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Cordiali saluti di inizio millennio. La figura dell’impiegato nella letteratura dell’Otto e del Novecento/8

Oggi mi hanno chiesto di scrivere una lettera di licenziamento. Da pochi giorni non c’è più il direttore vendite, la gente si aggira per gli uffici a contare le sedie vuote e quelle piene. Per farle diventare vuote, le sedie, bisogna che qualcuno comunichi agli interessati le necessità aziendali in seguito alle quali si è resa necessaria l’interruzione della proficua collaborazione intercorsa tra la società e il dipendente messo alla porta.

La citazione è tratta da Cordiali saluti di Andrea Bajani. A parlare è il protagonista-narratore, che all’interno dell’azienda ricopre un incarico ben preciso: quello di scrivere ferme e al tempo stesso accorate lettere di licenziamento. Si tratta insomma dell’altra faccia, quella tragica, del comico «capro espiatorio» inventato da Pennac per il suo Malaussène. Entrambi in ogni caso non sono inseriti all’interno di un ciclo di produzione, ma esercitano la loro funzione unicamente a livello comunicativo: con i clienti, assumendosi tutte le colpe, il signor Malaussène; con gli altri “morituri” dipendenti nel caso di Bajani.

Pennac inizia a pubblicare la sua saga a metà degli anni Ottanta, quando in Francia e nel resto dell’Europa (si pensi in Italia alla marcia dei quarantamila) i lavoratori cominciano definitivamente a perdere sicurezza del posto, forza oppositiva e contrattuale, e più in generale una precisa identità sociale. Nell’’85, quando appunto esce Au bonheur des ogres (Paradiso degli orchi, pubblicato da Feltrinelli nel ’91), la perdita di centralità da parte dei ceti lavorativi è ben chiara ed evidente, ma non ancora assorbita a livello epidermico (almeno da una parte – la più privilegiata, quella che compra e legge libri – della popolazione). Nel 2005, invece, quando Bajani pubblica appunto Cordiali saluti (cui segue, l’anno dopo, Mi spezzo ma non m’impiego: guida di viaggio per i lavoratori flessibili; nello stesso anno Aldo Nove presenta Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese), il dominio assoluto del capitale, esercitato attraverso il mercato interinale e la precarietà, è assodato e già provato sulla pelle di una generazione. Sicché di lavoratori-produttori non c’è più bisogno, e l’unico dipendente a tempo indeterminato che merita simile assunzione è quello che deve aiutare a cacciare gli altri: ovvero il redattore di lettere di licenziamento, soprannominato dai suoi superiori, e con evidente positivo giudizio di valore, «il Killer» («Da che ho iniziato a scrivere le lettere di licenziamento mi chiamano il Killer. Quando il direttore del personale vuole parlarmi mi dice Ehi Killer, prima di uscire passa da me»).

 *

Se si analizza l’evoluzione della figura dell’impiegato nel romanzo dell’Otto e del Novecento – così come è stata presentata anche dai diversi interventi che hanno preceduto questo – si notano almeno tre caratteristiche. Innanzitutto l’impiegato è socializzato: è calato all’interno di un luogo circoscritto – l’ufficio – in cui si consumano amicizie (raramente), complicità (saltuarie), scontri (ricorrenti); in ogni caso sia nella sporadica fratellanza che nella consueta opposizione l’impiegato riconosce i colleghi come suoi pari e con questi entra in continuo contatto dialogico. In secondo luogo l’impiegato svolge un’attività che almeno teoricamente fa procedere la produzione, o comunque è parte di un ingranaggio produttivo che lo equipara ai suoi compagni di stanza; e anche quando il suo lavoro è giudicato inutile o irrilevante (così come avviene da Balzac in poi), il metro di giudizio su cui misurarsi è ancora quello della produttività, ossia dello svolgere funzioni che portino a un risultato tangibile (la pratica liquidata, potremmo dire). Infine, ed è ciò che è emerso con più forza dai sette interventi sul mondo burocratico pubblicati nelle scorse settimane su Laletteraturaenoi, contraddistingue l’impiegato-inetto un certo spirito ribelle, che si manifesta nei confronti del superiore e della società in genere, rea di averlo relegato in un settore marginale e mortificante (si va dall’ingenuo Alfonso Nitti, che concupisce la figlia del capo, a Gregor Samsa, che mina tutta l’economia familiare, fino al protagonista di De André, che pur ergendosi a maestro di «tritolo» alla fine fa esplodere solo un chiosco di giornali).

Ebbene proprio queste sono le caratteristiche che l’impiegato (ma il discorso vale per il lavoratore in genere) perde nella narrativa dagli anni Novanta in poi. Se prendiamo proprio il protagonista di Cordiali saluti, non facciamo fatica a notare che è solo (salvo poi trovarsi invischiato, suo malgrado, nella vita privata del suo ex capoufficio, non a caso da poco licenziato), non può avere contatti con i suoi colleghi (scrive loro delle incredibili, false ed esilaranti lettere di licenziamento) e soprattutto non è affatto antagonista. Al contrario è il primo complice e collaboratore dei suoi superiori, e a questi offre la sua mano perché venga armata per il colpo finale (senza che si macchino loro di tale colpa). Eppure non lo fa per convinzione ideologica, né per quella smania di carriera, che invece sembrava innervarsi in tanti personaggi ottocenteschi e di primo Novecento. Il «nostro eroe», ossia il non eroe di Bajani, è spietato con i suoi colleghi – ne taglia la testa, è il loro boia – solo per salvarsi. È insomma l’espressione tipica di quella “zona grigia” che Primo Levi ha indagato negli abissi del lager, ma ha altresì indicato come costitutiva di ogni sfera sociale e di ogni dinamica messa in moto da un meccanismo che vede oppressori da un lato, e oppressi dall’altro. I quali – questi ultimi – possono scegliere di soccombere (e guadagnare 250 euro al mese come la Roberta di Aldo Nove) o di collaborare, trincerandosi dietro i vari “mi limito ad obbedire”, “ne ho bisogno”, “se non lo facessi io lo farebbe un altro”. Non c’è però spazio per un’ulteriore opzione di scelta. Nemmeno per quell’atto ribelle e velleitario già visto in precedenza, che in qualche modo inceppa il meccanismo produttivo e testimonia l’esigenza e/o il desiderio di un mondo diverso. Anzi proprio a quell’atto, sembra dire Bajani, questo mondo rivolge i suoi più Cordiali saluti.

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Eppure non può finire così. Il libri di Bajani, l’ho già detto, è del 2005. E dopo dieci anni nelle aule universitarie gli studenti sono ancora (o di nuovo, o con più energia di quanto accadeva poco tempo fa) capaci di creare una comunità ermeneutica e avvertono l’esigenza di interrogare, senza prescindere dai valori letterari, romanzi e poesie anche da un punto di vista sociale e materialistico. È quanto appunto accaduto nel corso di studi da cui è poi scaturito questo ciclo di letture sulla figura dell’impiegato. E proprio gli studenti, nell’atto di chiedere (anche) alla letteratura una riconfigurazione del mondo così da comprenderne storture e deviazioni, rovesciano il piatto: e porgono loro i più Cordiali saluti a chi invece afferma che la storia non poteva andare nient’altro che così.

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