Emozioni di lettura. A proposito di “L’ultima sillaba del verso”
Sul romanzo di Luperini sono usciti su questo blog due ottimi interventi di Mirone e di Cingolani. Mi sono sembrati sottili, acuti. Eppure ho avvertito che in essi manca qualcosa. Entrambi tacciono su un aspetto fondamentale del romanzo: l’importanza decisiva delle emozioni e il carattere lirico del testo.
Nel prologo due passaggi mi hanno imposto una prima riflessione: “tutto si può descrivere, spiegare, capire, niente si può comprendere”, e allora anche l’ultima sillaba del verso non svela nulla?
E più avanti: “Si dice che il verso acquisti il proprio senso dall’ultima sillaba e che solo la meta dia significato al percorso. Ma quando non ci sono più mete e la morte è soltanto la fine?”
Allora si torna al passato, alla lingua e alla vita della madre che trova senso nella ripetizione, nei piccoli gesti quotidiani che spesso diventano simboli da decifrare e tramandare come cucinare i necci. Una regressione al momento in cui è ancora possibile il rifugio nell’innocenza. E si torna agli affetti, si torna a un amore.
In questo romanzo, dall’inizio alla fine, il passato ricopre, avvolge, si adatta alla forma del presente. E l’opera commuove non là dove il protagonista descrive la malattia, le settimane, i mesi di profondo disagio fisico e morale, il deperimento del corpo che prima o poi tradisce tutti a dispetto della nostra voglia di durare, ma nelle pagine che ripercorrono le fasi di un amore vissuto in età matura senza infingimenti e inganni, un amore vero, paziente, generoso. Un amore che sa guardare e riconoscere in se stesso i lati in ombra ma è anche capace di integrare i sentimenti negativi all’interno dell’umana complessità. L’amore qui è completamento dell’essere, nello stesso modo in cui lo è l’impegno politico. Per questo sono in totale disaccordo con la recensione di Angelo Guglielmi uscita su “Tuttolibri” il 5 maggio. Guglielmi coglie nella storia d’amore una volontà di ammiccamento al lettore, curioso della vita privata di un ex sessantottino prima “esaltato” e poi “disilluso” dal corso degli eventi storici e politici, la giudica una brutta concessione a esigenze romanzesche come in un film di guerra la vicenda amorosa del protagonista. Io trovo, invece, in quelle pagine private e fortemente liriche una rappresentazione di una passione capace di aggredire il perbenismo borghese, il decoro domestico e istituzionale. Una rappresentazione nuova, uno sguardo fermo, a volte duro, e allo stesso tempo tenero come una confessione, ma comunque capace di mettere in discussione le consuetudini e il “politically correct”.
Il lirismo è esplicito anche nella resa paesaggistica. Non dobbiamo dimenticarci di come la natura faccia da sfondo ai primi gesti goffi e imbarazzati dei due amanti. Qui il contatto, oltre che fisico, diviene mentale e psicologico, quasi si compisse una sorta di fusione primordiale fra uomo e natura: “Dal culmine del poggio si vedevano in lontananza le cime dei campanili della città, e, più vicini, i campi neri appena arati, il verde delle vigne e degli oliveti, le macchie scure dei boschi e quelle biancheggianti dei borghi e dei casolari sui fianchi dei colli. Guardavamo insieme, e le nostre spalle si sfioravano, i gomiti si toccavano.” Oppure si pensi alla scena in cui i due, sprofondati nella calma irreale del paesaggio, avvertono “il ticchettio di un picchio che col becco colpiva la corteccia, il trillo di una cingallegra che tritava l’aria”. La stessa Claudine sembra spesso fusa con la strada campestre, con gli alberi, con l’upupa.
E ancora il paesaggio diventa uno spazio mentale quando Valerio “sfinito, sulla sdraio“ trova nella posta elettronica un messaggio di Claudine, e il senso del tempo sembra scomporsi e ricomporsi come “si aprono e si richiudono quegli spicchi di azzurro tenero nel verde ostinato delle foglie”
Ed è da lì, nel presente doloroso di Valerio, che si riaffaccia improvvisamente un ricordo a scardinare un senso che pareva compiuto e a riaprire una storia che pareva chiusa. Attraverso il filtro della memoria, Valerio penetra nella sua coscienza più profonda sino a scoprire una propria fragilità inaspettata: capisce di non aver avuto il coraggio di nominare l’amore, di averlo in fondo sottovalutato, di non essersene assunto la responsabilità. Di essere stato lui a volare basso e non Claudine, di non aver avuto il coraggio di schierarsi dalla parte dei sentimenti, di pensare a un “noi”.
