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diretto da Romano Luperini

Presentiamo ai nostri lettori un ciclo di lezioni su I promessi sposi che sostengono la tesi della modernità di Manzoni.  Nella lezione che segue Luca Badini Confalonieri tratta del rapporto fra storia e forma romanzo in Manzoni.

Novità del romanzo manzoniano

La grande novità del romanzo manzoniano è percepita subito da lettori di eccezione, come Goethe, nella testimonianza di Eckermann : « il romanzo di Manzoni supera tutto ciò che noi conosciamo in questo genere » (cfr. Dai colloqui con Eckermann, in P. Fossi, La Lucia del Manzoni e altre note critiche, Sansoni, 1937, p. 281 e J-P. Eckermann, Colloqui con Goethe, trad. di T. Gnoli, Sansoni, 1947, pp. 215 sgg.) e Puškin, nella testimonianza di Anna Petrovna Kern: « Je n’ai jamais lu rien de plus joli »; e più precisamente, in rapporto al genere del romanzo storico, in quella di Sergej Aleksandrovič Sobolevskij: « nonostante Puškin ammirasse molto Walter Scott, considerava i Promessi Sposi superiori a tutte le sue opere » (cfr. R. Rabboni, Puškin e Manzoni (con Alfieri, Foscolo e Pindemonte), in «GSLI», CLXXXV, 611).

Goethe e Manzoni

Goethe in realtà aveva un’altra idea, rispetto a Manzoni, del rapporto storia-poesia, incline a far trionfare la poesia, rispetto a una scrupolosa aderenza al vero storico. Si conosce la critica goethiana alla distinzione, nel Conte di Carmagnola, tra personaggi «istorici» e «ideali»: in un’opera d’arte riuscita tutti i personaggi, per Goethe, sono ideali. Quando Goethe approverà l’Adelchi, dirà esplicitamente che l’anacronismo è inerente ad ogni opera di poesia, che il poeta ha il «diritto inalienabile» di «trasformare» la storia ovvero di «cambiare la storia in mitologia». Manzoni, che è scontento, come scrive a Fauriel, del « couleur romanesque » di Adelchi, è su una strada completamente diversa. Ed è qui che si innesta la celebre riserva di Goethe rispetto alla « escrescenze storiche » dei Promessi Sposi, che, affermava, avrebbero potuto essere « assai facilemente evitate ». Manzoni non è d’accordo con Goethe. Non solo non toglierà le « escrescenze » nella seconda edizione dei Promessi Sposi, ma affiancherà al romanzo un’opera di analisi e riflessione su fatti esclusivamente storici, e in cui l’invenzione non ha spazio : la Storia della colonna infame. In realtà già i Promessi Sposi non sono per Manzoni un’opera in cui la poesia assorbe in se stessa la storia, come avrebbero voluto Goethe ma anche (paradossalmente, se si pensa all’esplicita sua polemica con Goethe) il Foscolo dell’articolo Della nuova scuola drammatica (1826), che affermava : « il segreto, in qualunque lavoro dell’arti d’immaginazione, sta tutto nell’incorporare e identificare la realtà e la finzione in guisa che l’una non predomini sovra l’altra, e che non possano dividersi, né analizzarsi, né facilmente distinguersi l’una dall’altra ». Lasciare nell’opera capitoli esclusivamente e distintamente « storici », vuol dire proprio non considerarli « escrescenze » ma elementi essenziali alla dialettica vitale del romanzo. Dopo la ‘scottatura’ dell’Adelchi, Manzoni è riuscito, nel romanzo, a realizzare una struttura che permette la distinzione dei piani ed è anzi giocata proprio su tale distinzione. Pur con la riserva che abbiamo indicato, Goethe, presentato nel De l’Allemagne come l’autore di un’arte critica e autoriflessiva, e anche di un’opera « étonnante » come il Faust (la definizione di Mme de Staël ritorna nella manzoniana Lettre à Monsieur Chauvet), « étonnante » proprio in quanto non classificabile rispetto ai generi conosciuti, saprà riconoscere nei Promessi Sposi un « romanzo » superiore a « tutto ciò che noi conosciamo in questo genere », aggiungendo che l’impressione che si riceve alla sua lettura « è tale che si passa continuamente dalla commozione alla meraviglia, e dalla meraviglia alla commozione : così che non si esce mai da uno di questi due grandi effetti. Credo che non si possa andare più in là ». L’autore tedesco inserisce in realtà i Promessi Sposi nel genere del romanzo storico alla Walter Scott, anche se indica apertamente come essi si stacchino dal modello per un fondamento storico più solido e un’analisi psicologica più fine.

