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“Il mondo non è bello se non veduto da lontano.” Il carteggio fra Leopardi e la sorella Paolina

 Grazie alla gentile concessione dell’editore nottetempo  e dei curatori Laura Barile e Antonio Prete, pubblichiamo la nota introduttiva e una lettera del carteggio “Il mondo non è bello se non veduto da lontano. Lettere 1812-1835”, a cura di Laura Barile e Antonio Prete, nottetempo 2014. 

 Nota introduttiva di Laura Barile 

 Questo carteggio fa parte del vasto epistolario leopardiano, uno fra i più bei libri della letteratura italiana, e commovente per il profondissimo affetto, e bisogno di affetto, che esprime. Proponiamo qui per la prima volta in Italia nella sua autonomia e completezza il dialogo – un centinaio di lettere su quasi duemila – fra Giacomo e la sorella Paolina: interlocutrice privilegiata per la sua complicità e intimità scherzosa col fratello, e per la grazia intelligente della scrittura.

I legami di Leopardi con i famigliari, di estrema intensità affettiva ed emotiva, sono di grande interesse. Prima di tutti il complesso, controverso e fondamentale rapporto con il padre Monaldo; poi quello col fratello Carlo, per molti anni partecipe attento della vicenda esistenziale di Giacomo. Con Paolina si aggiunge l’elemento del genere: con lei, infatti, Giacomo intrattiene il più intenso, prolungato e condiviso rapporto col femminile della sua esistenza.  

A una prima pubblicazione delle lettere di Paolina alle amiche, che risale alla fine dell’Ottocento, ne sono seguite negli anni varie altre: ma sempre scambi epistolari con alcune amiche di penna, interessanti soprattutto sul piano della condizione femminile espressa nella vicenda esemplare di questa intellettuale, nata in una famiglia della piccola aristocrazia di provincia all’inizio del XIX secolo.

Giacomo si confronta con la sua condizione di reclusa e la durezza del suo destino di prigioniera nella casa avita, finché non venga a liberarla col matrimonio un principe azzurro. C’è in Giacomo una particolare dolcezza protettiva che lo spinge ad attivarsi nella ricerca di un marito, e insieme aprire alla sorella con passione generosa e assolutamente paritaria i suoi interessi intellettuali, filologici e filosofici, e la sua attività creativa.

La rilevanza di questo epistolario sta però anche nella dolorosa rottura, non mai detta, ma reale, che conclude l’intenso scambio tra i due fratelli: una rottura che avviene sul piano religioso, ideologico e politico. Ci sono di mezzo i moti del ’31, che lambiscono nella Marca pontificia anche Recanati e che fanno ricredere Paolina sulle idee liberali francesi. C’è il suo contributo fondamentale, di cui non parla a Giacomo, alla rivista cattolica, lealista e reazionaria La Voce della Ragione, fondata da Monaldo nel ’32; e, di contro, l’ateismo di Giacomo, da lei paventato e per lei impensabile e inaccettabile. C’è la pubblicazione quasi anonima nel ’32, e da molti attribuita a Giacomo, dei Dialoghetti di Monaldo, fortunatissimo libretto che usa la formula delle Operette morali, uscite pochi anni prima, per rovesciarne il contenuto morale, religioso e politico. E c’è in quello stesso anno la traduzione di Paolina, che però non ne fa parola al fratello, dello stravagante e umoristico Viaggio notturno intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, indolente e svagato fratello di quel Joseph de Maistre, fierissimo pensatore reazionario, che lo zio Carlo Antici ripetutamente aveva invitato Giacomo a leggere e meditare, per correggere il pensiero espresso nelle Operette, appunto…C’è infine, anche questo non detto, il recente, stretto rapporto di Giacomo cin Antonio Ranieri e insieme la sua ferma intenzione, dopo l’ultimo penoso soggiorno del 1829-’30, di non rimettere mai più piede a Recanati. Una decisione che Paolina forse percepisce e che la offende e sdegna.

E’ anche questa curva del rapporto, che vira verso un dissidio ideologico ormai insanabile pur se mai dichiarato – e che emerge drammaticamente attraverso il vivace, ironico e appassionato fluire della scrittura fino ai silenzi, e poi al silenzio, degli ultimi anni – a costituire dunque un particolare motivo di interesse per questo carteggio.

Certo, anche Paolina è “la sorella”, è stato detto di lei. E’ vero: ma Paolina, prigioniera del suo tempo e della sua classe, era riuscita a trovare se stessa proprio grazie alla largesse di quel fratello di genio sofferente, che capisce il mondo e lo ama disperatamente.

