Intervista a Paolo Zardi. XXI Secolo
a cura di Morena Marsilio
1. Nella tradizione letteraria italiana del Novecento ci sono alcune figure di intellettuali a cavallo tra scienza e letteratura o “stregate dalla scienza”: dal chimico Primo Levi all’ingegner Gadda, dallo Sciascia che indaga il mistero della scomparsa di Majorana all’esperto di botanica Calvino.
La prima domanda che intendo rivolgerti riguarda proprio la tua figura “ibrida” di professionista della tecnica e delle narrazioni: ti senti più ingegnere o più scrittore o credi che l’uno alimenti l’altro e viceversa? Senti di poter annoverare tra gli autori che ho citato qualcuno dei tuoi modelli?
Gli autori che hai elencato hanno avuto, verso la scienza, rapporti piuttosto diversi: prendendo in considerazione solo i primi due, Gadda odiava la sua professione di ingegnere, che infatti abbandonò appena gli fu possibile, mentre Primo Levi ha continuato a lavorare come direttore di stabilimento fino al giorno della pensione. Questa differenza si esprime anche nella loro scrittura: pirotecnica, talvolta anarchica, in Gadda, strutturata e coerentemente organizzata per Levi. Se dovessi scegliere un modello tra i due, forse guarderei al secondo, sebbene riconosca al primo un talento superiore.
Per quanto riguarda la mia esperienza personale, dubito che lo scrittore alimenti l’ingegnere – anzi, quando può lo ostacola con la sua voglia di libertà; credo invece che la mia inclinazione verso le scienze, che va molto al di là della mia professione di ingegnere informatico, caratterizzi in modo evidente la mia scrittura, non solo dal punto di vista della precisione con la quale tendo a raccontare i dettagli tecnici, ma anche per quanto riguarda i temi affrontati: ci sono racconti che nascono dalla lettura di libri di biologia, altri da spunti offerti dalle scienze cognitive.
2. Il racconto è, nella narrativa contemporanea, una forma di espressione molto diffusa; mi riferisco, in particolare, alle antologie e alle raccolte d’autore che la casa editrice minimum fax ha curato negli ultimi 10 -12 anni, nonché all’accoglienza che la critica ha fatto di questo genere letterario: Ferroni lo considera la forma più «adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica e espressiva» .Nella tua produzione annoveri una lunga serie di racconti, molti dei quali antecedenti alla scrittura dei romanzi: ti ritrovi nella dichiarazione di Ferroni? Credi che la forma breve del narrare sia stata per te una sorta di palestra che ti ha permesso di approdare al romanzo o li consideri due generi di scrittura diversa e indipendente l’una dall’altra? Quale senti più congeniale alla tua poetica?
Sono convinto che esista una tensione tipicamente umana verso la narrazione in generale, che si attua, poi, in mille modi diversi, e non necessariamente attraverso le parole. Limitandosi alla scrittura, la scelta è ampia: si va dalla poesia, che nell’ultimo secolo si è aperta a infiniti modi espressivi, al romanzo, passando per il racconto breve e la novella. Nel mio caso, posso dire di avere esplorato tutte queste forme, trovando in ciascuna delle specificità uniche.
Non sono convinto che il racconto sia più adatto a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, come dice Ferroni – paradossalmente, credo che il romanzo abbia molti più mezzi a disposizione per questo tipo di rappresentazione. A mio parere, la differenza tra racconto e romanzo è molto più banale: con il primo si racconta un’esperienza rivelatoria, un’epifania, un momento di grazia o un crollo improvviso, uno schianto, un’illuminazione, con il secondo una trasformazione, in senso evolutivo o involutivo. Ci sono perciò storie che richiedono la forma del racconto e altre che invece hanno bisogno della complessità del romanzo per essere raccontate.
Dal punto di vista dell’inclinazione personale, credo di essere più autore da racconti – anche quando scrivo romanzi, mi accorgo di non saper sfruttare fino in fondo tutta la potenza che la sua struttura e la sua ampiezza consentirebbero – ma la mia passione per la scrittura non conosce limiti di genere.
3. Il romanzo che ti ha fatto conoscere a un pubblico di lettori più vasto e che ti ha fatto entrare nella rosa dei papabili candidati allo strega 2015 è XXI secolo, un romanzo distopico in cui racconti un paese in piena dismissione, sotto assedio, in cui alla lotta di classe si è sostituito l’odio tribale. Da dove trae origine questa immagine disillusa e cupa di una provincia devastata dove ciò che conta per ciascuno è la propria sopravvivenza?
Quando si scrive, la cosa più onesta che si può fare è provare a descrivere l’effetto che il mondo produce su di noi. La generazione a cui appartengo, che ha formato la propria idea di società tra gli anni settanta e gli anni novanta – una società in perenne crescita economica, con un futuro di ricchezza a portata di mano – si è trovata del tutto impreparata ad affrontare gli anni della crisi. Ad un certo punto, è come se fosse iniziato un assedio nei confronti delle nostre vite. C’erano fondi di investimento americani che fallivano, e tre mesi dopo un’azienda di viti in alluminio chiudeva a Montebelluna – e le due cose erano strettamente collegate tra di loro, ma secondo una logica completamente fuori dal nostro controllo e perfino dalla nostra comprensione. A questa difficoltà economica si somma la quasi totale assenza di modelli in grado di interpretare e spiegare questo momento. La sensazione diffusa è che il mondo sia questo, e che non ce ne siano altri possibili – anche questo, un fatto nuovo, sconosciuto nel novecento dove la contrapposizione tra capitalismo e comunismo, e le loro molteplici gradazioni, e le loro ottimistiche illusioni, fornivano speranza a milioni di persone.
