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diretto da Romano Luperini

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Malavita e malafede: Gomorra, la serie

 Il 10 maggio 2016 verrà trasmesso il primo episodio della seconda stagione di Gomorra, diretta da Stefano Sollima. Come è stato sottolineato più volte, si tratta probabilmente della serie italiana più vista di sempre (anche e soprattutto all’estero), nonché di quella più riuscita sul piano tecnico ed estetico. Ed è proprio questo il problema, a detta di molti: la serie è troppo appagante, i personaggi troppo cool, il rischio è quello di mitizzare o estetizzare la camorra. Su questo punto sono intervenuti in molti, dando vita a una polemica che ha goduto di ampia diffusione sui principali quotidiani italiani; la discussione è diventata ancora più accesa quando i sindaci di alcune località campane si sono rifiutati di autorizzare le riprese nei loro comuni, dissociandosi in questo modo dai contenuti e dallo stile della serie (cfr. ad esempio Marco Demarco, Gomorra un successo che cancella il bene, Corriere della Sera, 5 giugno 2014; Michele Serra, La Repubblica, Amaca dell’11 giugno 2014; Arnaldo Capezzuto, Gomorra, sindaci negano riprese della fiction, Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015).

In effetti, le differenze tra il romanzo e il film da una parte, e la serie dall’altra, sono evidenti. Nel libro di Saviano, la prospettiva dell’io narrante guida il nostro viaggio nel sottomondo camorristico, facendosi garante del distacco e del giudizio morale su quanto viene descritto; unica presenza costante a fare ordine tra molte figure tristemente ricorrenti, il narratore è in fondo quanto di più vicino a un protagonista si possa trovare nel Gomorra originale. Nel film di Garrone, la distanza prospettica dal mondo narrato è ottenuta per vie diverse, a partire dal rifiuto di abbellimenti o stilizzazioni drammatiche (favorito dal coinvolgimento di numerosi attori non professionisti); ancora più importante è la scelta di una struttura a episodi, che impedisce allo spettatore di convogliare la propria energia emotiva su una singola linea narrativa o su un solo personaggio.

Tutto questo viene a mancare nella serie, in cui nulla ci separa dal mondo e dall’ideologia dei camorristi – e in particolare dai quattro o cinque personaggi principali, sui quali si basa una costruzione narrativa compattissima, quasi claustrofobica. Di quei personaggi in guerra tra loro, tutti ugualmente abominevoli, impariamo a conoscere la personalità, le idiosincrasie, i detti memorabili; una parte di noi arriva perfino a simpatizzare (in modo irrazionale e perturbante) con uno a scapito dell’altro. Per rendersi conto dell’efficacia di questo meccanismo basta compiere qualche breve ricerca su Facebook, Twitter e altri social network, dove abbondano – spesso in contesti ideologici imbarazzanti – i meme con le immagini dei protagonisti, accompagnate da citazioni che riassumono i punti fondamentali della mentalità camorrista, dando così a quest’ultima la parvenza di un codice a suo modo coerente e accattivante.

Questo fenomeno d’altra parte non può stupire, se pensiamo al successo mondiale riscontrato da numerose serie tv i cui protagonisti vivono al di fuori della legge, in un bellum omnium contra omnes in cui conta solo la conquista del potere o del profitto. La citazione da Machiavelli posta da Saviano in esergo a Gomorra («Coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportano vergogna») descrive bene non solo l’ideologia dominante in Gomorra, ma anche quella dei protagonisti di molte delle serie più viste in questi ultimi anni: Breaking bad (spesso accostato a Gomorra) e il suo prequel Better call Saul, House of cards, The Sopranos, Game of thrones, The Borgias, Sons of Anarchy, e molte altre. Tutte serie molto diverse tra loro, ma accomunate appunto dalla focalizzazione su personaggi che si muovono in un assoluto vuoto normativo, mossi solo da una shakespeariana sete di autoaffermazione, o da una spietata logica imprenditoriale; lo stesso Saviano, in Gomorra, nota a più riprese come «il pensiero dei boss coincida col più spinto neoliberismo. Le regole […] sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente. Il resto vale zero» (Gomorra, Milano, Mondadori, 2006, p. 128). Non si tratta solo del rapporto privilegiato tra storie di criminali e narrativa moderna, ben dimostrabile almeno a partire dai tempi di Defoe e Fielding (per non retrocedere fino al romanzo picaresco), ed esaminato con particolare efficacia da Peter Brooks nella sua lettura del Rosso e il nero (Reading for the Plot, 1984); si tratta di qualcosa di più specifico, che determina il nostro interesse per le storie in cui la violenza e l’individualismo vengono svelati come gli autentici motori della vita sociale, nascosti a malapena (e raramente ostacolati) dalle istituzioni civili.

