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Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/2

 A cura di Valentino Baldi

Presentiamo due interviste ad Alessandro Metlica e ad Eloisa Morra.

Metlica ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2013 presso l’Università di Padova e, fino al 2016, ha lavorato presso l’Université catholique de Louvain. Dal luglio 2016 è rientrato all’Università di Padova, con un Assegno Senior, fino al giugno 2018.

Morra è dottoranda in letteratura italiana presso la Harvard University, dove lavora anche come Teaching Fellow. Ha studiato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università di Pisa. Nel 2015 il suo libro «Un allegro fischiettare nelle tenebre». Ritratto di Toti Scialoja, ha vinto il Edinburgh Gadda Prize, Harvard Edition.

Qui è possibile trovare la scheda di presentazione.

Perché sei andata/o all’estero?

Metlica: Con ogni evidenza, si trattava dell’unica opzione per esercitare questo mestiere ricevendo uno stipendio dignitoso e regolare. I miei coetanei rimasti in Italia dopo il dottorato hanno goduto di contratti episodici, a intermittenza, o peggio hanno continuato a fare ricerca gratis: per ragioni personali – ma sarebbe più corretto dire: per ragioni di classe – questo itinerario mi era precluso. Sin dai primi mesi del dottorato, che ho svolto grazie alla borsa ministeriale all’Università di Padova, ho perciò cercato di costruire un piccolo network internazionale, con la speranza di ricevere qualche offerta di lavoro da fuori. Più in generale, ho l’impressione che percorrere l’intera carriera accademica in Italia, salvo rarissimi casi, sia diventato affatto impossibile senza un congruo sostegno da parte delle famiglie. È un tema di cui si parla pochissimo, ma che in sostanza riproduce i meccanismi del prestito d’onore diffuso negli Stati Uniti: salvo che la selezione avviene a priori, per censo, poiché chi non ha una copertura famigliare alle spalle non può rivolgersi a un ente privato. A mio parere, urge una riflessione su questo punto, che in Italia resta un tabù a causa degli stereotipi sui concetti di pubblico e privato, sulla precarietà del lavoro, sul ruolo dei sindacati e dello stato sociale.

Morra: Mi sono trasferita negli Stati Uniti subito dopo la laurea per mettermi alla prova e vedere il modo in cui sarei riuscita a confrontarmi con una realtà nuova (per lingua, tipo di società, modello di ricerca e insegnamento). Era un paese diversissimo, che avevo sempre guardato con un misto di diffidenza e curiosità. Quando si è presentata l’occasione di una esperienza di ricerca e insegnamento in letteratura italiana a Harvard non ci ho pensato due volte.

 Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?

Morra: In generale mi pare che si cerchi di creare un bilanciamento tra l’impegno nella ricerca e nella didattica; oltre alla scrittura della tesi, gli studenti di dottorato e i lecturer hanno il compito di insegnare corsi di lingua, o corsi introduttivi (General Education) di letteratura, storia, o storia dell’arte. Sta poi al singolo riuscire a creare un ponte tra insegnamento e la propria area di ricerca; per quanto mi riguarda mi ritengo molto fortunata, avendo insegnato corsi che legano la lingua e la letteratura italiana all’arte attraverso la frequentazione quasi quotidiana delle opere d’arte conservate al Fogg Museum. Certamente l’avere a disposizione musei e biblioteche gestiti da curatori e bibliotecari preparati aiuta moltissimo i professori a creare non solo un ponte tra didattica e ricerca, ma anche a coinvolgere gli studenti attraverso esperienze che li portano ad avere un contatto concreto con l’oggetto di studio — che sia un dipinto, un manoscritto o una carta geografica antica. Sia da insegnante sia da dottoranda mi è capitato di prendere parte a corsi che legavano il programma a dei progetti di ricerca volti all’archiviazione o catalogazione di documenti inediti conservati nelle biblioteche dell’università, e spesso sono state esperienze positive e utili. So che non tutti gli atenei hanno a disposizione lo stesso numero di risorse, ma credo si possa riuscire a pensare a dei modi di rendere vitale e disponibile a professori e insegnanti un patrimonio museale e archivistico che nel caso dell’Italia ha del prodigioso.