 

Di Paolina Leopardi

Recanati, 13 Gennaio 1823

Caro Giacomuccio mio. Ecco cominciato questo nuovo anno, che io vi desidero pieno di felicità, e lo sarà senza dubbio, avendolo cominciato sotto favorevoli auspicj. Per me non ho altro desiderio a formare, che di non vederne il fine, ed è questo desiderio concepito con il più intimo sentimento del cuore, e voi lo crederete bene, conoscendo me e quelli che mi governano. Dei quali io sono così annoiata, e di questo modo di vita, che non ne posso più;ed il peggio è il non avere alcuna speranza, neppur lontana, di miglioramento; no, non vedere per fine a questo stato altro che la morte! Ebbene, venga pure questa morte, e venga anzi prestissimo, chè sempre sarà troppo tarda ai miei voti; e se mi si assicurasse di morire domani, forse dalla consolazione non ci arriverei. Voi dite che l’allegria e la malinconia sono frutti d’ogni paese; per la malinconia crederò che possa essere frutto di Roma, ma l’allegria di Recanati credo che sbagliate. E poi il paese dove abito io, è casa Leopardi; e voi sapete meglio di me come vi si vive. Insomma io sono disperata; ed alla fine, essendo certa di dover vivere sempre miseramente, termino sicuramente col farmi monaca. E potessi farlo adesso in questo momento in cui piango, e mi dispero! Voi mi domanderete forse cosa mi è avvenuto di nuovo. Niente, Giacomuccio mio, ma ogni giorno che passa, accresce la mia infelicità. Ma adesso che vi rifletto, non so perchè venga a tormentarvi con queste ciarle, ora che vi godete la vostra pace, e vi ridete di tutte le nostre miserie. Scusate, caro Giacomo mio; io sono amareggiata talmente, e così intimamente desolata, che senza accorgermi ho preso a parlare di me, non ricordandomi, che questa è la cosa pegli altri più noiosa che si possa dare. Non così però è per me quando mi parlate di voi, anzi vi prego a farlo sempre, prendendo io moltissima parte nei vostri affari; come prendo molto dolore ai vostri geloni, che dal vostro silenzio nell’ultima a Carlo argomentiamo che stiano meglio. Non dimenticate però di parlarcene, e se avete usato di quell’unguento che vi hanno mandato ec.

Mi fate strabiliare colle lodi, che date alle mie lettere. In verità che fino ad ora ho creduto che valessero niente, e quasi mi vergognavo di scrivere a voi, come al primo intelligente a cui le abbia indrizzate, temendo che scopriste l’inganno di quelli che le lodavano. Adesso però sospetto che voi pecchiate un poco di adulazione, come peccate certo di bugia nel dire che non sapete rispondermi con galanteria ec. Benchè questo sia assolutamente falso, è certo però che io non ne esigo, e mi basta solo che mi diciate di volermi bene, anche in termini trivialissimi, chè io mi contento; ma voglio positivamente che me lo diciate.

Non vi perdono più le scuse che mi fate sopra le mie commissioni. Se non volete farmi pentire di avervele date, non me le rinnovate più. Esse sono di così poca importanza, che quasi non giustificano l’incommodo che vi prenderete per esaurirle. Abbiamo tutti compianta la morte del povero Quercia, ed io più degli altri, che secondo il mio fare gli volevo bene. E quel pensiero di non doverlo rivedere più, io che lo vidi montare in legno, e salutarci partendo e ridendo, mi tormenta un poco. Voi però non ci penserete più, e succederà in Roma ciò che diceva Madame de Sévigné succedere in Parigi rapporto alle grandi nuove o morti, che era un torrente che trascinava tutto, e l’ammirazione e il dolore; solo la morte di Turenna fece parlare per più lungo tempo; ma non sarà paragonabile a questa morte di Quercia o Cerqua, ch’io non ho mai imparato il vero nome. Vedete dunque a che proposito ho cavato fuori la mia erudizione, e ridete; e già sapete che Madame de Sévigné è la mia opera classica, e avendola letta tre volte, la so bene a memoria. Addio, Giacomuccio mio. Se vi siete annoiato delle mie ciarle, come sarà senza dubbio, ringraziatemi che ho cominciato in un mezzo foglio di carta. Tutti vi salutano, ed io saluto tanto Mariuccia e voi, Giacomo mio, abbracciandovi affettuosamente. Addio.

Per vostra regola, ho renduto già le vostre lettere e le mie invisibili ad ogni altro.

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