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diretto da Romano Luperini

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Maledetti sassofoni: il mito del maledettismo fra jazz e letteratura

  «Al contrario dello scrittore, il musicista è sempre folle (e lo scrittore non può mai esserlo, perché è condannato al senso)».

Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi 1985

Jazz e follia: un nodo necessario?

«Si diceva che, nella storia del jazz, vi fosse un alone oscuro di maledizione e di disfacimento, di droga e di follia, di genio e perenne inadeguatezza. Forse perché musica “nera”. Melodia di sofferenza trasfigurata, in anima e danza». Così scrive Paola Musa in Go Max Go (Arkadia, 2016), “romanzo musicale” ispirato al grande sassofonista Massimo Urbani, tossicodipendente, scomparso trentaseienne nel 1993. «Sembra molto difficile incontrare suonatori di jazz, felici. Credo si debba avere del dolore dentro, per fare del buon jazz. Non è uno stereotipo, una comoda immagine poetica o retorica per accrescere l’alone di mito attorno ai travagliati protagonisti di una musica strana. […] La storia dei grandi del jazz è storia di dolori infantili, di alcol, di solitudine, di droga, di schizofrenia, di tristezza». Così Valter Veltroni in Il disco del mondo (Rizzoli, 2003), biografia del pianista Luca Flores, morto suicida a trentanove anni a causa di una malattia psichiatrica.

Sono solo due citazioni, tra le infinite possibili, che testimoniano quanto sia ampio e persistente, nel jazz, il mito del maledettismo. Che non è, ovviamente, esclusiva di questa musica: basti pensare – per citare qualche nome a caso – a Caravaggio, a Rimbaud, a Jim Morrison (che a Rimbaud si ispirò apertamente), a un fumettista come Andrea Pazienza; e la lista potrebbe continuare a lungo. Ma il maudit, nel jazz, sembra un personaggio quasi inaggirabile, alimentato del resto da figure reali come Lester Young, Billie Holiday, Chet Baker, Bud Powell, Art Pepper, le cui biografie mostrano in piena luce il funesto nesso genio-sregolatezza-follia-droga-alcool-morte tragica (e spesso prematura).

La narrativa jazz

Lo scopo di questo breve articolo non è né di smentire tale mito, né di analizzarne le origini e le cause (che andrebbero fatte risalire a un complesso nodo di fattori storici, culturali e sociali). Non vogliamo nemmeno fornire un quadro esauriente della narrativa jazz, campo peraltro vastissimo. Per dare un’idea, David Rife, in una delle più complete rassegne sull’argomento (Jazz Fiction: A History and Comprehensive Reader’s Guide, Scarecrow Press, 2007), menziona qualcosa come settecento titoli, di oltre cinquecento autori diversi. Piuttosto, tenteremo un case-study, basato su una delle figure più esemplari di maudit jazzistico, il sassofonista Charlie Parker, esaminando alcune opere narrative che prendono spunto dalla sua figura e dalle sue vicende biografiche.

“La Storia”

Lo scrittore Vance Bourjailly ha descritto il tipico plot maledettistico come “la Storia”: «La Storia va così: un musicista di genio, frustrato dalla discrepanza tra ciò che riesce ad ottenere e la vita miserabile che i musicisti conducono (a causa della discriminazione razziale, o delle richieste di rendere la musica commericale, o perché ha un gran potenziale che non può attuare), impazzisce, o si distrugge con l’alcol e la droga. La Storia può anche essere una storia d’amore, ma vale lo stesso». Se c’è una figura che, nel jazz, rappresenta l’archetipo supremo del “maledetto”, è quella di Charlie Parker. Artista seminale nell’evoluzione di questa musica, artefice di una vera e propria rivoluzione copernicana con la creazione, a metà anni Quaranta, dello stile “bebop”, Parker – noto anche con il soprannome di “Bird” o “Yardbird” – visse un’esistenza breve, drammatica, segnata dalla tossicodipendenza e dall’alcolismo, e morì appena trentaquattrenne, nel 1955. Attorno a lui si costruì, già durante la sua vita, un vero e proprio culto, che conobbe il suo apice con la Beat Generation.

