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diretto da Romano Luperini

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Iniziare a fare Letteratura. Un modulo zero per una classe difficile

 Un giusto abbrivio

Nella scuola dove insegno il dipartimento di Lettere prevede all’inizio del triennio un modulo zero di introduzione al linguaggio della Letteratura, da svolgere nelle prime due settimane di lezione di settembre. Si tratta di una pratica a mio parere di buon senso didattico e che negli anni ho sperimentato essere ottima per dare un giusto abbrivio al percorso del triennio. Nello spirito della condivisione delle pratiche che anima questo blog, racconterò brevemente come è andata quest’anno con la mia III°C, classe composta da soli maschi e presentatami dai colleghi del biennio come difficile e particolarmente ostile alle materie umanistiche.

Omaha beach

La programmazione dipartimentale della mia scuola non prevede per il modulo zero una tematica in particolare, ma soltanto una serie di obbiettivi declinati in conoscenze e competenze, riassumibili nell’idea di facilitare l’accesso al linguaggio letterario. Sta quindi al docente ideare e organizzare i contenuti del proprio modulo zero prescindendo, almeno per le prime lezioni, dal programma canonico. I primi di settembre di quest’anno ho iniziato a pensare al possibile tema e fin da subito ho capito che avrei dovuto sceglierne uno che mi permettesse di arrivare alla Letteratura come meta finale del percorso ma di non poterla utilizzare, almeno inizialmente, come mezzo. Questo per un motivo noto oggi a ogni insegnante di Lettere: il linguaggio della Letteratura, tanto più se storicizzato, è oramai per ogni studente un linguaggio inizialmente lontano se non estraneo, di sicuro posizionato nei recessi più remoti della grande galassia della multimedialità dove si muovono i nostri ragazzi. Detta in modo semplice, pur consapevole che nel giro di quindici giorni sarei comunque dovuto arrivare all’ Indovinello veronese, mi era ben chiaro come ciò non sarebbe potuto accadere con profitto semplicemente iniziando da un buon sonetto introduttivo e paradigmatico del bello del Medioevo. Consapevole quindi di dovere sparigliare un po’ le carte in tavola tanto più a fronte di una classe difficile, dopo aver vagliato e scartato diverse ipotesi, come spesso capita a noi insegnanti è stata la vita quotidiana a darmi il suggerimento giusto. Una visione serale in quei giorni di settembre con mio figlio del film Salvate il soldato Ryan mi ha regalato dopo i primi minuti dello sbarco a Omaha beach il titolo bello e pronto di quello che sarebbe stato il mio modulo zero: Raccontare la guerra. Introduzione al linguaggio della Letteratura.

 Partire coi botti

È stata proprio la celebre sequenza dello sbarco del film di Spielberg a farmi scegliere il tema della guerra come tema. Perché? Per il grado di tenuta narrativa che quei venti minuti, pur nella linearità dell’azione rappresentata mi hanno comunicato. Pur avendo visto molte volte il film, ma avendo quella sera ancora in testa i dubbi pomeridiani sull’ideazione del modulo zero, a un certo punto mi sono trovato a pensare: «ecco, questa scena reggerebbe alla grande in una classe, anche la peggiore, parto da qui». L’idea si è poi immediatamente strutturata in testa nella modalità di potere utilizzare quella sequenza molto forte per poi risalire attraverso un percorso che sottoponesse lo stesso specifico ad altri linguaggi, fino ad arrivare al modo di dire la stessa esperienza attraverso il mezzo letterario. Alla scelta ha contribuito la considerazione oramai assodata con gli anni di quanto contino i primi momenti di approccio a una classe nuova: come in ogni rapporto che voglia durare anche tra docente e alunni è necessario che le prime mosse siano giocate bene. Immaginare una prima ora di lezione in cui, dopo le presentazioni di rito, sarei partito letteralmente coi botti, mi è parsa una buona strategia: avrei molto probabilmente ottenuto silenzio, attenzione, curiosità per un modo inatteso di iniziare il programma. E così è stato, così come poi per il proseguimento del modulo che da qui in poi racconterò per come si è svolto realmente in classe in quelle prime ore di settembre.