Metlica: Non credo di dire nulla di nuovo sottolineando che a Padova – l’ateneo dove mi sono formato, e dove rientrerò a breve con un assegno Senior, dopo tre anni spesi in Belgio – i rapporti tra didattica e ricerca sono decisamente più squilibrati e incoerenti che a Louvain-la-Neuve. Qui, lo scorso anno accademico, sono stato titolare di due corsi; e sebbene questi si siano rivelati assai impegnativi, sono stato messo nelle migliori condizioni per svolgere il mio lavoro di ricerca. L’allusione va allo stipendio, più che adeguato, e alla chiarezza con cui era stato stipulato il contratto, dove l’attività didattica appariva integrata coerentemente (sul piano scientifico ed economico) a quella di ricerca. Si parla spesso delle supposte deficienze del modello pedagogico italiano, ma io, per me, non condivido affatto tali critiche; una riflessione metodologica in proposito è senz’altro opportuna, ma il livello dei nostri corsi di laurea, per quanto compete le materie umanistiche, resta decisamente superiore alla media europea. Il problema, a mio modo di vedere, è di natura sociale: nel caso in cui un insegnamento sia affidato a un non strutturato, l’università italiana prevede un compenso irrisorio a tal punto da riuscire offensivo (si parla, se non vado errato, di circa 150 euro al mese), senza peraltro che tale attività sia adeguatamente riconosciuta sul piano curriculare. Ciò impedisce, da un lato, che i corsi siano preparati con la serenità e la pazienza richiesti dall’insegnamento universitario, e fa sì dall’altro che le lezioni siano impartite esclusivamente da chi, per le ragioni addotte sopra, può concedersi il lusso di vivere il proprio lavoro come un hobby. È un approccio che all’estero riesce incomprensibile prima che inattuabile. 

Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?

Metlica: Ho ricevuto finanziamenti sia dal Consiglio europeo (Marie Curie), sia dallo Stato belga (FNRS). Il ruolo di docente, in questo caso, conta poco; a influenzarmi sono stati soprattutto i meccanismi della burocrazia europea. Per ottenere questi finanziamenti, infatti, ho dovuto avviare una riflessione non superficiale sulla cultura e sulla retorica della macchina-Europa, la cui concezione delle materie umanistiche ha poco a che fare con quella dell’accademia italiana. In Europa il networking è importante, ma si esplicita in forme differenti, che raramente concernono la sfera personale; alla quantità indistinta delle pubblicazioni è preferita la chiarezza del percorso di ricerca; l’erudizione delle fonti è inutile se non sostenuta da un lucido quadro teorico; al candidato si richiede, in primo luogo, di saper argomentare la rilevanza del proprio progetto. Per poter accedere ai finanziamenti europei, occorre conoscere questo circuito, che la maggior parte dei professori italiani non conosce affatto, o peggio sottovaluta e disprezza. Intendiamoci: le regole dei bandi europei sono spesso rigide e poco intelligenti. Tuttavia, se le regole sono chiare, il gioco riesce aperto: che vinca il migliore, come si suol dire. Non credo sia necessario pronunciarsi in merito ai criteri vaghi e incoerenti che regolano di prassi i concorsi universitari in Italia.

Morra: Ho partecipato in qualità di co-curatrice insieme tre miei colleghi e una docente a un progetto di ricerca legato alla catalogazione di documenti inediti legati all’esperienza coloniale italiana e conservati alla fine Arts Library a Harvard. Da lì è poi nata una mostra (ora conservata in forma virtuale: https://hcl.harvard.edu:8001/libraries/finearts/exhibitions/africa/index.cfm) volta a decostruire l’immaginario figurativo/letterario che stava alla base delle brutalità del Colonialismo italiano in Africa. È stata un’esperienza molto formativa, anche perché nata da un corso di dottorato che si è poi trasformato in qualcosa di molto più ampio — abbiamo fatto scoperte e approfondito argomenti che esulavano dai nostri tradizionali ambiti di specializzazione e che indubbiamente non avrei mai trattato stando in Italia.

Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato? Torneresti a lavorare e a fare ricerca in una università italiana?

Morra: Tra i vantaggi maggiori indubbiamente metto l’uso delle biblioteche, che negli Stati Uniti sono straordinarie. Mi è più volte capitato di riuscire a trovare in Widener (che non a caso è la seconda biblioteca al mondo) risorse su autori italiani poco conosciuti che non ero riuscita a procurarmi in Italia. Poi indubbiamente il confronto serrato con studiosi e colleghi provenienti da percorsi e specializzazioni molto diverse aiuta molto l’italianista a ripensare la propria disciplina alla luce di un contesto più ampio. Per quanto riguarda gli svantaggi, direi che mi mancano i seminari italiani vecchio stile (con lunghe discussioni e commenti!) e il poter frequentare gli archivi con facilità; non mi sento invece, come invece avevo immaginato all’inizio del dottorato, esclusa da dibattiti o discussioni in corso in Italia —  indubbiamente il web e il contatto diretto con molti amici e interlocutori italiani contribuiscono ad accorciare le distanze. Per ora mi trovo bene nella mia situazione, credo che il mercato del lavoro nordamericano sia più aperto agli studiosi giovani e con impegno si possono avere delle opportunità di fare ricerca e insegnare in ambienti di lavoro stimolanti. Proprio per questo mi piacerebbe molto, se non tornare a fare stabilmente ricerca in Italia in futuro, trovare un modo per condividere le esperienze fatte all’estero con gli studenti e ad altri ricercatori che sono rimasti nel nostro paese.