Gomorra appartiene, insomma, a una tipologia di narrazioni televisive che fanno appello a un aspetto centrale nel nostro immaginario; da questo punto di vista, il suo successo non può stupire né fare scandalo. A destare perplessità sono, piuttosto, gli argomenti con cui gli autori della serie cercano di difendersi dall’accusa di estetizzare il mondo della camorra. Iniziamo con una dichiarazione di Saviano:

Il nostro punto di partenza era questo:il peggior modo di raccontare il bene è farlo in modo didascalico. Tutti cattivi? Sì, in quel mondo non ci sono personaggi positivi, il bene ne è alieno. Nessuno con cui lo spettatore può solidarizzare, nel quale si può identificare. […]L’accusa più elementare di solito riguarda l’empatia, l’immedesimazione con personaggi negativi. “I ragazzi – dicono i critici severi – che guarderanno la serie emuleranno le loro gesta”. Ma non è vero: l’immedesimazione non avviene con la realtà, ma con una sua rappresentazione. Non c’è nulla di male. È proprio questo il meccanismo narrativo che faceva scattare la catarsi, la purificazione, nel teatro elisabettiano e prima ancora in quello greco. Comprendere il male per riconoscerlo, per conoscerlo. (Perché sono tutti cattivi nella Gomorra che va in TV, La Repubblica, 10 giugno 2014)

 

La riflessione di Saviano sovrappone tre posizioni diverse, e contraddittorie. In primo luogo, la possibilità di un’immedesimazione con i protagonisti è negata categoricamente (ma a smentire Saviano basterebbe, qui, l’enorme popolarità di personaggi come Ciro Di Marzio, Genny Savastano e Salvatore Conte); in secondo luogo, l’ipotesi viene strategicamente ridotta alla sua versione più ingenua e inverosimile (i ragazzi emuleranno le gesta dei camorristi), mentre è chiaro che il meccanismo di cui si sta parlando è di natura diversa e ha poco a che fare con le conseguenze pratiche; infine, una certa misura di immedesimazione viene ammessa, ma giustificata attraverso il concetto di catarsi. Teoricamente, è quest’ultimo il punto più convincente dell’argomentazione di Saviano; attraverso la catarsi, la serie Gomorra punterebbe dunque a farci conoscere il vero volto del male, procurandoci così un contatto immediato e purificante con la realtà. Sempre nel nome del realismo, il regista Stefano Sollima ha risposto alle solite accuse:

Quando si decide di adattare una storia come questa, bisogna avere il minor numero possibile di filtri tra la storia e lo spettatore. Volevo descrivere il mondo così com’è. Con Gomorra o con film come Il gioiellino sullo scandalo Parmalat, o Buongiorno, notte sugli anni di piombo, si ha l’impressione che l’Italia stia esplorando la sua parte oscura. (Gomorra: On était plus malins que la Camorra, intervista a cura di Flore de Bodman, TéléObs, 18 gennaio 2015; traduzione mia)

Eppure, è precisamente qui che risiedono i veri limiti e le ambiguità della serie. Rispetto al romanzo e al film, la serie resta infatti un passo indietro; per usare le categorie di René Girard, i primi cercano di indagare la verità (più o meno romanzesca) della camorra, mentre la seconda stenta a prendere le distanze dalla menzogna romantica. Il riferimento a Girard va preso alla lettera, perché uno degli aspetti più interessanti del libro di Saviano è proprio l’attenzione alla natura mimetica della mitologia camorrista, che viene così smascherata nelle sue velleità:

Quando Cosimo sente il calpestio degli anfibi dei carabinieri che lo stanno per arrestare non tenta di scappare, non si arma nemmeno. Si mette davanti allo specchio. […] Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero. Cosimo Di Lauro si abbiglia da pagliaccio del crimine, da guerriero della notte, scende per le scale impettito. […] Matrix, The Crow, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono [i nuovi boss della camorra] e chi sono. […] [Cosimo] è un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. (Gomorra, pp. 125-126)

Lo stesso tema viene sviluppato da Saviano in altri passi del romanzo, in particolare nel capitolo intitolato Hollywood (pp. 266-282). La serie di Sollima rimane invece al di qua di una simile separazione tra velleità ed esiti; in altre parole, la distanza tra i camorristi e i loro modelli cinematografici tende a scomparire. Il peccato originale di Gomorra – La serie, insomma, non è di tipo morale; si tratta, semmai, di un peccato di leso realismo, di un venire meno alle possibilità conoscitive del mezzo impiegato, a favore di uno schema narrativo di facile presa. Disconoscere questo aspetto, trattando la serie alla stregua di un documentario di denuncia, è sintomo di malafede, nel senso definito da Sartre – ovvero una tendenza, consapevole o meno, a convincersi di non essere quello che si è (L’essere e il nulla, parte I, cap. 2, §§ 1-3).

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