Primo passo: cinema e fotografia

Il primo giorno, fatte le presentazioni e dati ragguagli vari ho subito dato il via al modulo. Dopo i primi cinque minuti di proiezione del video dello sbarco che ho intitolato per la classe «L’inizio della battaglia» (cfr. link Prezi, Il linguaggio del cinema #1, min. 0’-5’,40’’), ai quali la classe ha assistito in totale silenzio, sono immediatamente passato alla seconda scheda che avevo preparato riguardante i famosi scatti di Robert Capa nel giorno del D-Day. Delle poche sopravvissute al maldestro Larry Burrows (colui che bruciò in fase di sviluppo gran parte dell’eccezionale documento di Capa), ho scelto quattro foto sull’azione dello sbarco più una molto famosa che ritrae il volto sfocato ma in chiara difficoltà di un soldato a pelo d’acqua (cfr. link Prezi, Il linguaggio della fotografia #1). Con gli studenti abbiamo analizzato foto per foto e in particolare abbiamo riflettuto qualche istante su quel volto sconosciuto che ci raccontava una storia terribile in un momento terribile. Fatto questo ho appuntato due righe sulla lavagna che i ragazzi hanno copiato su un foglio bianco che avevo consegnato loro: «1) Il linguaggio del cinema #1, 2) Il linguaggio della fotografia #1». Quindi ho introdotto una seconda sequenza cinematografica sempre tratta dalla scena iniziale del film che ho inititolato per la classe «L’uccisione della vedetta». Il filmato è partito (cfr. link Prezi, min. 0’-7’,08’’) e ho fermato l’azione a esattamente al minuto 7’,08’’, ovvero nell’istante in cui la vedetta tedesca viene abbattuta dopo essere stata colpita dal cecchino Daniel Jackson. La classe era ancora silenziosa e ho affiancato anche a questo secondo video una foto reperita in rete, proveniente dai Bundesarchiv, nella quale compare il cadavere di un soldato morto in battaglia nel 1941. «Ovviamente non è la vedetta uccisa nel film» ho detto ai ragazzi, «ma le assomiglia» ha aggiunto immediatamente uno dei ragazzi in prima fila. «Esatto», ho detto lui, «la prossima lezione andremo avanti e sapremo di più di quella vedetta». Abbiamo discusso un po’ su quanto fatto, appuntato altre due righe («3) Il linguaggio del cinema #2, 4) Il linguaggio della fotografia #3») e infine è suonata la prima ora del modulo zero.

Secondo passo: poesia e arte

La seconda ora del modulo zero, il giorno dopo, è partita con un breve riepilogo dialogato e collettivo su quanto visto nella prima ora del modulo. Una volta recuperate tutte le suggestioni di quella prima immersione nel linguaggio cinematografico e fotografico che raccontano la guerra ho proiettato un primo esempio letterario: la poesia di Clemente Rebora, Voce di vedetta morta (cfr. link Prezi, Il linguaggio della poesia #1). «È una poesia difficile» ho detto subito loro, «e poi parla della prima guerra mondiale, non della seconda». «E allora perché la facciamo?» ha subito obiettato uno di loro. «Perché è difficile e perché non parla della stessa guerra, ma fa lo stesso» rispondo io, «ma la vedetta è la stessa, quella del film e quella della foto, ci dirà delle cose che film e foto non ci hanno detto». «Ma come la stessa?» protesta qualcuno. «È la stessa» insisto io, «e anche di più, fidatevi». E inizio a commentare. Ora, senza entrare nel merito dell’analisi del testo (ma si veda a riguarda la magistrale lettura di Pietro Cataldi, Giusficare la vita: lettura di Voce di vedetta morta) è stato sorprendente sperimentare come, giocando sull’ambiguità dell’identità della vedetta, tratto per altro caratterizzante e costitutivo della bellezza del componimento, sia stato molto agevole portare gli studenti all’interno del bosco emozionale della lirica, fino ad arrivare all’imperativo del non dover dire, fino al gorgo di baci come una lotta, fino alla sospensione di senso finale. Il tutto per il tempo sorprendente di almeno venti minuti. Grazie alla fase preparatoria fatta di immagini e video, i ragazzi si sono così potuti approcciare al linguaggio profondo e straniante di Rebora. Terminato il tempo magico di attenzione della classe in cui ho potuto fare Letteratura già nella seconda ora in una classe nuova e sulla carta ostile, mi sono affidato ad un nuovo puntello sicuro, il linguaggio dell’arte, non prima però di aver fatto segnare sul foglio bianco del giorno precedente la solita dizione: 5) Il linguaggio della poesia #1». Sulla Lim è comparsa così un’incisione di Otto Dix, Un ferito (cfr. link Prezi, Il linguaggio dell’arte #1), opera di forte impatto, raffigurante un soldato con il ventre lacerato da una granata. Seconda campanella e breve pausa prima dell’ora successiva.

