#1
Ottobre 2016, Bob Dylan vince il Nobel per la Letteratura. S’accende la discussione planetaria, s’infuoca la battaglia socialmediatica, risuona come un gong colossale la domanda delle domande: è letteratura o non è letteratura? Come mi capita da oramai molti anni, io che un tempo confezionavo sentenze in quattro e quattr’otto (ma col pudore di farle scontare giusto a quattro amici quattro, oltre mia moglie) mi taccio e annaspo per giorni tra i verdetti che mi inondano appena accendo la tv, sfoglio il giornale, vago in rete. Alcuni mi sembrano subito illuminanti, la maggior parte scontati, alla fine mi stufo e decido di staccare: mi autoassolvo ammettendo che in fondo sono contento che Dylan abbia vinto il Nobel, senza di lui non ci sarebbero stati De Gregori-Guccini-De André e io con quelli ci sono cresciuto.
#2
Il dibattito però continua, sembra non voglia lasciarsi domare, che sia destinato a durare più a lungo degli altri anni, quando, a eccezione di quando fu Fo, dopo la prima settimana in Italia si era soliti passare ad altro. Questa volta no, la questione sembra seria, certo i social giocano un ruolo determinante. Due settimane dopo decido di prendere di petto la questione. «Questa mattina ne parlo a scuola» mi dico, «che quelli della V°B meccanica qualcosa di intelligente se lo inventano di sicuro». Ovviamente so già che nessuno saprà chi diavolo sia Bob Dylan. Vado in classe. «Boh, ah sì, quello che ha vinto il premio Nobel». «È un cantante». «Mai sentito, e chi è?». «Sì è quello che ha vinto il premio Nobel, ma ho letto su Facebook che è scomparso» dice Giulianelli Massimiliano della V°B meccanica. Ripeto l’esperimento in altre classi e il risultato è lo stesso: nessuno conosce Dylan, i miei studenti non conoscono Dylan, con tutta probabilità gran parte degli studenti sotto i vent’anni in Italia l’ha forse giusto sentito nominare. Vorrei obbiettare loro «ma dai, mica stiamo parlando di Svetlana Alexievich!», ma non posso farlo perché nemmeno io ricordo affatto quel nome, se non dopo essere andato a ritrovarlo in rete, e sì che è passato solo un anno. Loro mi guardano male, ma in molti mi ripetono questa cosa che Dylan è scomparso e non si fa trovare. Tornato a casa lo cerco io tra i libri e scopro che Pier Paolo Pasolini nel 1969, durante un soggiorno a New York, dava anche lui per scomparso il giovane Dylan, proprio come Giulianelli Massimiliano della V°B meccanica. Mi domando che faccia avrebbe fatto Pasolini se gli avessero profetizzato quanto sarebbe accaduto mezzo secolo dopo. Lo sparito che scappa dal Nobel per la Letteratura:
Nuova York resta una città sublime, è certo, il vero ombelico del mondo, dove il mondo mostra ciò che in realtà è. Tuttavia rispetto a tre anni fa, tutto sembra sospeso e come morto. Dov’è scomparso Ginsberg? E Bob Dylan? È solo questione di una moda passata?
(«Tempo», 19 aprile 1969)
Tornato a casa, rivado un po’ in giro per la rete, poi mi stufo di nuovo e accendo Skype.