Inseguendo Bird

Una delle prime – e forse la più celebre – tra le rappresentazioni letterarie di Parker arriva quattro anni dopo la sua morte, nel 1959, quando l’argentino Julio Cortázar scrive il racconto lungo El perseguidor (Il persecutore o, secondo la più recente traduzione italiana, L’inseguitore). Il protagonista è il sassofonista Johnny Carter, chiara controfigura di Parker, sebbene il nome derivi dalla crasi di due celebri altosassofonisti swing, Johnny Hodges e Benny Carter. La vicenda, ambientata a Parigi a metà anni Cinquanta, ricalca alcuni episodi tratti dalla biografia di “Bird”, ma è centrata soprattutto intorno al rapporto tra il sassofonista e la voce narrante: Bruno, un critico musicale autore della sua biografia. I due personaggi sono disegnati come figure contrastanti e complementari: Johnny Carter è l’artista che vive la sua creatività come istintualità pura, mentre Bruno rappresenta la tensione razionale che cerca di inquadrare l’indicibile in categorie critiche. Il critico, in particolare, vive un rapporto scisso con l’artista, fatto allo stesso tempo di invidia («ogni critico, ahimè, è la triste fine di qualcosa che cominciò come sapore, come delizia di mordere e di masticare») e di un neanche tanto velato senso di superiorità («i creatori […] sono incapaci di trarre le conseguenze dialettiche della propria opera, postulare i fondamenti e la trascendenza di quello che stanno scrivendo o improvvisando. Dovrei ricordarmi di ciò nei momenti di depressione, quando provo la pena di non essere altro che un critico»). Tramite Johnny Carter, Cortázar disegna un artista che soccombe a una tensione creativa divorante, a un’ansia di miglioramento incomprensibile a chi, come Bruno, ragiona secondo i metri dell’uomo comune: «Invidio Johnny […]. Invidio tutto, salvo il suo dolore, cosa che nessuno stenterà a comprendere, ma anche nel suo dolore ci debbono essere indizi di qualcosa che a me è negato. Invidio Johnny, e nello stesso tempo mi fa rabbia che si stia distruggendo col pessimo uso delle sue doti, per la stupida accumulazione di insensataggine che esige la sua pressione vitale». Persino perfida la chiusa del racconto, in cui Bruno, alla morte di Carter, non trova di meglio che annunciare l’uscita della nuova versione aggiornata della sua biografia, con tanto di traduzione in svedese («mia moglie è molto contenta di questa notizia»).

Hipsters e beatniks

La rappresentazione di Parker come di un artista preso nella ricerca mistico-metafisica di un obiettivo musicale irraggiungibile (simboleggiato, nel racconto di Cortázar, dalle disquisizioni sul tempo e sulla musica) diventa un topos quando il sassofonista viene assunto a nume tutelare della Beat Generation. Il legame tra i beat e il jazz è ben noto e si identifica con un luogo ben preciso: il Greenwich Village, cuore della New York alternativa, i cui locali furono il primo palcoscenico per Kerouac, Corso, Ferlighetti e compagni, ma ospitarono anche le performance dei boppers. Nella musica jazz, i beatniks trovarono un’oggettivazione di quello che era lo scopo ultimo della loro ricerca: un’arte che si contrapponesse in maniera radicale al perbenismo della società americana borghese, che incarnasse quei valori di libertà, anticonformismo, individualismo e spontaneità creativa da loro ricercati. Il contatto fra i beatniks (per la maggior parte bianchi) e i musicisti di jazz (in gran parte di colore) innescò anche un complesso cortocircuito razziale, nel quale gli scrittori bianchi identificavano nel nero americano, con la sua storia di oppressione, l’archetipo della vittima di una società inguista. Il fenomeno non era nuovo. Già dai primi anni Quaranta, nella società americana era comparsa la figura dell’hipster, che Norman Mailer in un famoso saggio aveva descritto come the white Negro: un bianco che adotta la cultura, lo stile di vita e persino il gergo degli afroamericani. Il beatnik fu, per molti versi, la prosecuzione in campo letterario dell’hipster.

Parker, il Buddha

Il jazz, e il bebop in particolare, è pervasivo nell’opera di Jack Kerouac. Parker compare ne I sotterranei (1958) ed è citato più volte nelle poesie di Mexico City Blues (1959). La sua figura è identificata con quella di un Buddha, un asceta la cui musica è capace di condurre all’estasi creativa. Ma la più complessa rappresentazione di Charlie Parker è quella tentata da John Clellon Holmes in The Horn (1958), un ambizioso roman à clef i cui personaggi sono ispirati, allo stesso tempo, a musicisti jazz e a grandi maestri del pensiero e dell’arte americana. Il personaggio del sassofonista Edgar Pool, in particolare, riprende  tratti di Charlie Parker e di Lester Young, ma in lui è anche adombrato Edgar Allan Poe. Nel libro, il musicista nero assurge a oggetto di venerazione, distante e irraggiungibile da parte del narratore bianco, che si limita a contemplarne il mistero senza tentare di comprenderlo («in fondo i Neri sono per sempre fuori portata da parte dei bianchi, per quanto essi ci provino o lo bramino»).

