Non chiamatela violenza sulle donne
Oggi ho provato a fare i miei esercizi a terra. Che ci crediate o no, che ci prestiate attenzione o meno, il corpo conserva tutto quello che gli succede. Così, oggi, è bastato meno di un istante per capire quale dolore mi stesse premendo dietro la schiena. Quando ho letto Uomini che odiano le donne un pensiero si è fatto strada tenendomi all’erta per giorni. Inizialmente non riuscivo a capire cosa scatenasse quel senso di inquietudine che la crudezza della vicenda narrata non bastava a giustificare. Poi ho individuato la fonte del mio disagio nei titoli di apertura di ogni capitolo, in cui Stieg Larsson riporta percentuali sul numero di donne vittime di molestie, discriminazione sessuale, abusi, e altro ancora, in Svezia. Allora mi è stato chiaro che non erano gli episodi di violenza immersi nel contesto fizionale a turbarmi, ma la loro immagine in rapporto al resoconto oggettivo riportato in apertura. Mi sono sentita fortunata, perché in fondo, nonostante tutto, non mi è mai successo nulla di così grave da rischiare la vita: nessun maniaco, nessun killer, nessun violentatore seriale.
Eppure, se traccio un bilancio alla maniera di Larsson, il quadro non è confortante. Su un campione di 5 giovani donne (età max 32 anni), costituito dalla sottoscritta e dalle sue più intime amiche:
– 2 hanno subito abusi sessuali da parte di ‘amici’ entro il 19esimo anno d’età. Per abusi sessuali intendo un caso di stupro e un caso che ci è andato molto vicino. Tralascio casi meno gravi di molestie.
– 3 hanno subito violenza fisica (schiaffi, botte eccetera) oltre che verbale, dal proprio compagno, e 2 da compagni diversi in diversi anni della loro vita.
– 3 hanno subito mail e telefonate di insulti, appostamenti sotto casa per ottenere incontri rifiutati e diffamazione presso conoscenti da parte di ex.
Il campione riguarda giovani donne di quello che un tempo si chiamava ‘ceto medio’, e non di contesti sociali ‘a rischio’: donne con strumenti culturali e personali che, grazie al cielo, sono stati molto utili in quei momenti. Anche il campione di uomini implicati in tali casi è significativo: spazia tra studenti modello di prestigiose università, ottimi professionisti, giovani lavoratori, artisti riconosciuti, giornalisti affermati.
Non passa giorno senza un caso di cronaca sui giornali – donna uccisa, violentata, ritrovata senza vita. Ma il risalto che ultimamente si dà a questi casi, e al tema ‘violenza sulle donne’ rischia di offuscare la verità. La verità è che le violenze non sono quelle che mandano al pronto soccorso, o quelle di improvvisi istinti omicidi. Non sono solo quelle. E’ qualcosa di molto più diffuso, e pervasivo. Nessuno dei casi sopra riportati è mai stato denunciato. Le famiglie degli uomini di cui sopra (genitori, parenti) non ne sono a conoscenza, a meno che non abbiano scoperto nella propria casa l’aggressività del figlio. Forse bisognerebbe smettere di parlare di violenza sulle donne e cominciare a parlare dell’incapacità maschile, del disagio e delle nevrosi degli uomini. Altrimenti si continua a nutrire, nell’immaginario collettivo, l’idea del marito ubriacone che picchia la moglie quando rientra a casa, e a liquidare la questione con le tristi eccezioni della cronaca. Ecco, per favore, chiamiamo questo serpeggiante malessere con un altro nome, tipo del ‘maschio affettivamente aggressivo’.
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Non basta chiamare le cose con un altro nome
Tutto vero. Ma non si cambiano le cose cambiando il modo di nominarle. I rapporti violenti tra uomini e donne ricalcano i rapporti sociali violenti, sui quali si fonda questa società. Con vantaggi di una parte di essa (una minoranza) e svantaggio dell’altra (una maggioranza). Concentrarsi sulla microviolenza, per quelli/e che la subiscono direttamente comunque terribile,dimenticando il quadro generale macroviolento non aiuta le vittime e induce a pensare a scorciatoie vane e consolatorie come questa di cambiare il nome (il simbolo)avendo rinunciato a cambiare i rapporti sociali e politici o a ignorarli del tutto.
Questi rapporti non fanno che sfornare e produrre uomini competitivi e “picchiatori” (non solo di donne), ma anche – bisogna dirlo – donne altrettanto competitive e “picchiatrici” in modi più subdoli. Il modello è quello. Se vogliamo patriarcal-capitalistico, ma nel senso che il capitalismo ha inglobato in sé e si serve anche delle strutture più arcaiche e barbariche. E, quindi, al capitalismo si fa soltanto un baffo, se vengono combattute solo le sue forme patriarcali. Dovremmo riprendere la lotta per costruire le condizioni reali in cui gli uomini e le donne, così come sono (mai “veri” o “vere”), possano più facilmente distribuire o convertire le loro pulsioni sado-masochiste in attività più costruttive! Ma figuriamoci! Oggi è più facile parlare di femminicidio.
P.s.
Mi scuso se queste considerazioni le sembreranno provenire da un altro mondo.