#3
Chiamo Filippo, amico fraterno, da anni italianista in America, cervello nemmeno troppo in fuga. Iniziamo a disquisire sul premio ma anche di Milan, inevitabilmente finiamo con tutti e due i piedi dentro la sabbia mobile «letteratura sì/letteratura no, poesia sì/poesia no». Ovviamente non ne veniamo a capo, se non nel concordare che il tema sia annoso, atavico, che discutere del rapporto parola-musica significherebbe parlare dell’universo, che insomma non se ne esce o molto più semplicemente noi due non siamo in grado. Ci salutiamo con un pari e patta, anche se in realtà sull’opera di Dylan dei due uno è più possibilista («in fondo è poesia»), l’altro meno («senza musica è scontato e banale, tradotto anche peggio»). Spengo Skype, apro un altro libro e trovo che nel 1972 Franco Fortini, parlando di traduzione letteraria parlava di testi poetici tradotti in massa negli anni Sessanta, secondo un arco che partiva da Mallarmé e arrivava fino a Bob Dylan. Mi domando che faccia avrebbe fatto Fortini se gli avessero allora profetizzato che quasi mezzo secolo dopo qualcuno sarebbe stato tentato di usare quel passo (in malafede, perché in realtà Fortini si limitava a registrare un dato) per dimostrare all’amico lontano la liceità del Nobel a Dylan:
Negli anni Sessanta, poi, mentre si tende a ricreare una traduzione di livello letterario alto, le versioni di testi poetici divengono elemento normale della editoria di massa, lungo un arco amplissimo che va da Mallarmé a Bob Dylan.
(«Problemi», luglio-settembre 1972)
Mi stufo di nuovo e torno sulla rete.
#4
Rileggo gli interventi più interessanti. Alcuni di questi già fanno canone (il canone annuale del «ma sì, ma però, proprio no» al Nobel). Magrelli, Baricco, De Mauro. Welsh per uscire dai confini. Non posso evitare il pensiero sugli imprescindibili, del resto il borbottìo dei tamburi ad annuncio della loro parata s’era palesato, come ormai da un pezzo, già dalla fine dell’estate. Anzitutto la triade dei lesi in maestà: «De Lillo, Pynchon, King». Ovviamente Roth. Poi e solo poi Murakami. Sui primi tre, chiunque bazzichi la cerchia social che si rispetti per avere il patentino da polita della social-repubblica delle Lettere sa che non si transige. «Il Don non scrive libri, di più», «noi, quelli del postmoderno», «King è il re, alé, Bloom peggio per te». Poi Roth il rosicone, bullizzato ormai dalla patria ironia sociale, «va a finire che il prossimo anno ce lo ritroveremo su Calciatori brutti». Murakami è ancora giovane, prima o poi ce la farà, poi lo leggo dai tempi in cui Norwegian Wood si chiamava Tokyo blues, visto che il pezzo è il mio gli concedo rispetto. Ma mi annoio di nuovo, mi annoio per loro, che poi in fondo lo stesso King, che non mi piace e mi annoia pure lui (horribile dictu), rilascia una dichiarazione molto bella: «Sono in estasi per il successo di Bob Dylan. Una cosa grande e buona in una stagione di squallore e tristezza». Anche il De Lillo spende belle parole, addirittura viola il tabù musica-parole (caro Filippo due a zero): «Io penso che le sue canzoni siano poesia, tanto nella musica, quanto nei testi. Possono essere ascoltate, ma anche lette e analizzate attraverso i loro versi». Ma comincia ad essere tardi, entro in catalessi da rotella mouse. La noia cede il passo alla sonnolenza.
#5
Spulcio qualche commento, non quelli ufficiali, ma i commenti dei lettori, di gran lunga la fonte più interessante e originale tra quanto compaia in rete. Ne scovo uno in uno dei blog che apprezzo di più (Vibrisse), a commento di un intervento che apparentemente parla di tutt’altro. Negativo, un po’ apocalittico, ma lucido:
Cosa è successo? La storia è nota. Facebook e iPhone hanno assestato la prima mazzata alla lettura. Poi Twitter, Instagram, Pinterest. Ciascuno tenta di amplificarsi, di microfonarsi artigianalmente per un pubblico immaginario che si spera gli punti un bel giorno un riflettore addosso, accorgendosi della sua unicità, della sua bellezza, del suo talento. (…) Mettici anche Youtube massivo dove soddisfi ogni curiosità, ti ritrovi anche le sigle dei cartoni animati dell’asilo, viaggi toccando corde di te stesso che non sollecitavi da decenni. Poi le serie televisive o Netfix che toccano regioni dell’ipotalamo prossime a quelle da dipendenze da oppiacei (…). Eppure quanta scrittura ben lavorata c’è in quelle sceneggiature! Solo che appunto, si tratta di sceneggiature e non di romanzi. Aggiungici stimoli visuali accessibili in 4G, ovunque, con cuffie ad altissima fedeltà, immersivi, stimoli epidermici, link inviati da amici che se non segui, se non apri, ci si sente pure in colpa. Il tempo a disposizione è sempre lo stesso però. La giornata in veglia dura sempre 14-16 ore. Dove è rimasto lo spazio per quella cosa unica e insostituibile che è la bella lettura?
