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diretto da Romano Luperini

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La lezione della Grecia

 La lezione della Grecia, ci viene detto, è di quelle che non si devono imparare. Il 6 luglio dello scorso anno il referendum indetto da Syriza, la vittoria del ‘no’ alle richieste europee e la successiva (13 luglio) imposizione di misure economiche punitive hanno provocato una fibrillazione nell’opinione pubblica europea; poi, nel giro di qualche settimana, la questione greca è scomparsa dai media, così come l’ordine di problemi da essa sollevata. Più in particolare, l’interpretazione che è stata fornita di tutta la vicenda, anche da posizioni di centrosinistra per così dire legittimiste (nel senso del sostegno alla legittimità dell’ordine economico) ha permesso di formalizzarla quale caso isolato: un paese piccolo, mediterraneo, particolarmente disposto allo spreco, economicamente debole può essere sì aiutato dagli altri stati europei, ma solo fino ad un certo punto; se le richieste passano il limite, va messo al suo posto; altrimenti se ne vada, ma non vengano a lamentarsi. D’altra parte, si sa: chi troppo vuole nulla stringe.

«Se finora il cielo sopra noi era vuoto, oggi possiamo alzare gli occhi e osservare dimensioni e traiettorie, prima indistinguibili: dobbiamo solo sollevare lo sguardo e compiere questo sforzo di messa a fuoco»: così, in seguito a varie discussioni, scrivevo ad amici la scorsa primavera. La vittoria delle sinistre nella penisola ellenica e le difficoltà crescenti incontrate dal governo di Tsipras e Varoufakis nel dialogo con l’Europa delle istituzioni funzionava come un reagente, grazie al quale le cose iniziano a trovar posto, a collocarsi. La direzione politica comunitaria degli ultimi anni si delinea nelle sue estreme conseguenze: l’indebitamento degli stati e la loro difficoltà a rifinanziare il debito pubblico viene sfruttato, dalle dirigenze economiche europee, al fine di disciplinare la vita (sociale, politica, economica) degli stati stessi. Una volta entrato in crisi di liquidità, uno stato europeo non può che affidarsi alle istituzioni, che concedono prestiti in cambio delle cosiddette riforme, ossia di tagli orizzontali sulla spesa statale, di contrazione dei diritti sul lavoro, di liberalizzazioni del settore pubblico. Il processo, messo in atto da decenni dalle classi politiche nazionali del post-ottantanove, viene così finalmente centralizzato, attorno al fondo salva-stati, con la guida delle antidemocratiche (in senso pieno, in quanto poste al di fuori da meccanismi elettivi) Banca Centrale e Commissione europea.

Gli anniversari sono gravidi di allegorie. A un anno di distanza, il 6 luglio richiama un altro referendum, ma di stampo opposto, che qualche settimana fa dichiara la Gran Bretagna fuori dall’Europa. La carta politica del vecchio continente va riconfigurandosi, ci sentiamo dire, secondo due schieramenti, euroscettici e europeisti; inoltre come sanno anche i bambini, destra e sinistra non esistono più. Fra gli europeisti, i vecchi partiti socialisti e liberisti si confondono, trincerandosi dietro l’argine istituzionale, intrecciando intese forse non abbastanza larghe; di fronte a loro nascono nuovi movimenti che si oppongono, come si usa dire, ai diktat dell’Unione a trazione teutonica, ma che contemplano anche l’alternativa di destra, populista, quella del far saltare il banco e smetterla con i buoni sentimenti – non è un caso che la campagna referendaria inglese si sia giocata sull’immigrazione. Mentre le posizioni, seguendo questa tendenza, si radicalizzano, la situazione si fa sensibilmente più tesa, con l’aggravarsi delle questioni d’ordine interno-esterno (conflitto, nella versione imperialista e/o islamista, immigrazione, terrorismo).

Anche se sconfitta, la resistenza della sinistra e del popolo greco continua a avere un forte valore, e perciò questo primo anniversario deve essere ricordato. In particolare, la parabola politica del primo governo di Syriza continua ad interpellarci e a proporci spunti e chiavi di interpretazione. Di seguito ne elenco alcune:

– il capitalismo finanziario ha acquisito negli ultimi decenni, anche grazie all’assenza di una controparte conflittuale all’altezza, una dimensione globale. Questa non può certo dirsi una novità. La parabola della crisi greca ci aiuta però a tenere a mente cosa significhi, in riferimento a questi ordini di grandezza, l’espropriazione di sovranità popolare: il meccanismo democratico è sovrano nella misura in cui non pensa di mettere in discussione le basi economiche della speculazione e della rendita finanziaria; oltre non lo è più.

