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diretto da Romano Luperini

W.G Sebald

Che cos’è una vertigine in letteratura? Per una proposta di un frammento del testo Vertigini, di W.G. Sebald

 Particolarità della scrittura di Sebald è certamente quella di offrire diversi livelli interpretativi. Un testo come Vertigini, per esempio, può essere letto come un racconto che segue l’itinerario di certi personaggi (Henri Beyle, il dottor K., Casanova e altri ancora, tutti maschere dell’autore) in alcuni viaggi o vicende che li vedono protagonisti. Un percorso corredato di immagini e documenti, fotografie, aneddoti e racconti in grado di intrattenere qualsiasi lettore. Ma se si vuol dare credito al significativo lavoro intertestuale dello scrittore tedesco, serve prestare molta attenzione: con Sebald, infatti, gli iconotesti raggiungono una particolare maturità, rivendicando sempre più la loro identità di genere nel panorama della letteratura contemporanea. L’immagine che segue è un frammento ripreso da Vertigini (Adelphi, 2003, Milano). Per una sufficiente comprensione del testo si legga da [Perciò Beyle] fino a [come chi sta colando a picco].

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In questo breve frammento l’autore tedesco si rifà ad un capitolo della vita di Henri Beyle (meglio conosciuto come Stendhal), quando, durante il suo viaggio in Italia, si trova ad attraversare la landa in cui l’anno precedente (il 14 giugno del 1800) ebbe luogo la battaglia di Marengo (evento che vide contrapposti l’esercito francese guidato da Napoleone Bonaparte e quello austriaco durante la seconda campagna d’Italia. La battaglia, che grazie all’arrivo dei rinforzi volse a favore di Napoleone, rappresentò una vittoria fondamentale per il dominio dei francesi sul territorio italiano e contribuì ad accrescere il mito del grande condottiero francese).

L’attenzione del testo quindi si sposta sulla sfera soggettiva del personaggio: in particolare sul divario fra le immagini della battaglia. Da una parte l’immagine mentale prodotta dai racconti, dall’altra l’evidenza della realtà: le carcasse, i corpi dei soldati (e degli animali) che hanno perso la vita durante quel terribile scontro. Al fianco di Stendhal, Sebald ci conduce all’interno di una vertigine testuale: le due istanze, i poli opposti rappresentati dalla sfera soggettiva (di Beyle, della memoria) e quella oggettiva (della realtà, della storia), sembrano in qualche modo collassare vorticosamente, non riuscendo, nessuna delle due, a soddisfare il criterio di verità che sarebbe in grado di riscrivere – almeno nella mente del personaggio – i connotati autentici del disastro accaduto. Nemmeno la colonna  – nemmeno il simbolo, il rituale – è in grado di raggiungere una forma di commemorazione adeguata: dal momento che la storia dell’uomo – che per Sebald è la storia delle sue catastrofi – è di natura traumatica, frammentaria, oscura e inattingibile.

La vertigine si manifesta nelle sembianze di una caligine interiore: Stendhal, di fronte alla colonna commemorativa della battaglia di Marengo, confuso, disorientato, del tutto incapace di venire a capo del cortocircuito tra il sé e l’universale. Una situazione già sufficiente, di per sé, per costruirsi nella mente del lettore come un evento, un aneddoto significativo del testo (con tutto il suo bagaglio sinistro). Ma come possiamo osservare, ad uno stallo concettuale se ne aggiunge una fisico, visivo: l’immagine. Sulla natura dell’immagine nei testi di Sebald si è discusso molto (si legga, per esempio, J.J. Long, W.G. Sebald: Image, archive, Modernity, Columbia University Press, 2010), ma certamente, in questo caso come in molti altri, la sua presenza costringe il lettore ad un altro livello di partecipazione. L’introduzione del codice visivo collabora a trarre a sé, a includere noi lettori nella narrazione come se, invece di venire a conoscenza di ciò che il testo comunica, vi stessimo assistendo. Non una lettura, una narrazione, ma una messa in scena, un attimo le cui fattezze sono visibili nella misura di un evento.

Dunque, cosa ci dice davvero l’immagine? Cosa aggiunge al testo? Se osserviamo bene, ci rendiamo conto che ciò che vediamo non è affatto economico al testo, e che il suo scopo non è orientato a favore di una facile presa sul lettore. Non si tratta, infatti, di un’immagine di Henri Beyle di fronte alla landa della battaglia di Marengo, dinanzi la distesa di corpi abbandonati, o davanti la colonna celebrativa. È invece un dipinto di Louis-François Lejeune, che era presente come ufficiale, l’anno precedente ai fatti narrati, mentre Napoleone sconfiggeva l’esercito austriaco. Tuttavia, per comprendere meglio il rapporto di quest’immagine con il testo, è bene osservare come il dipinto del pittore e militare francese non si riduca a ciò che il testo ci consente di osservare: 

Senza titolo3 è la scelta di Sebald a condurci verso un particolare specifico (un punctum, per dirla con Barthes) del dipinto: come se – appunto – la sua attenzione per l’immagine sia rivolta a uno scopo preciso, e affatto scontato come potrebbe essere l’idea di proporre una semplice figurazione della battaglia di Marengo. Notiamo un profondo lavoro di layout e reframing: un lavoro di selezione e rielaborazione dei contenuti dell’immagine. La porzione di dipinto scelta è infatti molto ristretta rispetto l’immagine principale: questo ci fa pensare che, probabilmente, l’intenzione di Sebald sia stata quella di usare il supporto visivo come strumento per produrre una qualche reazione nel soggetto, e non come semplice mezzo di comunicazione. Dopotutto, se l’intento fosse stato soltanto quello di selezionare un particolare del dipinto, per quale motivo scegliere un layout verticale così netto e ravvicinato? Perché non lasciarlo intero e a colori?

