Il Romanzo della Nazione è un romanzo sur place. Maggiani scrive con garbo, ma non si muove, nemmeno cammina, resta lì. Però con molti vezzi e mossette. Come un calciatore che durante la partita palleggia, tocca di tacco e di fino, ma non si sposta dal centro del campo, non fa assist ai compagni, tanto meno la butta dentro. Che il protagonista ha baciato la madre morente ce lo deve dire per cinque o sei pagine, e che la madre gli ha messo da bambino una cuffietta e poi così l’hanno fotografato, per altre cinque o sei. Allunga il brodo, avrebbero detto la madre Adorna o la zia Cesarina. Allungando e allargando, Maggiani può credere di scrivere della nazione, quando invece scrive di sé, delle proprie orecchie a sventola, del proprio bacio alla madre, della propria somiglianza con Kafka, del proprio rapporto col padre, delle proprie zie, dei propri amici e, tutt’al più, del proprio quartiere. E può credere di scrivere un romanzo, quando invece se la ride e se la canta, guardando sempre e solo il proprio ombelico.
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Romano Luperini
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