Puškin e Manzoni

Per Puškin, che a livello drammaturgico privilegiava (e riprenderà, nel Boris Godunov) la lezione shakespeariana rispetto al modello francese della tragedia regolare, e che per il romanzo molto stimava la lezione scottiana, l’incontro con i Promessi Sposi sembrerebbe essere l’incontro con qualcosa di profondamente innovativo rispetto al modello scozzese.

Rey-Dussueil, l’autore della traduzione francese dei Promessi Sposi letta da Puškin, scriveva, nel suo Essai sur le roman historique premesso al lavoro, che « sir Walter Scott passe pour l’histoire pour arriver au roman », mentre « c’est par le roman que M. Manzoni arrive à l’histoire » (cfr. Rey-Dussueil, Essai sur le roman historique et sur la littérature italienne, in Les Fiancés, histoire milanaise di XVIIe siècle, Ch. Gosselin, 1828, p. XVIII ; il saggio fu pubblicato in versione italiana sul periodico milanese « La Vespa », 1828, I trimestre, pp. 225-230 e 276-279). Poco prima, descrivendo il nuovo modo proprio a Manzoni di unire « romanesque » e « historique », senza cedere a un « romantique absurde », commentava : « Peut-être ce système de composition paraîtra-t-il singulier à la première lecture ; peut-être ce mélange de réalité et de fiction excitera-t-il quelque surprise. Mais – continuava – l’ouvrage de Manzoni n’est point un roman : c’est un livre. Avant de juger, il faut bien étudier le rapport intime qui existe entre toutes les parties, le grand art qu’a présidé à sa composition». Il traduttore sembra quasi far eco alle riflessioni esplicitamente schlegeliane sulla forma « organica e non meccanica » di una nota lettera manzoniana a Diodata Saluzzo del novembre 1827 (cfr. A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, Mondadori, 1970, 3 tomi, t. III, p. 448). In realtà la mossa strategica consegue alla sensazione di essere difronte a qualcosa per cui la parola « roman » si rivela ormai inadeguata. Lamartine, scrivendo da Firenze a Manzoni il 29 ottobre 1827, non aveva detto qualcosa di molto differente quando aveva dichiarato : « Je ne vous ferai qu’un reproche, c’est de n’avoir pas crée le genre où vous vouliez exercer un si beau et si puissant talent. Une autre fois faites-le. Sortez du Roman historique, faites nous de l’histoire dans un genre neuf. Vous le pouvez : vous l’avez fait, votre troisième volume est cela même » (A. Manzoni, Carteggio, a cura di G. Sforza e G. Gallavresi, Hoepli, 1912 (vol. I) e 1921 (vol. II), vol. II, p. 315). La recensione anonima, ma attribuibile con certezza a Puškin, sul n° 5 della « Literaturnaja gazeta » (1830), a un romanzo storico di Zagoskin, dopo aver affermato che « nel nostro tempo, con la parola romanzo intendiamo un’epoca storica svolta in un’opera di fantasia », osserva : « Walter Scott s’è tirato dietro un’intera legione d’imitatori. Ma come sono rimasti tutti indietro rispetto al gran mago scozzese ! ». Sono interessanti le varianti autografe che precedono la versione definitiva dell’ultima frase: « Ma, a parte l’americano Cooper e l’italiano Manzoni, come si sono allontanati dal mago scozzese! », e ancora : « l’americano Cooper e l’italiano Manzoni, allontanandosi dalla forma da lui adottata, più di tutti si sono avvicinati al suo spirito ». Puskin decide di lasciar cadere, nella versione a stampa, il riferimento a Cooper e a Manzoni proprio perché non li considera parte della « legione d’imitatori »; e infatti insisteva sulla loro lontananza rispetto alla forma scottiana e sulla loro vicinanza al vero spirito dello scrittore scozzese. Per quanto riguarda Manzoni, stando al rilievo di Rey Dusseuil e alla premessa dello stesso Puškin, non si trattava nemmeno più di un « romanzo ».

