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Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”

 Di crisi della critica letteraria e crisi dell’umanesimo si parla dalla fine degli anni Ottanta e, in Italia, il dibattito è diventato più acceso nel corso degli anni Novanta. Le riflessioni di Segre in Notizie dalla crisi hanno rilanciato una discussione che, all’inizio del 2000, ha coinvolto critici di generazioni e impostazioni diverse, da Lavagetto e Luperini a Carla Benedetti e Matteo Di Gesù. Una delle conseguenze più evidenti di questo panorama di crisi è la drastica riduzione di possibilità di studio e carriera per giovani che escono dai dottorati di ricerca italiani. Se, fino a qualche anno fa, il percorso per entrare all’università era impervio ma ancora ipotizzabile, negli ultimi tempi le possibilità si sono ridotte sensibilmente. Per uno studente che ha frequentato il dottorato negli ultimi dieci o quindici anni, l’estero si è trasformato spesso da possibilità ad unica prospettiva. Lo stato di salute dell’italianistica, che ha provato a salvarsi appoggiandosi a contesti altri, si è aggravato: con l’esplodere della crisi finanziaria ed economica, anche gli Stati Uniti hanno quasi smesso di rappresentare una opzione possibile per gli italianisti appena usciti dal dottorato. Il fenomeno di dottoranti o dottori di ricerca italiani che ricominciavano un dottorato nordamericano si è ridotto fino ad esaurirsi, perché le Graduate Schools hanno capito che accogliere profili già formati e smaccatamente overqualified stava diventando rischioso per gli equilibri dipartimentali.

 Si è parlato e si parla molto di “giovani ricercatori” costretti ad emigrare dall’Italia, ma la discussione è stata, generalmente, poco sistematica. Lo stereotipo disforico del ricercatore che si sacrifica lontano dalla madrepatria si è sovrapposto all’immagine edulcorata del giovane messo finalmente in grado di lavorare alla propria ricerca in campus avanzatissimi. Ed altri stereotipi si accumulano ancora. Il trattamento bozzettistico del fenomeno non si incrina nemmeno davanti a fatti di cronaca: della manipolazione mediatica a cui è stata sottoposta la figura di Giulio Regeni (docente/ricercatore/studente/giornalista/?) si è occupato il «Manifesto», ma è rimasto un caso isolato che non ha aperto nuovi ambiti di discussione. Si parla molto di “giovani studiosi all’estero”, ma se ne parla male e questo per diverse ragioni: la prima è probabilmente legata ad una “percezione di privilegio” che circonda queste figure. Chi, per merito e in seguito a circostanze propizie, ha iniziato una carriera all’estero è spesso considerato come un soggetto estraneo al discorso della precarietà. Davanti ai migliaia di inoccupati prodotti da riforme inique, crisi economica e tagli all’accademia (soprattutto umanistica), chi ha trovato rifugio fuori d’Italia non può lamentarsi, il suo unico compito sembra quello di tenersi stretto il ruolo conquistato, salvo riemergere, sporadicamente, con tutto il peso dei suoi stereotipi. Eppure gli effetti di questa dispersione esistono, sono solo ancora poco visibili. Quei ricercatori/docenti a contratto/assegnisti/professori nel campo dell’italianistica iniziano ad avvicinarsi al momento della loro vita in cui pubblicheranno libri importanti. A volte partecipano alle discussioni su riviste cartacee o blog, molto più spesso restano voci lontane o intermittenti. Cosa è accaduto alla loro ricerca e cosa accade all’italianistica svolta sempre più “fuori” dall’Italia? Nel suo ultimo libro Roberto Esposito ha riflettuto su una caratteristica da sempre fondamentale per il pensiero teorico e filosofico: «La relazione del pensiero con l’esterno non è solo l’oggetto di questa ricerca, ma anche la cornice teoretica in cui essa si iscrive. D’altra parte è sempre da fuori che viene il pensiero, quando si tratta di mettere in questione una visione delle cose non più rappresentativa degli eventi in corso» (R. Esposito, Da fuori, Einaudi, Torino, 2016, p. 6). Ma quali sono gli effetti a lungo termine quando il fuori, l’esterno, diventa l’unica possibilità di lavoro e responsabilità?

Attraverso le testimonianze di italianisti all’inizio della carriera e che vivono “fuori”, si cercherà di ricostruire una mappa, non sociologica, né generazionale, ma critica. Non sarà una mappa del giovanilismo, né una carta del disagio. Più di tutto non sarà una mappatura di “giovani cervelli in fuga”: queste persone, fuori dall’Italia, sono tutto tranne che giovani. Ricoprono posizioni di responsabilità, fanno lezione in lingue diverse dall’italiano, seguono la formazione di studenti, partecipano alla creazione di corsi di laurea, scrivono saggi su autori canonici o su questioni teoriche, subiscono senza filtro gli effetti delle politiche nazionali su scala europea e mondiale. L’inchiesta vuole dunque riflettere primariamente sulla loro produzione critica, senza pietismi, sensazionalismi o stereotipi: come sta cambiando l’italianistica fuori dall’Italia? E come è percepita l’Italia da chi occupa lo spazio di soglia dentro/fuori? È ancora possibile portare avanti ricerche di lungo corso?

A partire da mercoledì 14 settembre, Laletteraturaenoi pubblicherà due conversazioni a settimana che struttureranno l’inchiesta. 

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