Metlica: Gli svantaggi sono principalmente due. In primo luogo, si sconta la lontananza geografica, e non solo in termini di visibilità: come è ovvio che sia, dato che si parla dello studio della cultura italiana, molti convegni interessanti si tengono in Italia, e non sempre è possibile parteciparvi. In secondo luogo, riesce difficile coltivare con qualche rigore gli studi filologici e storico-letterari, che in fondo costituiscono lo zoccolo duro della disciplina. Infatti tali orientamenti, fuori d’Italia, hanno ormai un peso attrattivo assai basso; qualora si voglia proseguire la carriera accademica, è consigliabile privilegiare altri approcci metodologici. Alla lunga, ciò si ripercuote sulla qualità degli studi, che in Europa, a mio modo di vedere, è sensibilmente più bassa che in Italia. E tuttavia va detto che il rigore di qui sopra può trasformarsi agevolmente in chiusura, in ottusità, in “scuola”. L’italianistica, in Italia, sconta a oggi una scarsissima preparazione sul piano metodologico; quel che è peggio, la maggior parte degli strutturati tende a fare di questa ignoranza un portato naturale della materia. Difficilmente, qualora fossi rimasto in Italia, avrei avuto modo di riflettere in maniera approfondita sull’analisi culturale, sull’archeologia dei saperi d’ispirazione foucauldiana, sugli ultimi sviluppi degli studi culturali e di genere. Benché le mie ricerche siano improntate a un approccio più classico, ritengo che tale apertura disciplinare sia a oggi indispensabile; in tal senso, i miei anni all’estero hanno giocato un ruolo decisivo, ampliando di molto i miei orizzonti scientifici.

Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?

Metlica: I miei riferimenti non sono cambiati, poiché ho continuato a seguire sul web la stampa italiana e internazionale, come già facevo prima di trasferirmi all’estero.

Morra: Come dicevo prima, per me le discussioni e il contatto frequente con amici e colleghi che si occupano di letteratura, editoria o arti visive (molti vivono in Italia, altri come me sono invece all’estero) è la mia prima fonte di aggiornamento sul dibattito italiano.  Poi devo dire che seguo con grande attenzione riviste come “L’Indice” e blog come “Doppiozero” e “Le Parole e Le Cose”, con cui collaboro, e che ritengo un valido strumento di aggiornamento. Tra i supplementi culturali dei quotidiani leggo il Domenicale del Sole 24 ore, che ospita contributi di qualità. Per quanto riguarda i nuovi strumenti, secondo me bisognerà aspettare ancora per vedere gli effetti che l’uso dei social networks ha sul dibattito. Per quanto mi riguarda sono un po’ diffidente; alcune volte si hanno scambi di idee interessanti, altre invece mi sembra si scada nella mera autopromozione (il che è un po’ sconfortante, visto che i libri dovrebbero imporsi all’attenzione del pubblico per il loro valore intrinseco, non perché l’autore cerca visibilità).

Come migrante, esiste secondo te un rapporto fra la tua situazione e quella dei migranti che giungono in Europa dal Sud o dall’est del mondo?

Morra: Francamente non credo. Non mi è mai piaciuta molto la definizione di “cervello in fuga”, né condivido la lamentatio di chi studia o lavora in università prestigiose e si presenta come “esule”: almeno nel mio caso si è trattata di una scelta precisa e di un volermi confrontare con una realtà diversa, non di un obbligo.  Riconosco però che le opportunità in Italia si stanno sempre più assottigliando; conosco ragazzi di 4-5 anni più giovani di me che vedono l’andare all’estero non più come una scelta, ma come un atto dovuto per riuscire a continuare a fare ricerca (o seguire una propria passione) con risorse adeguate: un segnale di sconforto e rassegnazione al peggio cui il governo attuale dovrebbe dare una risposta facendo investimenti adeguati nella ricerca e nella preservazione del patrimonio culturale italiano, uniche risorse in grado di far rialzare il paese dalla crisi.  Detto questo, il paragone con i migranti — persone che affrontano viaggi della morte per fuggire da guerre, dittature, persecuzioni — non mi sembra calzante. Spesso gli studiosi che si trasferiscono all’estero riescono ad ottenere il giusto riconoscimento del loro lavoro; non esattamente migranti spesso isolati dal tessuto sociale e costretti a fare mestieri che in Italia non vuol fare nessuno, insomma. A preoccuparmi è lo scarso investimento nella cultura, e più in generale un atteggiamento di fondo che noto spesso in Italia: ovvero il pensare che un musicista, uno scrittore, un traduttore o un artista faccia il proprio lavoro pour plaisir, come una sorta di passatempo per anime belle o privilegiate. Sarebbe ora che case editrici, riviste e quotidiani inizino a retribuire in modo decente i professionisti che lavorano in ambito culturale, e non contare semplicemente su passione e buona volontà. Pagare adeguatamente i propri collaboratori porterebbe il beneficio di operare una selezione che chiuda le porte al dilettantismo, e quindi al lavoro di cattiva qualità.  Purtroppo a molte traduzioni eccellenti o recensioni scritte da chi sa distinguere il grano dal loglio si affiancano spesso brutte traduzioni o recensioni smaccatamente elogiative (possibile che tutti siano i “più grandi scrittori italiani” o “luminose promesse”?) che non fanno bene a nessuno.