Che Puškin non fosse per considerare secondario alla poesia e facilmente in essa riassorbibile il problema « storico » è dimostrato come si sa dal fatto che la stesura della Figlia del capitano (1836) viene da lui interrotta per lavorare alla Storia della rivolta di Pugačev. Una volta finita la redazione del saggio storico, Puškin riprenderà e finirà il romanzo. Anche per Manzoni, insisterei sulla convivenza, più che sull’opposizione, tra Promessi sposi e Storia della colonna infame. Aggiungendo che quest’ultima presenta un aspetto storico importante sì ma specifico: altri aspetti del Manzoni storico del Seicento sono nel romanzo, uniti e distinti dal racconto d’invenzione. Ma su questo più avanti.

Manzoni e Scott

Nella Parigi del secondo soggiorno manzoniano (dal settembre 1819 al luglio 1820), la discussione su Walter Scott ferve, basti pensare alla recensione di Augustin Thierry all’Ivanhoe, appena uscito in traduzione francese, comparsa sul « Censeur Européen » del 29 maggio 1820 (cfr. Sur la conquête de l’Angleterre par les Normands. A propos du roman « Ivanhoe », poi in A. Thierry, Dix ans d’études historiques, Just Tessier, 1859). Manzoni non è entusiasta dell’Ivanhoe. Trova « difettosa », perché non abbastanza rigorosa, la rappresentazione di avvenimenti e personaggi storici (come, per esempio, scrive a Fauriel, quella di Riccardo Cuor di leone: cfr. lettera del 3 novembre 1821, in Carteggio Manzoni-Fauriel, a cura di I. Botta, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000). I fatti storici a cui si fa allusione non si possono trasformare se torna comodo ma devono essere conservati nella loro integralità (cfr. lettera di E. Visconti a V. Cousin del 30 aprile [1821] in Ermes Visconti. Dalle lettere : un profilo, a cura di S. Casalini, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2004, pp. 59-61). Ma anche la parte inventata deve diventare per Manzoni così verisimile da poterla credere una storia vera appena scoperta (cfr. ancora la lettera del 3 novembre 1821). Solo la prima introduzione al Fermo e Lucia confesserà, del resto, che il « romanzo » non è « storia vera » ma è « storia … inventata », « una esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati ». Dalla seconda introduzione, del 1823, a quelle del 1827 e del 1840, si farà solo allusione alla storia « scoperta e rifatta », dove il « rifatta » allude esclusivamente al piano formale, non a quello dell’invenzione. La centralità del vero impone un’unione della narrazione sotto il segno della « storia ». Essa è in realtà un misto di storia e d’invenzione, ma quest’ultima è talmente verosimile che può essere presentata anch’essa come « storia ». Ciò non toglie che, ai lettori del terzo e ultimo volume dei Promessi Sposi del 1827, balzi agli occhi l’abbandono per un tempo inconsuetamente lungo dei « personaggi » e dunque della « favola » per l’esercizio di una scrittura esclusivamente « storica ».

