Una certezza universale. Lettere dalla Corea del Sud/2
È un surrogato del globo questo dormitorio di uegughì, di stranieri, venuti qui dalla Tanzania alla Georgia e dal Messico all’Indonesia per divulgare versioni disossate della loro lingua.
Arrivano qui con le vene striate di vaccini, perché la Corea del sud non se la immaginano e allora sono partiti inquieti, hanno addirittura fatto delle iniezioni specialissime, introvabili nella loro città e perciò sono andati nella capitale, alla ricerca del laboratorio che custodisce il siero contro l’encefalite giapponese, una malattia mortale, rarissima ma mortale, provocata da una zanzara che perturba le risaie del sud est asiatico. E in quel laboratorio di veleni salvifici un’infermiera li avrà distratti dalla persistenza dell’ago nel braccio, predicendo per loro un futuro coreano fitto di avventure con scimmiette appostate a ogni crocicchio, pronte a mordere la tenerezza delle cosce.
E così partono indeboliti, trascinandosi dietro una valigia ripiena di grammatiche e medicine e gli occhi già pronti a inondarsi di una fauna stridula e fiabesca. Ma di scimmie in Corea del sud non ne vedranno mai, perché non esistono, e subito trovano invece un aeroporto scintillante, col pavimento così lustro da volercisi strusciare con tutto il corpo, improvvisando balletti contemporanei, e che da sette anni consecutivi è considerato il migliore del mondo.
Indugiano seguiti da una valigia che è il distillato di tutto l’essenziale e che però non è mai abbastanza, e comunque è piena quanto può di campioncini della patria, di gadget degli affetti e della cura. L’avranno preparata con l’angoscia del clima, che questo per davvero è stridulo e fiabesco. Se cominciano a insegnare nel primo semestre arriveranno a febbraio, quando ci sarà ancora un freddo ispido che si protrarrà per un altro mese e più, invadendo anche gli spazi della primavera e che sarà possibile tollerare solo grazie all’incanto teorico dell’animismo, che spiega il fenomeno come la gelosia dell’inverno per la nuova stagione, che gli ruba i fiori e li feconda.
Saranno invece salutati dal Monsone se cominciano il lavoro nel secondo semestre, caso più raro ma comunque possibile, per rimpiazzare magari qualcuno che all’improvviso è dovuto tornare nel proprio paese: per un lutto, una malattia, un divorzio, una promozione – o piuttosto una certa stanchezza, la sensazione di essere sempre più astratto e traforato, la percezione che lo spaesamento abbia graffiato così malamente da aver intaccato tessuti essenziali, e allora prima che sia troppo tardi cerca di rimettersi insieme, di medicarsi le orecchie e la lingua e di far riposare un po’ la memoria.
Di tornare per ricucirsi è successo due mesi fa a Stephan, di Brema: trafitto dal ritornello sui Tre Musicanti. Alto e sottile Stephan, e fanatico nelle sue scalate montane. Amava per questo la Corea che di passeggiate è un reame; davvero all’inizio la amava. Ogni mattina prima delle lezioni scalava creste di collina, e questo dopo aver già salutato il sole con un esuberante ciclo di Yoga Ashtanga. Camminava foderato di Goretex e sospinto dalle racchette norvegesi, per un’ora e poco più, e così portava a spasso la testa e pensava ad alta voce in modo liquido nella sua lingua, la sgranchiva e la faceva galoppare, prima di rimetterle le briglie per la lezione.
Passeggiava Stephan, e intanto si cresceva anche un orto nei vasi, piantando tanti semini che poi germogliavano veloci, finché spuntava un cetriolo così commestibile che veniva voglia di fotografarne i progressi con l’I-phone e poi di esibirli, non per orgoglio analogico, ma per tamponare un vuoto della conversazione che si era squarciata così, all’improvviso, mentre insieme a una collega scalava la lunga salita del campus.
Un vuoto della conversazione, sì, perché cosa mai puoi dire per più di venti minuti a una collega siberiana che naturalmente il tedesco non lo parla, il coreano ma non scherziamo e l’inglese solo un po’, giusto per orientarsi, per non morire di colite all’estero. E se come Stephan sei stanco di violentarle le lingue, allora ti affidi anche alla foto di un cetriolo che cresce, che si ispessisce la buccia e la irruvidisce di bitorzoli lunari. Meglio questo che ripetere ancora che fa freddo (a una siberiana!) o che è troppo umido, o chiederle quante ore insegna domani, se pranza alla mensa, come sono le matricole.
Invece di logorare frasi già smunte ecco allora il soccorso di questo cetriolo che cresce rapido nelle foto telefoniche, nell’arco di cinque scatti è già passato da seme a rotolo e quasi è pronto per essere sbucciato e tagliato a listarelle, per poi tuffarsi nel brodo dei Naengmyeon, un brodo gelido, croccante di ghiaccio triturato, dove insieme a lui cetriolo galleggerà un nodo di spaghetti marroncini lunghissimi, i Naengmyeon appunto, che per mangiarli signorilmente devi essere un giocoliere, e che dopo due anni e mezzo di vita coreana possono ancora sfidarti beffardi, mentre cerchi di arrotolarne un gomitolo di proporzioni gestibili dal tuo palato.
Ma accetti ogni volta la sfida, perché i Naengmhyeon sono buonissimi e soprattutto sono fatti di grano duro, e se li mangi davvero tutti dopo potrai scalarlo anche per intero il campus, incurante delle conversazioni che non smettono di squarciarsi, perché avrai una scorta di carboidrati nello stomaco e sentirai che quell’energia piano piano passerà alle tue gambe. E siccome i carboidrati bruciano lenti pure in Corea del sud, l’evidenza abbacinante di questa legge universale ti darà una rassicurante – seppur momentanea – pace; una pace che qui non potrà essere altro che una lunga, strattonata tregua.
- Il cetriolo non sarà solo: oltre a lui, coi Naengmyeon si mescolano fette di pera asiatica, germogli di soia arricciati e mezzo uovo sodo, glassato di brina. Di cosa sanno questi Naengmyeon? Di frutta, grano duro e inverno. Sono buonissimi.
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