Mi colpisce quanto appena letto. Iniziano a ricomporsi i pezzi pur rimanendo in disordine. Provo a rimettere insieme i tasselli di un puzzle felicemente caotico. Premio Nobel a Dylan. Le reazioni. Domande importanti, la più importante: che cos’è la Letteratura? E poi: che cos’è Letteratura? Sopravvivrà la Letteratura? La ridda degli schieramenti in campo. La riserva indiana degli scrittori che s’impunta: «esistiamo ancora, che vada detto». I premi letterari. Milioni di ragazzi che se ne infischiano. Lettori accaniti che esigono la vittoria dei propri beniamini come io da piccolo speravo che Toto Cutugno la smettesse finalmente di arrivare secondo a Sanremo. La rete. Come è cambiata la letteratura, come è cambiato il linguaggio. La critica letteraria. Ma chi è che legge ancora? Che cos’è un libro? Che è quella cosa tra la copertina e ultima pagina? Che cos’è un romanzo? E la poesia? Che cos’è la parola, che cos’è l’arte. Non sono più annoiato ma ho un sonno da morire.
#6
S’è fatta notte. Mi congedo da questa giornata rotolata dietro il Nobel con due pensieri. Il primo è che io, nonostante sia contento per motivi personali, non riesco proprio a giudicare se abbiano fatto bene o meno ad avere dato il premio a Bob Dylan. So anche che l’incapacità di giudizio su questioni così polarizzanti generalmente si genera o per l’incapacità del giudicante (che in questo caso ci potrebbe stare tutta) o per l’impossibilità di ridurre alle categorie di giusto/sbagliato una questione assolutamente stratificata e contenente molteplici gradi di analisi e quindi di giudizio. Il secondo pensiero riguarda quel poco che ho potuto registrare in merito nel dibattito italiano. Oltre le reazioni del caso è innegabile come si siano mosse domande importanti, rese tali forse dall’ansia dell’avvertimento che qualcosa stia davvero cambiando, per ciò che fino ad oggi abbiamo definito Letteratura. Ecco, questo mi pare un dato importante e mi pare abbastanza probabile che in futuro qualcuno si ritroverà a riflettere sul Nobel del 2016 come una tappa significativa di un’evoluzione di cui ancora non conosciamo gli esiti ma che pare decisamente aver subito un’accelerazione. Spengo la luce.
Fotografia: G. Biscardi, Il coraggio, Palermo 2016.
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e questo è il sonno
“ Giovedì 26 marzo 1998 – « Io resto lì coricato, coi pensieri sempre più nebbiosi. Mentre si guardavano soffiò la granata del bengala, e tracciò il suo arco iridescente e sbottò nel paracadute. Dev’essere così: quel plopped è uno sbottò. Ma più avanti come la metto? È lo stesso plopped, no? Dice: the soft blob of light plopped and burst on the open page. È quando Grannon sta leggendo Gil Blas, lo ricordo. La morbida bolla di luce gocciò e si ruppe sulla pagina aperta. Come quella che spenge Anna prima di venire nel mio letto. E anch’io, tra poco, sbotto e goccio. Dunque quel plopped va bene così, no? Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più. » (Luciano Bianciardi, La vita agra, 1962) “.