L’interpretazione di Gino Tellini

Se la ricostruzione del libro di Mario Puppo, trent’anni fa, si limitava agli interventi teorici manzoniani relativi a rapporto storia-invenzione, indicandone con grande chiarezza i momenti e i motivi, Gino Tellini, in quello che è mi pare il riferimento bibliografico complessivo più recente e autorevole su Manzoni, li inserisce nel quadro più ampio di tutta la produzione manzoniana e « si lancia » in una interpretazione dell’articolarsi, in essa, di tale rapporto, suggestiva anche se non completamente convincente (cfr. M. Puppo, Poesia e verità. Interpretazioni manzoniane, D’Anna, 1979, pp. 23-40 e G. Tellini, Manzoni, Salerno Editrice, 2007, pp. 281-293). L’aprirsi dello spazio dell’invenzione, nel romanzo, coinciderebbe con lo spazio della speranza e della militanza cristiana per il bene, contro la negatività della storia (cfr. G. Tellini, cit., pp. 152-153). Quando quest’« ottimistica spinta propulsiva » (p. 153) verrà meno, verrà meno anche la sintesi di storia e d’invenzione, e l’autore ripiegherà sull’esclusiva scrittura storica della Storia della colonna infame, per la quale Tellini parla di «sguardo incupito e senza fiducia di riscatto», di « fede del credente » che « si arrovella e si tortura nell’analisi spietata di ‘passioni perverse’ » (p. 263). Penso che il bene, in realtà, sia anche nella storia e non solamente nell’invenzione (che comunque Manzoni vuole verosimile). Ne prenderei per prova proprio un passo del Fermo diversamente utilizzato da Tellini : « or quanto più un po’ di riposo nella considerazione di lui [Federigo Borromeo] debb’essere giocondo a noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità, dalla quale certamente avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento » (cfr. Fermo, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mondadori, 1954, tomo II, cap. XI, p. 270). Tellini sottolinea come lo scrittore eserciti il suo diritto « alla speranza e alla denuncia » e poi prosegue limitando un po’ troppo, penso, la prima alla seconda: « speranza che non vada smarrita un’imperterrita denuncia di storture, di irresponsabilità, di errori, di colpe, di orrori ». Proprio a questa inchiesta-denuncia spingerebbe « il desiderio del vero ». Penso che la speranza risieda, per Manzoni, anche nella presenza, in quello che si osserva, di qualcosa che è nel mondo ma non è del mondo… Si veda, aldilà dell’esempio appena citato di Federigo Borromeo, la forza storica positiva dei cappuccini e l’operante carità cristiana nel lazzeretto. Si veda come l’Innominato convertito rappresenti la terza via possibile tra il « far torto » e il « patirlo » del dilemma d’Adelchi (cfr. Adelchi, V, 353-354). Quanto alla Storia della colonna infame, nessun dubbio che si tratti di un testo drammatico, ma il senso dell’operazione manzoniana, nella sua inchiesta sul male, è di arrivare alla dimostrazione che può essere evitato, che, come dice lo scrittore nell’introduzione, l’uomo non è « spinto invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio ». In tal modo lo « sguardo » manzoniano può non restare senza « frutto » e può anche « esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti, consolante », come ancora si esprime l’introduzione dell’autore all’operetta. Questo secondo tipo di « speranza », ancora una volta, non è legato all’« invenzione », ma consegue da una lucida indagine sul « vero » e porta all’affermazione etica della possibilità di una responsabile scelta del bene.

