Scuola e sguardi antieroici. “Su Clap!” di Bortolotti
Preciso subito che di questo libro (Clap!, Edizioni Creativa 2015, 16,90 euro) non vorrei parlare né per i suoi tratti letterari, avanzando, come canonicamente si usa in una recensione, un giudizio di valore, né per dibattere i temi didattici che affronta e che pure meriterebbero una qualche riflessione. Non parlerò dunque né di Clap come libro, né di Clap come progetto “classe aperta”. Cercherò di parlare invece della prospettiva che, a mio modo di vedere, ha condotto sia alla stesura del volume che al tentativo di sperimentazione trentina. Credo infatti che il punto cruciale della faccenda sia lo sguardo.
Clap sta per cla-sse ap-erta. La classe aperta è un tentativo di arginare la dispersione scolastica messo in atto da una scuola di formazione professionale trentina. L’esperienza è raccontata da Andrea Bortolotti, che fa il vicepreside in quella scuola, tra molti rovelli e poche certezze. L’esperienza di Clap ha preso il via dopo un’altra esperienza innovativa, il progetto Campus, che la scuola di Bortolotti aveva avviato con Marco Rossi Doria, chiamato dall’istituzione come esperto per contrastare le difficoltà vissute dalla scuola. In quella scuola, come in molte altre, difatti, erano arrivati «i figli dell’obbligo scolastico ai 16 anni, quelli costretti a stare dentro una scuola che non riesce a desiderarli» (p. 15). Tuttavia è solo dopo un allarmante episodio di violenza (una studentessa che assesta un ceffone a un’insegnante), che si decide di cambiare rotta, prima con Campus, appunto, poi con Clap, un tentativo di rinnovamento didattico condotto con grandi sforzi e in sostanziale solitudine da pochi docenti intenzionati a giocarsi il tutto per tutto. Il libro racconta le tappe di questo percorso, non cela i dubbi, mette a nudo i fallimenti, dichiara la sostanziale unicità dell’esperienza che, sia per ragioni economiche che per gli esiti a cui ha condotto, non può essere, come si dice in gergo scolastico, messa a sistema.
Ma non è di questo, come dicevo, che intendo parlare, non della bontà del progetto, non dell’area dello svantaggio, non dei problemi organizzativi e di funzionamento delle scuole, non della motivazione o del senso della missione dei colleghi, della velleità delle “avanguardie educative” o della sostanziale solitudine dei volenterosi. E’ lo sguardo con cui si guarda a tutte queste cose che più ci interessa.
Il libro si compone di 138 pagine distribuite in 28 capitoli. I capitoli sono tematici, ma ripercorrono le varie fasi del progetto sperimentale. La linearità temporale adottata come criterio narrativo è quindi inframezzata da continue messe a fuoco tematiche, come se i temi discussi fossero altrettante pietre d’inciampo lungo l’arco dell’esperienza, sprofondi entro cui si cade man mano che si va avanti. Inoltre, il forte autobiografismo narrativo (su cui torneremo) è attenuato da altre tracce di scrittura, da altri registri che appannano l’unitarietà della visione: le testimonianze degli studenti riportate in presa diretta e sciolte qua e là nel volume in lunghi corsivi, o la descrizione documentaristica e talvolta burocratica di alcune parti. Anche qui dunque l’orizzonte del racconto si complica: non è soltanto presente il punto di vista del personaggio-eroe-io-narrante Bortolotti, ma anche quello degli studenti e quello dell’istituzione a cui l’autore appartiene e di cui, come vicepreside, conosce bene i meccanismi.
Ricaviamo così una prima indicazione sulla natura dello sguardo di Clap: lo sguardo di insegnanti come Bortolotti non può proiettarsi liberamente in avanti, perché via via che procede nel cammino è attratto in basso da cadute e inciampi; quello sguardo inoltre non può focalizzarsi in maniera rigida su un oggetto, perché tende alla diffrazione in altri punti di vista: quello degli studenti e dell’istituzione in cui si origina innanzitutto. Lo sguardo di Bortolotti è dunque costretto a continue verticalità e intrecci. Il suo valore testimoniale sta proprio qui: nell’impurità a cui è condotto l’eroe e dunque nel suo paradigmatico antierosimo.
Perché di eroe costretto al disincanto quotidiano a tutti gli effetti si tratta. Proprio nei termini in cui ne ha parlato Clotilde Bertoni coniando l’espressione dell’ insegnante d’eccezione: «nei loro racconti tutto il fascino, la passione, il peso dell’insegnamento si condensano nel loro singolo, eccezionale slancio, che fa maggiormente emergere l’opacità del contesto». Non c’è però vanità in questo, c’è invece molta solitudine.
Lo dice bene lo stesso Bortolotti introducendo alcune riflessioni dei suoi studenti: siamo in presenza di «frammenti di scrittura sospesi tra l’io e il noi» (p. 115). Ma non è forse questa la condizione di molti altri insegnanti e della scuola italiana in questa fase storica? Non sono il frammentismo delle storie e la sospensione delle attese forme di scissione dei legami che ogni giorno scontiamo dentro e fuori le aule?
Dietro uno sguardo come quello di Clap vi è allora la tensione a costruire un discorso collettivo e la sua pervasiva impossibilità, o, se si vuol essere più ottimisti, l’impossibilità ma la tenace tensione a ricostruire discorsi collettivi: «ora che possiedo i titoli per trasmettere la memoria dell’uomo occidentale non so cosa fare e mi ritrovo tra le mani un libro di Illich dal quale riparto» (p. 138). Non a caso è nominato Illich in chiusura, mentre in apertura vi è la lunga citazione, quasi come nella preghiera di un rosario, di molti nomi dei maestri delle pedagogie attive, che in questo libro e in alcune scuole convivono con progetti d’impianto ingegneristico, molte carte, rendicontazioni e fiumi di discussioni negli organi collegiali. Lo spirito costituzionale, l’egualitarismo utopistico, l’ottimismo pedagogico si confondono con il senso del limite e di quotidiana sconfitta degli insegnanti. E’ in questo amalgama che la scuola italiana è rappresa. Gli sguardi inquieti cercano ma non è affatto detto che riescano a trovare. Per questo è soprattutto a quel che via via si intravede nell’orizzonte dei possibili che deve andare la nostra attenzione.
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NOTA
L’immagine è di Escher e si intitola Riempimento cubico dello spazio
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