Le guerre invisibili: Gianfranco Rosi, Fuocoammare
Il testo seguente raccoglie, in forma abbreviata, alcune osservazioni tratte da un saggio di prossima pubblicazione.
Nelle note di regia a Sacro Gra, il film del 2013 dedicato al Grande Raccordo Anulare, Gianfranco Rosi scriveva:
Mentre cercavo le location del film, in tutti quei mesi passati intorno al Grande Raccordo Anulare, ho portato con me Le città invisibili di Calvino. Il vero tema del libro è il viaggio, l’unico modo in cui il viaggio oggi sia ancora possibile: vale a dire all’interno della relazione che unisce un luogo ai suoi abitanti, nei desideri e nella confusione che ci provoca una vita in città e che noi finiamo per fare nostra, subendola. Il libro di Calvino ha il coraggio di percorrere strade opposte, si lascia trascinare da una serie di stati mentali che si succedono, si accavallano. Ha una struttura complessa, sofisticata, e ogni lettore la può smontare e rimontare a seconda dei suoi stati d’animo, delle circostanze della sua vita, come è successo a me. Questa guida letteraria ed esistenziale mi è stata di conforto e di stimolo nei tanti mesi di lavorazione del film, quando il vero GRA sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai.
Il commento d’autore identifica con chiarezza le ragioni del parallelo con Calvino, che potrebbe sembrare per altri versi arbitrario: in primo luogo, l’attenzione al rapporto fra un dato luogo e gli esseri umani che lo abitano, secondo i principi psicogeografici che animano anche il libro a cui il film è ispirato (Sacro romano Gra, di Nicolò Bassetti e Sapo Matteucci); in secondo luogo, la struttura combinatoria dell’opera, che non corrisponde però a un mero gioco matematico, ma all’esigenza di non imporre una prospettiva univoca sulla complessità dello spazio rappresentato. Un altro aspetto fondamentale del film (e dell’intera produzione di Rosi) è, infine, l’interesse per l’invisibile. Più che in senso calviniano, tuttavia, la nozione va intesa a partire dai recenti sviluppi della cosiddetta spectrality theory – termine con cui viene designato lo studio della rappresentazione letteraria o cinematografica di contenuti rimossi dalla coscienza individuale o collettiva, e che riaffiorano dunque alla stregua di fantasmi (cfr. in proposito The Spectralities Reader: Ghosts and Haunting in Contemporary Cultural Theory, a cura di María del Pilar Blanco ed Esther Peeren, Bloomsbury, 2013). In questo senso va interpretato l’interesse di Rosi per i luoghi di passaggio e le zone grigie – colto con efficacia da Daniela Brogi in una recensione del 2013 –, che si manifestava in Sacro Gra nella scelta di concentrarsi non sulla città di Roma, ma sulle sue periferie invisibili; una scelta condivisa, del resto, da molti altri classici della psicogeografia contemporanea, come ad esempio London Orbital di Iain Sinclair (2005).
Tutte queste caratteristiche si ritrovano anche nel recente Fuocoammare, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino, nonché attuale candidato italiano per l’Oscar al miglior film straniero. Sempre centrale, anzitutto, è l’interesse per l’esperienza umana dello spazio (in questo caso l’isola di Lampedusa), indagata da prospettive molto diverse tra loro: il bambino Samuele, figlio di un pescatore, e i suoi compagni di scuola; Pietro Bartolo, direttore del poliambulatorio di Lampedusa, e i soccorritori della guardia costiera; il conduttore radiofonico Pippo Frangipane, e gli anziani abitanti dell’isola con i quali comunica ogni giorno; e soprattutto i migranti provenienti dall’Africa, di cui vengono documentate senza cedimenti retorici le atroci sofferenze e le insostenibili condizioni di viaggio. Secondo la logica combinatoria già sperimentata in Sacro Gra, il film si compone di circa trenta sequenze di diversa durata, in cui le diverse prospettive vengono alternate con una casualità solo apparente; sommando fra loro tutte le sequenze, ai due filoni narrativi principali (quello di Samuele e quello dei migranti) viene dedicata grossomodo la stessa quantità di tempo, circa 40 minuti ciascuno sulle due ore totali. Altrettanto forte è, naturalmente, l’interesse per luoghi periferici e di passaggio, come appunto l’isola di Lampedusa. La nozione stessa di periferia viene però ribaltata fin dalle note iniziali del film, in cui l’isola (marginale solo da un punto di vista eurocentrico) viene presentata come il centro stesso del Mediterraneo, a partire da una semplice constatazione geografica: ‘L’isola di Lampedusa ha una superficie di 20 km2, dista 70 miglia dalla costa africana, 120 miglia da quella siciliana’.
Nel caso di Fuocoammare, ad ogni modo, il riferimento calviniano più pertinente sarebbe forse il racconto eponimo di Ultimo viene il corvo: per l’effetto straniante creato dalla scelta di un bambino come punto di riferimento principale della narrazione, per il ruolo svolto dalla mira del protagonista (tirare con la fionda contro ogni tipo di bersaglio è il passatempo preferito di Samuele), e per l’ambientazione in tempi di guerra. Soprattutto di guerra, in effetti, parla Fuocoammare: il titolo, tratto da una canzone sui bombardamenti di Lampedusa del 1943, connette idealmente la seconda guerra mondiale e le violenze da cui i migranti di oggi stanno fuggendo. Evidenziando il legame tra conflitti così lontani nel tempo, accomunati però dallo spazio liminale del Mediterraneo, Rosi avvicina a noi le esperienze di esseri umani troppo spesso rimossi dal nostro immaginario. Una funzione simile è assegnata alle numerose simmetrie tra le vicende tragiche dei migranti e quelle ben più lievi di Samuele: ad esempio la presenza minacciosa del mare, che tanto i profughi quanto il bambino si trovano – in condizioni ben diverse – ad affrontare (i primi cercando di attraversare il Mediterraneo, pur sapendo che ‘il mare non è una strada’; il secondo esercitandosi per diventare un giorno come il padre, che ‘come sta in terra sta in mare’); oppure l’occhio pigro che Samuele deve imparare a usare, e a cui fa da contrappunto l’occhio malato di uno dei migranti soccorsi nelle sequenze finali del film.
La rieducazione dell’occhio pigro è, in effetti, una perfetta metafora del processo che il film sollecita nella coscienza dello spettatore. Un po’ come gli occhiali indossati dal protagonista, gli intensi primi piani degli immigrati durante le operazioni di schedatura ci costringono a osservare gli eventi da una prospettiva per noi scomoda e innaturale, a fare i conti con la singolarità umana di chi viene spesso percepito solo da lontano, e confuso all’interno di una massa indistinta. Analogamente, la scena finale del film – in cui Samuele prende la mira e spara in aria con una mitragliatrice immaginaria – ci ricorda che ancora oggi il Mediterraneo è teatro di guerre forse invisibili ai nostri occhi, ma non per questo inesistenti.
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