Questo disagio, al quale nessuno era preparato, è ciò che molti uomini della mia età hanno vissuto ogni giorno, dal 2008 in poi. XXI secolo è un romanzo distopico, ma le cose stanno andando oggettivamente peggio di vent’anni fa. Mi sono limitato ad amplificare, e a rendere concreta, la paura che ci ha investiti, con tutte le sue drammatiche conseguenze.
4. La famiglia rappresenta nel tuo romanzo l’unica isola di solidarietà possibile, per quanto anche questa possa essere minacciata e messa in discussione dal suo stesso interno. Il “familismo”, tuttavia, specie se contrapposto alla cittadinanza e alla dimensione collettiva, è stato anche considerato uno dei lati “oscuri e complici degli italiani” (Rea). Vuoi soffermarti su questo aspetto del tuo romanzo che apre uno spiraglio, l’unico, alla speranza pur non preludendo a una ricomposizione sociale?
In XXI secolo la famiglia non rappresenta un’alternativa alla dimensione collettiva, ma il suo ultimo residuo. Ne Le particelle elementari Houllebecq porta avanti una provocazione che mi ha sempre incuriosito: l’attacco che i movimenti nati nel 1968 hanno portato nei confronti della famiglia rappresenta il punto più alto raggiunto dalla civiltà dei consumi, che ha cercato di spazzare via l’unica comunità comunista ancora in piedi. Al di là delle semplificazioni, sono convinto che attualmente la famiglia, pur con i suoi limiti, rappresenti la nemesi del modello culturale del ventunesimo secolo, per il quale “Life is now”. La famiglia richiede progetti di lungo periodo, incompatibili con una società ossessionata dal consumare tutto e subito. Se la dimensione collettiva tipica del novecento, il secolo dei movimenti di massa, dei partiti, dei sindacati, è finita, non credo che la colpa vada addebitata alla famiglia.
5. Il narratore del romanzo si sofferma spesso su scorci di un paesaggio urbano deturpato, inondato da una pioggia incessante, abbruttito dalla presenza di rifiuti, di cassonetti bruciati o in fiamme, di caseggiati saccheggiati. Credi che la tua scrittura possa definirsi realistica, nonostante l’accoglienza di elementi tipici del genere fantascientifico?
La scrittura di XXI secolo ha conosciuto una prima stesura, abbandonata dopo un centinaio di pagine, dove il personaggio principale era l’amministratore delegato di un’azienda di informatica e gli eventi si svolgevano nel 2012, a Milano, in un ambiente che ho avuto modo di conoscere piuttosto bene per il mio lavoro. Quella versione era realistica: le cose che raccontavo corrispondevano alla realtà che mi circondava. A un certo punto, però, mi sono fermato. Quello che stavo scrivendo non mi convinceva. Ho buttato via tutto e sono rimasto cinque mesi – cinque mesi piuttosto dolorosi – senza scrivere una riga. Il risultato di quella riflessione può essere riassunto così: uno scrittore ha il diritto di inventare il mondo di cui ha bisogno per raccontare la propria storia. Faccio una piccola digressione. Durante le riprese del film Il maratoneta ci fu uno scambio di battute tra Dustin Hoffmann, uno dei prodotti più genuini dell’Actor’s Studio, e Lawrence Olivier. Quest’ultimo si era incuriosito vedendo il suo collega effettuare lunghe corse prima di una scena. «Perché lo stai facendo?» gli chiese. «Perché in questa scena il personaggio principale ha appena finito di correre». Olivier lo guardò stupito: «E non era sufficiente recitare?»
Ecco, credo che il realismo a tutti i costi finisca per mortificare uno scrittore. Ciò che chiede il lettore, per poter sospendere la propria incredulità, per accettare di arrabbiarsi, commuoversi o ridere per delle persone che non esistono, è la semplice verosimiglianza. In XXI secolo ci sono elementi impossibili – già il fatto che si svolga nel futuro potrebbe essere un problema, dal punto di vista del realismo – ma tutto accade in un mondo che conosciamo bene, un luogo in cui ogni singolo dettaglio è riconducibile all’esperienza quotidiana.
6. Se pensi a una lettura del tuo romanzo agli studenti delle scuole, come ti piacerebbe che fosse attraversato da studenti e insegnanti per far sì che ne incontrassero davvero il senso?
Non è semplice, per me, definire il senso del mio romanzo: ci sono diversi temi che si intrecciano, taluni in modo evidente, come quello della possibile involuzione della società occidentale, o quello della famiglia come luogo di opportunità e non di costrizione, altri più sotterranei, ma per me altrettanto centrali – penso alla riflessione sull’imperfezione intrinseca del linguaggio, incapace di garantire una rappresentazione corretta della realtà, e più in generale sull’impossibilità di definire la realtà stessa, oppure al condizionamento ineludibile che i corpi esercitano sulle vite delle persone. Ma più in generale, inviterei gli studenti e gli insegnanti ad avvicinarsi al romanzo senza cercare necessariamente una morale, o un insegnamento, o un punto di vista filosoficamente strutturato, ma lasciandosi coinvolgere dalla semplice storia di un uomo che cerca di sopravvivere in un mondo complicato – un’esperienza universale in cui ciascuno di noi può riconoscersi.
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