Sebald non vuole, con questa immagine presente in Vertigini, informarci dell’opera di Lejeune, ma intende servirsi del supporto visivo nella sua natura di interruzione. Nel momento in cui il testo lascia il posto all’immagine la sensazione vertiginosa ha infatti due possibilità: dissolversi nella visione di qualcosa di economico al testo, qualcosa di lineare, scontato, che permette al lettore di attraversare senza difficoltà il rapporto tra i codici; oppure, come in questo caso, fissarsi, vorticare, imprimersi e infine  travolgere il lettore con la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di uno stallo narrativo, la cui natura è però tutt’altro che immota. Il layout verticale, infatti, non soltanto è un rimando testuale alla colonna commemorativa (che meschina, non aiuta affatto – nemmeno come supporto visivo – il protagonista a placare il suo senso di smarrimento), ma oltre a isolare il punctum, a fornire al lettore una nuova forma del senso di isolamento e disperazione (l’uomo con le braccia al cielo), rimanda, con la sua verticalità, al significato testuale delle parole che seguono il suo layout (solo con se stesso / come chi cola a picco). La natura della vertigine è dunque abissale, e il suo moto verticale è rivolto irrimediabilmente verso il basso. Non resta altro, al lettore, che essere trascinato nella corrente di sensazioni che travolgono il personaggio, di modo da fargli avvertire il sentore della sua caligine interiore: le sue perplessità, la sua sconfitta davanti ai grandi temi della verità, della storia e della memoria.

Ma non è tutto. Non è sufficiente descrivere una vertigine per comprendere tutte le sue ragioni. Una vertigine, infatti, può essere osservata da due punti di vista distinti.

Il primo, circostanziale, è rivolto all’anatomia della vertigine: alla maniera in cui si verifica, all’analisi della situazione testuale, dei suoi elementi e delle dinamiche che li interessano (quelli, per esempio, che abbiamo osservato circa Henri Beyle e la Battaglia di Marengo). Il secondo, sinottico, riguarda il rapporto tra il testo e l’elemento vertiginoso: un paradigma dove la vertigine rappresenta un elemento fisso, che puntualmente fa ritorno nel testo con il proprio bagaglio semantico (si veda, per esempio, Il ritorno in patria, a pag. 201).

Nel primo caso stiamo osservando la vertigine dal punto di vista di un personaggio: come nel frammento precedente, ci troviamo al fianco di Beyle, nel bel mezzo di un’atmosfera a tratti grottesca, avvolta da un senso di sinistro presagio. Finché non veniamo trascinati in un esatto momento testuale: una caligine interiore, uno stallo, un paradosso che rivela la sua natura vertiginosa. 

Nel secondo punto di vista, invece, è il nostro statuto di lettori a essere messo sotto scacco: poiché siamo gli unici, chiaramente, a poter riconoscere il bagaglio semantico che certi elementi suscitano venendo evocati da un racconto all’altro, da un punto all’altro del testo. L’autore ci strizza l’occhio: ci sta dicendo di non essere dei semplici lettori, ma di essere invece parte indispensabile del valore semantico e ideologico dell’opera. La nostra esperienza del testo non è più innocente: non siamo spettatori, non siamo lettori puri, ma una figura ibrida che ogni volta che riconosce un elemento vertiginoso collabora a chiudere, sigillare il testo in se stesso, a tramutare la semplice lettura in un rito per il “ritorno del morto”.

Da questo breve spunto possiamo comprendere, dunque, come un iconotesto racchiuda in sé diversi livelli di interpretazione. Come si diceva all’inizio, Vertigini, per esempio, è spendibile anche attraverso una lettura superficiale, pur presentando, probabilmente, alcuni momenti di oscurità. Ma non per questo la natura aneddotica e invitante della narrazione abbandona il lettore: tutt’altro. Il testo prosegue attraverso mete, luoghi e situazioni che incalzano la curiosità del lettore, portandolo a domandarsi, là dove inizialmente non era interessato ad arrivare, cosa ci sia dietro una certa immagine o un lapsus narrativo. L’iconotesto, dunque, dimostra ampiamente di dover essere tenuto in considerazione come un grande approdo della letteratura contemporanea: un genere in grado di offrire nuove risorse ai dibattiti sul ruolo e gli strumenti della letteratura, oltre che appassionare una folta schiera di lettori.  

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