Qui ci sono un maschile e un femminile che si intersecano nello scambio epistolare fra Claudine e Valerio posto nell’epilogo del romanzo in cui si sviluppa un nesso significativo con la voce della madre: “La mamma non era gelosa delle donne dei figli. Si legava alle fidanzate e alle nuore, le proteggeva, non voleva che diventassero vittime della prepotenza maschile, come era successo a lei […] E loro, nuore e nipoti, si riconoscevano nella sua lentezza…” La mamma che tenta di trasfondere nelle donne dei figli un profondo senso di calore e di sicurezza. E ancora: “la mamma lo sapeva d’istinto, di pancia”. Un po’ come sentono tutte le donne. La mamma sa che la vita delle donne è esposta a ogni tipo di abuso, sa, o forse intuisce, che le conquiste sociali non sono per sempre e che le donne non riusciranno mai a eliminare del tutto la paura dalle loro vite. Nel darsi e nel negarsi di Claudine c’è anche questo trauma antico di esclusione e perdita. C’è il timore di dover abbandonare gli ormeggi con cui si è difesa fin allora.
Valerio, che per capirla ha fatto ricorso a categorie psicologiche e sociologiche, alla dicotomia fra pulsioni vitali e senso di colpa e al potere distruttivo della madre, si accorge con enorme ritardo che “questi strumenti non mi bastano più, colgono solo un aspetto della questione.” Questi strumenti non sono in grado di cogliere il disagio di Claudine per un amore clandestino o il timore di dover competere con un uomo affermato che rappresenta il potere professionale e maschile. Valerio insomma si trova di fronte a una paura ancestrale che nasce dalla pancia di ogni donna.
Le sue categorie non spiegano perché “Claudine sia stata l’unica donna con cui avrei potuto vivere…”, e non lo spiegano perché cercano le ragioni del comportamento partendo dalla testa e non dalla parte più nascosta di noi, dalla nostra esigenza di essere sorpresi e sconvolti. C’è in noi una parte sommersa e censurata, che non vuole che la nostra vita prosegua sulla strada vecchia e stanca delle difese sulla quale invece l’abbiamo incanalata. Il romanzo dà voce a questa parte.
Valerio aveva cercato di imprigionare Claudine in moduli prettamente maschili: gli uomini d’altronde non sono adeguati a praticare il linguaggio della madre, ignorano di necessità l’antico disagio di essere femmina. Cosicché anche lui ogni volta deve tornare a scoprire quanto uomini e donne siano irrimediabilmente divisi. Solo alla fine capisce che soltanto rieducandosi all’emozione, alla percezione del sentimento, un uomo e una donna possono incontrarsi davvero. Di qui l’importanza decisiva delle emozioni in questa storia e nel romanzo di Luperini.
Devo aggiungere che, leggendo, le emozioni del testo diventano quelle del lettore stesso. E infatti ho letto “L’ultima sillaba del verso” d’un fiato come sono capace di fare quando ho la fortuna di imbattermi in romanzi che mi scavano dentro e mi arricchiscono, e quello di Luperini è uno di questi. Un romanzo potente e forte.
Leggendo bisogna centellinare le parole, le frasi, lasciandole fluire dentro di noi con lentezza perché sono parole vere, sono di quelle che viene voglia di sottolineare per non scordarle. Di quelle che mi fanno fare un respiro profondo perché sembrano scritte per dare sostegno alle mie riflessioni, alle mie emozioni. Mi sono detta: ma guarda un po’ questo libro sta parlando di cose che ritengo importantissime, sta dando forma e significato ai miei pensieri.
Se scrivere esprime la voglia di condividere, leggere è anche l’occasione per dire con parole altrui ciò che sentiamo. Leggere è un po’ abitare le parole degli altri quando ci corrispondono.
C’è un modo di narrare che rende giustizia a chi scrive e a chi legge ed è quando ogni parola, ogni sillaba (per dirla con il titolo del testo) cade nel punto in cui, dentro di me lettore, acquista un senso, una particolare risonanza.
Romano Bilenchi ha detto che “i libri servono a trasmettere la verità morale che sta al fondo di ogni sofferenza”. Luperini convince il lettore che è proprio così.
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