Metlica: No, la mia linea di giudizio è rimasta grossomodo invariata, fatta eccezione per quanto preciso qui sotto.

Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?

Metlica: Vivo questa congiuntura con amarezza e con sconforto: sulla mia decisione di trasferirmi all’estero hanno pesato senz’altro, a posteriori, i valori e le idee alimentati dal mio soggiorno Erasmus (2007). Tuttavia, ammetto che è difficile aver fiducia nel progetto europeo dopo aver vissuto per più di tre anni a Bruxelles: l’immagine ben nota di una burocrazia fredda e distante, di un corpo a sé stante indifferente alla concreta situazione culturale e sociale, ha trovato conferma in una serie di esperienze assai poco piacevoli. Mi rendo conto che si tratta di una nota personale, di scarso rilievo sul piano politico; il mio giudizio, però, ne è fortemente influenzato.

Morra: L’Europa è un organismo politico molto debole perché diviso (e la possibile fine degli accordi di Schengen non è che l’ennesimo segno della malattia); detto questo, vivendo negli States mi sono sempre più sorpresa a pensarmi non “italiana”, ma “europea”. Stando lontani ci si accorge che i discorsi sulle comuni radici culturali e identitarie non sono astratti furori, ma realtà concrete e operanti. Spero che a lungo termine si riesca liberarsi degli interessi dei singoli stati per costruire una struttura socio-politica efficiente, che corrisponda finalmente alla solida realtà culturale che già viviamo concretamente (difficile da spiegare in poche parole, ma qualsiasi giovane che abbia passato un periodo all’estero in un altro paese europeo sa di cosa sto parlando!)

In quale senso la condizione dell’espatrio può essere umanamente, socialmente e culturalmente produttiva oppure improduttiva o deprivativa?

Morra: Stare lontani dal proprio paese di origine è un’esperienza che mette a dura prova anche il carattere più solido; nel caso degli Stati Uniti direi che quest’affermazione vale doppio, vista la distanza geografica e culturale che indubbiamente li separa dall’Europa e dall’Italia. Però tendo a vedere l’espatrio come una scelta e un arricchimento, non come una privazione. Ci sono vari approcci: c’è chi tende ad assimilarsi totalmente alla cultura del paese d’arrivo e chi invece tenta di mantenere un equilibro tra diversi mondi; per carattere e forse per vocazione appartengo alla seconda categoria. Stare al confine tra culture diverse e stili di vita diametralmente opposti è indubbiamente faticoso, ma permette di essere flessibili e scoprire aspetti di sé e della propria professione che non si sarebbero mai esplorati altrimenti. Quello che è certo è che non si è più gli stessi rispetto a quando si è partiti.

Metlica: Non credo vi siano controindicazioni: l’espatrio è una risorsa umana, sociale e culturale. Semmai il problema concerne le pochissime occasioni di rimpatrio, secondo una dialettica che, purtroppo, mi pare squisitamente italiana. L’impressione, riguardo all’italianistica italiana e straniera, è quella di due vasi non comunicanti, di due circuiti a sé vagamente invisi l’uno all’altro: il rischio è di tagliarsi fuori da un sistema per abbracciare l’altro. L’integrazione e l’arricchimento reciproco tra tradizioni critiche diverse, per quanto fortemente auspicabili, al momento restano pura utopia: usciti dalla logica accademica italiana – forte clientelismo, pubblicazioni abbondanti seppur eterogenee, scarso peso della didattica – è quasi impossibile rientrarvi. E dico ciò pur avendo vinto di recente un assegno Senior a Padova, dopo due post-doc in Belgio: a naso, direi che si tratta dell’eccezione che conferma la regola.

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