– la congiuntura sfavorevole dello scorso decennio, e in particolare degli anni 2008-12, ha messo le istituzioni europee davanti a un bivio: riesumare delle misure keynesiane, oppure continuare sulla strada del neoliberismo e della contrazione del peso dello stato. Anche qui, la novità non è nelle misure, quanto nell’impossibilità quasi assoluta della politica nazionale di opporvisi; le misure economiche sforano nel ‘naturale’ – è naturale: se hanno vissuto sopra le proprie possibilità, ora devono dare indietro i soldi! È quello che dal 2010 si definisce ‘commissariamento’. Le misure di commissariamento della politica sono morbide se le dirigenze sono favorevoli (è il caso dell’Italia, cui il cambiamento della costituzione – l’articolo 81 – è passato senza grandi problemi), violente e vendicative negli altri casi.

– nonostante il grande fiorire di studi economici, anche di impostazione marxista, sembra emergere la carenza di una teoria economica all’altezza della situazione. Non penso qui alla necessità di un nuovo modello di interpretazione complessiva del reale, ma a questioni più modeste ed applicabili: in una data situazione economica, come quella greca, quali possono essere gli spazi di manovra? Quali le armi di ricatto, gli appoggi esterni, le misure di mercato in grado di rinforzare la posizione nella contrattazione?

– il vicolo cieco del gioco politico attuale. Gli euroscettici usano a loro favore una grande verità, l’incapacità dei propri avversari di autonomia decisionale nella gestione politica dello stato. Per un governo “l’aver amministrato bene” fino a qualche anno fa costituiva un vanto; è tuttavia chiaro, con i fatti degli ultimi anni, come la scelta di non affrontare i nodi della vita economica e politica europea, compiuta da destra e da sinistra nell’Europa degli anni zero, sia una scelta in favore del neoliberismo. Ora, è sempre più evidente come non si tratti di amministrare, ma di scegliere; e le vecchie classi dirigenti non sembrano disporre di sufficiente capitale simbolico per compiere delle scelte. Dall’altra parte, l’euroscetticismo non dispone di una visione politica ed economica d’insieme e, legato a una pars destruens senza corrispettivi, è costantemente tentato dal populismo di destra, dall’opzione della chiusura razzista, xenofoba e nazionalista. La destra antieuropeista si pone in antitesi alla centralizzazione liberista, alludendo a un’opposizione storica che nella prima metà del Novecento ha trovato numerosi esempi.

Davanti a ciò è evidente la necessità di uno scarto rispetto al binarismo pro-contro l’Unione per come si propone oggi, attivando prospettive che tengano assieme il punto di vista economico e politico. La Grecia ci ricorda l’impossibilità di affrontare sul piano solo nazionale, o locale, questioni che hanno una portata molto più ampia, fino alla dimensione dell’ordine finanziario. Se per una questione di rapporti di forza sarebbe necessario, lo si è visto, tenere insieme discorsi che travalicano i confini dei singoli stati, adottando una prospettiva europea, allo stesso tempo non si può evitare la critica al nesso centrale che identifica oggi Unione Europea e capitalismo liberista. Un discorso di solidarietà, uguaglianza e diritti deve passare da simili complicazioni; anche questo il fallimento della lotta greca continua a ricordarci.

Al di fuori di tale prospettiva, infatti, le lotte locali hanno lo scopo di ampliare il fronte del dissenso, ma sembrano con una certa probabilità, sul medio periodo, destinate a risultati non duraturi. Le rivendicazioni sul diritto del lavoro, sull’istruzione pubblica, sullo stato sociale, sulla redistribuzione si scontrano con un apparato istituzionale che dispone di potenti strumenti di ricatto, che neppure i grandi stati europei sono in grado di contrastare. Se dovesse servire, ne è prova la situazione francese, dove Hollande rincorre una legge sul lavoro che politicamente equivale a un suicidio, proprio perché costretto a livello europeo. La lezione della Grecia allora – lezione che, nonostante tutto, dobbiamo imparare – fa riferimento all’esistenza di un punto in cui le ragioni collettive – politiche – del lavoro e dell’autodeterminazione si scontrano inevitabilmente con le ragioni dell’interesse e del privilegio, e alla necessità di (ri)abituarsi a ragionare politicamente tenendo sempre in considerazione questo punto conflittuale e inevitabile. La crisi greca ha costituito solo una fra le molte possibilità di consapevolezza; mancarne la lezione comporta il rischio di accettare i binarismi mediatici dal cui rumore di fondo non emergono che i volti di Renzi e Grillo, Le Pen e Hollande, Cameron e Farage, o chi per essi. Come sempre, il problema è più complesso, e in una buona misura – al di là dell’Europa delle istituzioni c’è la tomba del Mediterraneo, e il confine orientale è presidiato dalla Turchia e dall’Ucraina – storicamente tragico.


Fotografia: G. Biscardi, Prospettiva, Palermo 2015.

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