L’invenzione e la storia

In definitiva, penso non sia corretto pensare a una dialettica tra invenzione e storia come dialettica tra speranza e esperienza del male. Ogni momento del percorso manzoniano è basato sulla convinzione che l’uomo aspira alla conoscenza e al vero, e che «il vero solo è bello». Che nella struttura mista del romanzo storico il vero si componga di «vero storico» e di «verosimile» e che nella Storia della colonna infame la scrittura si concentri esclusivamente sul «vero storico» non comporta alcun cambiamento nella convinzione manzoniana che l’utilità della scrittura sia legata alla sua «verità», o meglio alla relazione di attenzione critica che essa comporta nei confronti della verità. Pubblicando, nell’edizione definitiva del romanzo, in un unico volume I Promessi Sposi e l’inedita Storia della colonna infame, Manzoni presenta ancora una volta, insieme, storia e invenzione: solamente, rispetto all’edizione del 1827, la componente storica, che già allora aveva colpito i lettori per la sua importanza, si ritrova ad essere, con la parte nuovamente aggiunta, quantitativamente aumentata, posta in strategica funzione conclusiva (come ormai da più parti è uso sottolineare, la parola «Fine» si legge solamente in conclusione della Storia della colonna infame), e anche, sempre per la parte aggiunta, visibilmente distinta dall’invenzione (in realtà vari espedienti, come le evocazioni degli studi utilizzati nelle parti storiche dei Promessi Sposi, permettevano già in quelli una distinzione tra le due componenti). Manzoni ha anche voluto, nelle immagini attentamente inserite (rinvio qui all’edizione critica a mia cura dell’edizione definitiva, Salerno Editrice, 2006), mettere sotto gli occhi del lettore un’iconografia il più possibile attendibile e d’epoca dei personaggi storici evocati; raffigurare anche i personaggi d’invenzione con attenzione agli aspetti quotidiani e materiali del tempo in questione (si pensi agli abiti di don Rodrigo, di Renzo, di Lucia, dei bravi…); documentare lo stato di edifici e monumenti, al suo tempo spesso mutati se non addirittura abbattuti; esporre infine alla decifrazione del lettore alcuni documenti utilizzati (come il manoscritto latino del De pestilentia, nel romanzo o la postilla manoscritta originale di Pietro Verri agli atti del processo agli untori, nella Storia: due casi di riproduzione diplomatica del documento, fedele agli auspici di una nuova storia filologicamente ineccepibile).

Discorso sul romanzo storico e Storia della colonna infame: una questione di date

C’è in realtà dietro anche una questione di date: Tellini dice che il Discorso sul romanzo storico è la «premessa teorica della Colonna infame» (p. 264) e, per far questo, sottolinea che il Discorso, édito nel 1850, fu «redatto a partire dal 1828, dapprima come “lettera aperta” indirizzata a Goethe». In realtà alla redazione finale del Discorso Manzoni lavora fra il 1849 e il 1850 (una testimonianza del figlio Pier Luigi informa che ci lavorava « accanitamente » nel settembre 1849). Anche il testo della Colonna infame, comunque, non si può ancorare solo alla data della redazione definitiva del 1842, se è vero che è preparato fin dall’Appendice storica sulla colonna infame, composta nel 1824. Anche questa eventuale obiezione è risolta da Tellini, che illustra come l’Appendice storica sia ancora un testo misto di « storia » e d’« invenzione », diversamente dal nuovo organismo compositivo della Colonna. Le date potrebbero dunque anche tornare. Ma resta l’impressione che l’assimilazione tra la Colonna e il Discorso sia un po’ troppo spigliata. Ovvero che, ancora una volta, la focalizzazione del discorso di Tellini faccia l’economia degli « scritti minori », qui il Discorso, nella loro interna coerenza. Voglio dire che l’equilibrio finale raggiunto nel Discorso è conseguito solo con il contemporaneo approdo alle conclusioni rosminiane del Dell’invenzione, nato per esplicita confessione di Manzoni dal lavoro per il Discorso, e redatto tra il 1849 e il 1850. La Colonna è sicuramente, quando esce nel 1842, una « storia » da cui l’« invenzione » è assente, ma non abbiamo elementi per affermare che la sua premessa teorica coincida già con il Discorso del 1850, anzi, saremmo portati ad affermare di no. Quello che conta, comunque, è che Manzoni presenta ancora una volta al pubblico, con l’edizione definitiva e illustrata del 1840-1842, un testo formato di « storia » e d’« invenzione », in cui, solamente, come dire, il ‘tasso’ di storia è più alto.

Il Discorso sul romanzo storico : « distinguere » le integrazioni

Il problema sul quale il Discorso sul romanzo storico si sofferma con grande lucidità e chiarezza è quello della « distinzione » tra le due componenti, la storia e l’invenzione.