Il blues di Sonny

Le rappresentazioni fin qui esaminate sono tutte opera di scrittori bianchi. Come tali, sono state spesso accusate di perpetuare una visione stereotipata del nero, allo stesso tempo mitizzato e ridotto al cliché primitivista del “genio istintivo”, una svilente versione moderna del “buon selvaggio”. Una celebre rappresentazione dell’artista maledetto dal punto di vista di un afroamericano si ritrova nel racconto di James Baldwin Sonny’s Blues (1957). La trama è incentrata sul difficile rapporto tra due fratelli: il maggiore, che è anche la voce narrante, insegna matematica in una scuola di Harlem, mentre il minore, Sonny, è un jazzista che finisce per cadere nella tossicodipendenza. Nonostante Sonny suoni il pianoforte, la sua figura ha molti tratti in comune con Charlie Parker, che del resto viene menzionato esplicitamente come suo idolo musicale. La storia, narrata attraverso una serie di flashback, affronta molti dei temi-cardine di Baldwin: il razzismo (l’episodio in cui uno zio del narratore viene ucciso da un’auto guidata da bianchi ubriachi), il legame con il luogo d’origine (il fratello maggiore è rimasto ad Harlem mentre il minore, di carattere più ribelle, ne è fuggito) e soprattutto la musica come trait d’union con la propria identità culturale. Nel finale Sonny, riabilitatosi dall’eroina, invita il fratello a un concerto. Ascoltandolo suonare un blues, il narratore comprende finalmente la sua inquietudine interiore e ripercorre simbolicamente le sofferenze della sua famiglia e del suo popolo, arrivando infine a riconciliarsi con lui.

Jazz e perturbante

Questa carrellata di metamorfosi del maudit jazzistico non ha, come già specificato, alcuna ambizione di completezza. Tuttavia, essa ha evidenziato come tale personaggio, che risponde anche a ovvie esigenze drammaturgiche, possa assumere di volta in volta diverse fisionomie, che interagiscono con la poetica dell’autore e con la situazione sociale in cui l’opera viene prodotta. In particolare, la figura del maudit sembra una sorta di cartina di tornasole, capace di far emergere di volta in volta un diverso “rimosso” personale o sociale. Nel caso di Cortázar, ad esempio, è lo stesso scrittore a testimoniare, in un’intervista, che il racconto rappresentò per lui un importante punto di svolta nella sua attività letteraria: “È con Il persecutore […] che per la prima volta ho avuto a che fare […] con il confronto con un simile, con qualcuno che non fosse il mio doppio, ma un altro essere umano […]. Charlie Parker morì in quei giorni. Lessi su un giornale una sua breve biografia – credo che fosse di Charles Delaunay […]. È stata un’illuminazione. Ho finito di leggere quell’articolo e il giorno dopo o il giorno stesso – ho iniziato a scrivere il racconto. Ho immediatamente sentito, in effetti, di avere il mio personaggio”. Nel Persecutore, il critico Bruno prova nei confronti di Johnny Carter la tipica ambivalenza affettiva di attrazione/repulsione, che è una delle caratteristiche del “perturbante” (unheimlich) freudiano. Per quanto riguarda gli scrittori beat, a emergere è uno dei grandi rimossi degli Stati Uniti: quello della color line, l’invisibile linea che separa i bianchi dai neri. Tema molto sensibile in una società come quella americana, segnata a lungo (e, a ben vedere, ancor oggi) da una profonda frattura tra “razze”, come le si designa con un termine tuttora corrente oltreoceano. I beatniks mostrano un rapporto conflittuale con la figura del nero: i musicisti neri vengono allo stesso tempo esaltati, in quanto esempi di genialità istintiva e primordiale, e allontanati in un mistero insondabile, che finisce per renderli sostanzialmente monodimensionali. Non è un caso se, tra i beatniks, gli afroamericani furono pochissimi: Ted Joans, Leroy Jones (o Amiri Baraka, come preferì farsi chiamare in seguito), lo stesso Baldwin; tutti, peraltro, allontanatisi dal movimento per seguire altre strade. Baldwin, infine, offre la rappresentazione più densa e pregnante, in cui il travaglio dell’artista, depurato da aloni misticheggianti, assume piuttosto una precisa rilevanza sociale e identitaria, capace di simboleggiare la vicenda di un intero popolo.


 Fotografia: G. Biscardi, nuvola, Palermo 2008.

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