lingua nazionale, ma lingue altre). Naturalmente, la questione della lingua diventerà immediatamente una questione politica, anzi la questione politica: non è pienamente cittadino chi non può comprendere e comunicare.

Ma si tratta anche di un’esigenza di autenticità spirituale. A don Milani non basta che i suoi parrocchiani vadano in chiesa la domenica, né ama lo svago oratoriale; detesta la religiosità addomesticata, il conformismo della quotidianità (in questo – al di là della polemica sull’allusione a una sua presunta, mai manifestata, pedofilia – le prediche del prete protagonista dell’ultimo romanzo di Walter Siti, che a don Milani è dedicato, sono davvero fedeli a certi tratti dello spirito profondo del personaggio).

La stessa esigenza di autenticità lo guida nella scrittura. In una lettera egli afferma di voler scrivere e parlare come farebbe un analfabeta, senza quegli echi intertestuali di cui sono arricchiti (o di cui si compiacciono) i testi dei letterati, dei borghesi. La parola va usata come se fosse la prima volta. Una parola spoglia, come quella della Bibbia. 

Questo disagio nei confronti delle seduzioni mondane delle parole è lo stesso dei Padri della Chiesa (Agostino, Gerolamo soprattutto: «ciceronianus es, non christianus») e – sintomaticamente – di un poeta, Petrarca, che dichiarava di aver disprezzato, in gioventù, la parola biblica, in quanto troppo scarna e rozza al confronto della grande letteratura degli antichi. 

Lorenzo Comparetti Milani, bisnipote del grande filologo Domenico Comparetti, conosceva bene le parole, per elezione familiare. Ma da prete, le parole semplicemente umane avevano assunto una sostanza diversa, perché in esse si rifletteva la Parola di Dio e l’esigenza di una semplicità evangelica. 

C’è una bellissima lettera di Van Gogh al fratello Theo, nella quale il pittore definisce Cristo un «artista d’uomini». Mi è venuta in mente leggendo quanto don Milani diceva all’amico pittore Hans-Joachim Staude, che gli chiedeva perché volesse farsi prete:

è tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada (Roghi, cap. 5)

Per un cristiano il Verbo non diventa carne in senso metaforico. Per dirlo in termini comprensibili a noi laici, significa che la trascendenza va portata in terra, che lo spirito deve informare di sé la lettera, che le parole, i progetti, l’intelligenza devono trasformare la realtà, non sono un gioco di società. 

Una lingua prebabelica

Chi ha colto benissimo la centralità del tema del rapporto tra linguaggio, rivelazione divina, politica, in don Milani è stato il poeta che più di ogni altro ha coniugato marxismo e profetismo cristiano, Franco Fortini, in un saggio del 1980 (ora in Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2003 con il titolo La scrittura di don Lorenzo Milani). L’idea di linguaggio di don Milani è fondata sulla presupposizione, anzi sulla fede, di un’armonica corrispondenza tra parola e mondo, garantita dalla presenza di Dio. Don Milani è l’eterno cristiano che crede nella adaequatio rei et intellectus, o, per dirla con Dante, che crede possibile «che dal fatto il dir non sia diverso». 

Procedendo per sottrazione (di bellurie, di narcisismi intellettuali, ma anche di storia e di retorica) si giunge a una «natura umana, vulnerata ma qui in parte prebabelica, sottratta o sottraibile alla equivocità, alla oscillazione fra discorso esplicito e discorso implicito, fra parola detta e quella taciuta». Don Milani «vuole nello stesso tempo la parola e il silenzio. Come i poeti, naturalmente. Ma della poesia detesta proprio questa sua contraddizione fra quel che è detto e quel che non lo è. […] Gli è estranea l’idea che la parola possa nello stesso attimo essere latrice di verità e di menzogna». 

Ecco perché egli era così intransigente: la sua parola non serviva a persuadere e a dialogare in una perfettibile ricerca della verità; egli non ammetteva sfumature, zone d’ombra, ambiguità. Ma ecco anche perché il suo attacco alla scuola di Stato che perpetuava le differenze di classe con le bocciature (accusa che lui e i ragazzi di Barbiana dimostrarono con dati precisi e che è sociologicamente inconfutabile) fu frontale, ma anche ingiusto, perché la scuola di massa è una grigia e faticosa istituzione storica, imperfetta e contraddittoria.

Tutto il mondo moderno nasce da una definitiva scissione, un’incancellabile differenza, tra parole e cose. Non c’è un dio a garantirci l’armonia: c’è la storia, il suo caos, il suo magma. Come ha scritto a più riprese proprio un altro cattolico, Mario Luzi, che non ha mai smesso di interrogarsi su quella differenza, sognando (ma solo in poesia: non sarebbe piaciuto a don Milani) una possibile coincidenza tra Logos e storia umana, l’uomo sottostà al pesante «giogo della metafora». Tradotto nuovamente in categorie laiche a noi più vicine: i nostri progetti di trasformazione non sempre riescono a incarnarsi.

Don Milani e noi

In don Milani c’è tutta questa complessità. Se lo si misura su questo metro, si capisce quanto siano deprimenti le sue chiamate in correo giornalistiche sulla scuola severa e la scuola lassista. Don Milani è un’opera-uomo, uno di quei classici con cui e su cui misurarci, uno specchio in cui riflettere la nostra comoda convivenza o connivenza con il mondo, o la nostra volontà di cambiarlo: volontà che è il desiderio profondo e la sfida impossibile che muove ogni passione pedagogica. Ma dico volontà di cambiare le cose  quotidianamente, ognuno nel suo giardino, nella sua classe:

Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola […]. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio (don Milani, lettera a Nadia Neri, in Roghi, Prologo). 

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