Manzoni, all’altezza del Discorso, continua ad esser fedele a una concezione della storia che vada aldilà della storia politica per una conoscenza « più ricca, più varia, più compita » (cfr. A. Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, premessa di G. Macchia, introduzione di F. Portinari, testo a cura di S. De Laude, con appendici a cura di F. Danelon, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000, p. 3) di un’epoca, concezione che aveva sostenuto il periodo di grande consenso (si pensi agli scritti di Thierry) intorno ai romanzi storici. L’obiettivo di quest’ultimi, spiega nel Discorso un interlocultore immaginario, riguardava «Costumi, opinioni, sia generali, sia particolari a questa o a quella classe d’uomini; effetti privati degli avvenimenti pubblici che si chiamano più propriamente storici, e delle leggi, o delle volontà de’ potenti, in qualunque maniera siano manifestate; insomma tutto ciò che ha avuto di più caratteristico, in tutte le condizioni della vita, e nelle relazioni dell’une con l’altre, una data società, in un dato tempo» (Ibid., p. 4). Tale obiettivo continua ad essere da Manzoni approvato. È il modo di raggiungerlo, cioè il componimento misto di storia e d’invenzione, che è ormai ritenuto non idoneo. Proprio perché in esso la ‘mistione’ impedisce la necessaria distinzione tra i dati di fatto e le loro necessarie integrazioni. Manzoni esorta la storiografia a prendere in carico questa funzione più vasta che, aldilà del « corso politico d’una parte dell’umanità, in un dato tempo », ci informi sul « suo modo d’essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici ». Per questo invita gli storici a una ricerca e osservazione dei « materiali », « con un proposito più vasto e più filosofico », a frugare « ne’ documenti di qualunque genere », facendo « diventar documenti anche certi scritti, gli autori de’ quali erano lontani mille miglia dall’immaginarsi che mettevano in carta de’ documenti per i posteri» (Ibid., pp. 19-20). Quello che lo storico potrà fare, e che non veniva fatto nel «componimento misto», è la segnalazione delle congetture e delle integrazioni.

È interessante il tessuto di immagini che Manzoni usa per illustrare il suo discorso. L’«intento» degli autori di romanzi storici è spiegato con l’immagine eloquente del passaggio dalla «carta geografica» alla «carta topografica», come emblemi rispettivi del «racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere» e di una «storia più ricca, più varia, più compita» (Ibid., p. 3 ; non è mai stato rilevato, ed è mi pare significativo, come l’immagine della «carta», e anzi l’idea della comparazione tra due tipi diversi di carta, sia già in Bossuet, nell’Avant-Propos del Discours sur l’histoire universelle (1681), là dove, in’ottica opposta a quella appena descritta, si presentano le caratteristiche e l’utilità dell’«histoire universelle» : «Cette manière d’histoire universelle est, à l’égard des histoires de chaque pays et de chaque peuple, ce qu’est une carte générale à l’égard des cartes particulières. Dans les cartes particulières vous voyez tout le detail d’un royaume, ou d’une province en elle-même: dans les cartes universelles vous apprenez à situer ces parties du monde dans leur tout; vous voyez ce que Paris ou l’Île-de-France est dans le royaume, ce que le royaume est dans l’Europe, et ce que l’Europe est dans l’univers» : cfr. [J. B.] Bossuet, Discours sur l’histoire universelle. Suivi d’une table analytique, Paris, Firmin Didot, 1855, p. 19). Si tratta in altre parole di applicare a un punto più preciso e circoscritto della realtà una sorta di «lente» d’ingrandimento, come spiegava Giambattista Bazzoni nell’introduzione al suo romanzo storico Il Falco della rupe, del 1831 (cfr. Documenti e prefazioni del romanzo italiano dell’Ottocento, a cura di R. Bertacchini, Studium, 1969, pp. 32 sgg.). Ora Manzoni è cosciente che non solo il romanzo storico ma anche la storia deve servirsi, accanto al vero, del verosimile, ove si tratti di dover «congetturare aldilà di quello che si può sapere». In una nota dell’History of the Decline and Fall of the Roman Empire, Gibbon confessava: «Il dovere verso me stesso e la verità storica mi obbligano a dichiarare che in questo paragrafo alcune circostanze non sono fondate che sulla congettura e sull’analogia. La durezza della nostra lingua mi ha talvolta costretto a deviare dal condizionale all’indicativo» (E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it. di G. Frizzi, introduzione di A. Momigliano, II, Einaudi, 1967, p. 1166, nota 4; nell’edizione francese preparata da Guizot, Paris, Maradan, 1812, la nota presenta la sola prima frase. Sulla lettura del capolavoro dello storico inglese da parte di Manzoni cfr. il mio Les régions de l’aigle et autres études sur Manzoni, Peter Lang, 2005, pp. 263-264). Ma la storia può risolvere questo problema di scrittura e di linguaggio esponendo il verisimile come tale, «e distinguendolo così dal reale», interrompendo il «racconto» (che invece, nel romanzo storico, non era interrotto ma per l’appunto integrato da un altro analogo racconto, basato però sul verosimile e non sul vero) per dare lo spazio a qualcosa esplicitamente presentata come «induzione». Lo storico – ecco l’immagine che Manzoni impiega – «Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta di una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità» (cfr. ed. De Laude, p. 17).