Terzo passo: poesia e narrativa

Va da sé che l’incisione di Otto Dix, ma soprattutto Voce di vedetta morta avrebbero finito per chiamare in causa Ungaretti e naturalmente Remarque. Il passaggio dal soldato dilaniato di Dix al compagno massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio di Veglia è stato praticamente automatico (cfr. link Prezi, Il linguaggio della poesia #2), ma tanto più per il rinforzo dato dal parallelismo istituibile tra l’io lirico della poesia di Rebora e questo della poesia di Ungaretti, sulla cui lettura rimando sempre al contributo di Pietro Cataldi citato poc’anzi. Il tempo di abbozzare (sì, l’ho fatto) un principio di analisi sulla comunicazione centrale delle due liriche in merito all’irriducibilità del conflitto complesso e non sanabile tra vita e morte, in virtù del punto di vista eccezionale della guerra, infine ho proiettato e consegnato a mano ai ragazzi due pagine tratte da Niente di nuovo sul fronte occidentale (cfr. link Prezi, Il linguaggio della narrativa #1). Abbiamo letto insieme la sequenza in cui si racconta una situazione tangente a quella descritta in Veglia: la famosa notte passata in una buca da Paul con un moribondo, in questo caso però reso tale dallo stesso protagonista che l’aveva accoltellato nel momento stesso in cui il soldato vi si era gettato dentro ignaro della sua presenza. La lettura è stata svolta analizzando alcuni dei meccanismi propri delle teorie narratologiche tipiche del biennio, ma questo più in ossequio e continuità con quanto fatto da chi mi aveva preceduto che per interesse personale: quello era invece tutto spostato sull’urgenza di far cogliere alla classe il portato emotivo delle pagine in oggetto. Anche questa terza ora è giunta al termine, ho dato ai ragazzi delle attività per casa sui tre testi analizzati e li ho infine preparati alla conclusione del modulo zero che avremmo vissuto insieme due giorni dopo.

Quel nulla d’inesauribile segreto

Al rientro in classe ho fatto tirare fuori ai ragazzi il foglio sul quale avevamo appuntato i tre linguaggi analizzati: il linguaggio del cinema, il linguaggio della fotografia, il linguaggio della poesia e il linguaggio della narrativa compendiati nel più generico linguaggio della Letteratura. Ho impostato una semplice tabella sulla lavagna (cfr. link Prezi, Linguaggi a bilancio) e abbiamo iniziato insieme a scrivere sotto quelle che ci erano sembrate essere le caratteristiche importanti di ciascun linguaggio. Non si è trattata di una semplice raccolta di idee, quanto di una discussione resa possibile dall’effettivo e concreto confronto sostenuto con quei linguaggi nelle ore precedenti. C’è chi ha colto i colori della fotografia usati da Spielberg, chi ha evidenziato l’effetto del bianco e nero in Capa, ma anche chi è tornato sull’amplesso descritto da Rebora o sulla pietà di Paul. Ho raccolto le definizioni più convincenti e le ho fatte sistemare ai ragazzi in quello che abbiamo concordato come bilancio definitivo del nostro percorso. Solo a quel punto e dopo cinque ore di lavoro ho posto ai ragazzi la domanda (oziosa) che spesso noi insegnanti facciamo all’inizio di un percorso di studi di storia della Letteratura: «Che cos’è la Letteratura?». No, non ho la sfrontatezza di millantare che abbiano risposto chissà cosa. Hanno ovviamente balbettato, anche se in realtà la domanda mi è servita per introdurre quella che era nella mia mente la vera meta segreta posta a termine del percorso. Ho proiettato un’ultima poesia, Il porto sepolto (cfr. link Prezi, Conclusione). Ho così spiegato ai ragazzi del mitico porto di Alessandria d’Egitto, del poeta che come una specie di palombaro dell’anima è l’unico in grado ad arrivare a quelle profondità e restituirci un patrimonio di senso da regalare al mondo intero: «Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»). Era questo il punto dove volevo dunque arrivare con il mio Modulo zero: presentare in classe la possibilità, anche per la nostra classe definita dai colleghi che me l’avevano presentata “difficile e problematica”, di accedere a «Quel nulla di inesauribile segreto». Di questo abbiamo parlato a lungo. Alla fine mi sono lasciato anche sfuggire un «vedrete diventerete molto bravi» (eh sì, questo lo millanto). Ma per farlo, per portarli fin lì, ho avuto bisogno della forza scardinante della narrazione della guerra, anche se poi la settimana successiva li avrebbe aspettati l’Indovinello veronese. Ma in fondo, a pensarci bene, forse anche quell’anonimo copista, in quel momento di noia tra VIII e IX secolo deve aver acchiappato un canto, un pensiero, un istinto fatto riemergere da chissà quale meraviglioso abisso letterario.


 

Fotografia: G. Biscardi,  Memoriale per i soldati sovietici, Berlino 2015.

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