Boccaccio dei Taviani
Sono andato a Firenze alla prima del film dei fratelli Taviani ispirato al Decameron. Ne sono uscito turbato. E’ un film molto intenso. Ed è intenso perché sa esprimere l’intensità delle emozioni e dei sentimenti, dei gesti e dei silenzi. Eravamo tutti abituati allo scetticismo, al diluvio di ironie, alla esibizione di cinismo, a una letteratura e cinematografia volutamente sporche e sapute, e qui invece c’è una opera che tende a purezza e semplicità e fa coincidere con esse la propria moralità.
I personaggi e i paesaggi sono essenziali, riportati a una assoluta elementarità.
I personaggi della novella della donna lasciata come morta e salvata dall’amante e soprattutto quelle di Tancredi e Ghismunda e del falcone sono scarnificati, ridotti a pochi atti, a poche parole, a molti sguardi e a molti silenzi. Così atti e parole, riportati alla loro autenticità elementare, sembrano recuperare significati che l’abuso retorico e pletorico che se ne fa da decenni sembravano aver cancellato per sempre.
I paesaggi toscani si sono prestati, anche nella cinematografia più recente, a una serie di belle cartoline illustrate. Qui il paesaggio ha invece la stessa impronta dei sentimenti e delle parole. E’ un paesaggio innocente, prima del diluvio. Nessun estetismo. E nessuna citazione da dipinti famosi. Colli, alberi, campi, prati è come se fossero visti per la prima volta, prima che la pittura e la fotografia li trasfigurassero.
Il film non è boccaccesco. Per quanto ne so, è il film più originale che sia stato tratto dal Decameron. Qui c’è un Boccaccio casto, di una innocenza primordiale. Agli antipodi, per esempio, rispetto a quello di Pasolini. La purezza del film esclude qualsiasi cedimento alla grossezza dell’erotismo. Il sesso qui è sempre sentimento amoroso.
Dopo tanta raffinatezza, dopo tanta ricchezza di informazione, dopo tanto saperla lunga, tanta civiltà stanca e sfinita, oppure superba e gonfia di sé (e l’eccesso di civiltà, come Leopardi sapeva, è causa del suo decadimento, una delle ragioni della peste che ci travolge), l’opera dei Taviani sembra voler riproporre una autenticità da raggiungersi non già regredendo a prima della peste ma oltrepassandola. Il ritorno alle emozioni e ai sentimenti non è frutto di incoscienza, anzi è immaginato come un passaggio difficile attraverso la peste del nostro tempo. I Taviani non ignorano l’ironia e la crudeltà del Novecento, ma proprio perché l’hanno sperimentata si pongono al di là di essa, in una zona di innocenza che è conquista non smemoratezza. Ciò si percepisce dai due tipi di recitazione che si alternano sullo schermo: quando sono in scena i novellatori della cornice essi portano ancora nel tono, talvolta quasi manierato o artefatto, le regole del mondo civile e le memorie della peste che esso ha prodotto; quando vi subentrano i personaggi delle novelle, essi parlano invece il linguaggio diretto dei sentimenti, con le sfumature, i silenzi e il pudore che i sentimenti esigono. A poco a poco però i due tipi di recitazione tendono a unificarsi: la civiltà che la comunità rappresenta, coi suoi divieti e il suo ordine, sembra recuperare l’autenticità originaria espressa dai personaggi delle novelle. I due mondi si ricongiungono. Dopo la peste i giovani torneranno in città. La vita rinascerà non già attraverso scelte anarchiche o di isolamento sociale, ma con un nuovo compromesso fra civiltà e natura.
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Premesso che – assieme a qualche altro più famoso di me … – non ritengo il cinema arte ma una forma espressiva al pari di un articolo di giornale o delle canzonette – con tutta l’ingiustizia che una simile concezione rinviene nei finanziamenti abnormi dalla nostra società pubblicamente e privatamente attribuiti a forme espressive non artistiche anziché all’arte o alla scienza – l’intervento in questione mi pare faccia finalmente giustizia ad un fenomeno – come quello dei f.lli Taviani – finora a rischio di rientrare nell’hegeliana categoria del Troppo Noto quanto Troppo Poco Conosciuto.
Per motivi di tempo e di denaro non vado molto al cinema e sono tutt’altro che aggiornato ma siccome le forme espressive egemoniche t’entrano in casa che tu lo voglia o no allora ho avuto modo – fra l’altro – di farmi una qualche opinione del cinema dei Taviani. Opinione che è più o meno coincidente con quella espressa nell’intervento in oggetto. Intervento del quale vorrei sottolineare l’attenzione per ciò che pertiene alla dimensione extra-umana. Per la trattazione – non neorealistica né più in generale antropocentrica – di paesaggi e cose. Per la tendenziale trattazione degli uomini come paesaggi e cose fra paesaggi e cose. Da qui anche i silenzi rilevati dal recensore. Il cui ultimo intervento sul cinema risale se non erro al film-Oscar di Sorrentino. Lo richiamo perché Sorrentino può essere un buon termine di paragone. Per opposizione ed in negativo. E proprio per la questione del rapporto uomo-mondo. Paesaggio-paesaggio quello dei Taviani. Paesaggio insopportabilmente estetizzante quello di Sorrentino. Tanto da impedire all’uomo di avere un rapporto col paesaggio inteso come altro da sé – e quindi impedendogli di essere uomo! – proprio per mancanza di un paesaggio degno del nome – cioè non riducibile a nomi … – e di cose-cose.
Non ho visto il Boccaccio dei Taviani e probabilmente non lo vedrò – disistimando il cinema e soprattutto quello d’ambientazione storica e soprattutto quello che specula sulla scrittura artistica – tuttavia mi sento fin d’ora di poter dire che quanto scrive Luperini per quel film vale più in generale per il cinema dei Taviani. Trovandone conferma ad esempio – fra i loro film che ho visto – nel vecchio ma sempre acuminato “Padre padrone” (1977). Un altro regista italiano – anch’egli più noto che conosciuto – a cui forse si può accostare la concezione paesaggistica dei Taviani è Luigi Comencini. Riguardiamo certe scene del suo “Pinocchio” (1972) girato nell’aspro Lazio del nord e non in Toscana probabilmente non a caso ma proprio a conferma della nostra interpretazione …
Finendo vorrei notare come il film dei Taviani si inserisce in un frangente in cui qualche film e qualche regista passabile c’è – dopo tanto tempo ma anche senza la benché minima strutturazione di novità espressive che possano far parlare di contributi storicamente significativi: a conferma del fiato corto del cinema quale forma espressiva …
In questi giorni s’è fatto giustizia con l’Oscar a Inarritu – forse col suo film peggiore essendo a quel che si dice un musical? non lo so non avendolo visto … “Mr. Turner” (dal regista di “Vera Drake”) ha avuto tutta la propaganda che ha avuto. Jane Campion, Tarantino, Malick, Van Sant, Reygadas (del quale segnalo “Battaglia nel cielo”) sono in piena attività.
E dovremmo aggiungere diversi altri nomi (Audiard Coen Haneke …) facendo attenzione a non dimenticare il contributo che ormai da una ventina d’anni si sta rivelando come il più importante. Quello del cinema orientale. A cui andrebbe affiancato più genericamente quello dei registi extraeuropei. Tanti e agguerriti perché – come certi scrittori – ostacolati da quelle stesse condizioni socio-economiche che li facilitano espressivamente consegnando loro storie pugno-allo-stomaco da raccontare …