Storia e invenzione nel Discorso sul romanzo storico

Quanto queste riflessioni di metodologia storiografica siano interessanti e attuali ho cercato di dimostrare in un vasto lavoro su Manzoni storico di prossima pubblicazione (cfr. intanto i due volumi degli Scritti storici e politici di Manzoni da me éditi nei “Classi italiani” della Utet, 2012), ma è significativo, direi, che a questi testi abbia fatto riferimento anche Carlo Ginzburg, in alcune pagine ora raccolte in Il filo e le tracce, Feltrinelli, 2006. L’importante, rispetto a un’erronea interpretazione vulgata (Puppo e, ora, Tellini), è ribadire che la storia non si riduce, per il Manzoni del Discorso, al «vero» positivisticamente inteso con l’espulsione del «verosimile». In questo senso andrebbe la testimonianza della relazione, édita da Puppo, di una visita di Karl Witte a Manzoni, nel 1831. Ma gli scritti di Manzoni, all’altezza del Discorso, affermano indubitabilmente che Manzoni credeva in una necessaria e fisiologica unione di filologia e filosofia, fatti e interpretazione, storia «positiva» e «verosimile». Quanto all’«invenzione», anche prima della fondazione «rosminiana» del dialogo ad essa dedicato (dove è esplicitamente respinto l’uso del verbo «creare», per il riconoscimento etimologico che «invenire» è «trovare» qualcosa che già esiste «in mente Dei»), non è mai stata per Manzoni libera e gratuita costruzione fantastica ma sempre operazione a servizio della «verità». Nel romanzo storico e nella poetica ad esso relativa, essa si poneva a complemento della storia «ufficiale», in un progetto di narrazione unitaria. Nel Discorso, si decreta la fine di un tipo di narrazione unitaria (appunto «i componimenti misti di storia e d’invenzione») per una storia che sappia andar al di là della storia «ufficiale» con i suoi mezzi e non con mezzi allotri, affiancando ai fatti positivi l’interrogazione congetturale di ben più ampie serie documentarie. L’« invenzione », se vogliamo ancora chiamarla così, non è sparita dal campo storico, ma è dichiarata e definita più propriamente come «induzione» congetturale. D’altro canto, l’«invenzione» poetica e più generalmente artistica, riceve una diversa ma stabile fondazione. Perché « stabile »? Perché Manzoni ha sempre pensato che il «bello», il «diletto» estetico, è tale solo se c’è «assentimento», «acquietarsi» della «mente» «in un’idea» (così scriveva già in una prima stesura della Lettera sul romanticismo). Il Discorso afferma in forma sintetica (ma rinviando per dettagli al Dell’invenzione) che «il vero, oggetto dell’arte, è un vero differente, anzi molto differente dal reale, ma un vero visto dalla mente per sempre, o, per meglio dire, in un modo irrevocabile». Si noti la precisione: la nostra mente non può vederlo e non lo vedrà «per sempre» ma il bello riposa su una realtà che si dà alla nostra mente per «irrevocabile», con una certezza, si potrebbe aggiungere giocando sui termini, che va aldilà della limitata dimensione del «certo» per attingere al Vero.

NOTA

Questo intervento è stato pubblicato in Contatti passaggi metamorfosi. Studi di letteratura francese e comparata in onore di Daniela Dalla Valle, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010.

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