Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

La trasformazione di un mito: Robinson da Defoe a Vittorini

Pubblichiamo un estratto dal capitolo 3 del libro Elio Vittorini. Percorsi letterari per giovani nella tempesta, di Stefania Meniconi, per Lekton, ringraziando autrice ed editore.

«Chi cavalca la tigre non può scendere».

Elio Vittorini, Americana

Nel 1719 venne pubblicato a Londra un romanzo destinato a diventare un’icona della civiltà moderna. Ne era autore Daniel Defoe, il figlio di un macellaio che, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per tutta la vita (era stato commerciante e perfino spia), si era poi dato al giornalismo. Alla soglia dei sessant’anni, aveva scritto, e pubblicato con grande successo, il suo Robinson.

Vi si narra la storia di un uomo qualunque al quale, a detta dell’autore, capitano casi davvero straordinari: si tratta infatti di un giovane che, disobbedendo ai genitori, decide di partire da casa per la smania di vedere il mondo. […]

Si imbarca dunque su una nave in partenza per Londra (Robinson è nato a York) il primo settembre 1651: è solo il primo dei suoi interminabili viaggi.

Dopo aver rischiato più volte la vita e aver conosciuto tutti i pericoli del mare – naufragi, spaventose tempeste, contatti con popolazioni selvagge lungo coste inesplorate – trova finalmente una certa stabilità in Brasile, dove organizza una redditizia piantagione di tabacco e canna da zucchero. Vi rimane per quattro anni, durante i quali gli affari prosperano e si trova anche in ottimi rapporti con i suoi vicini.

Non pago però dei successi ottenuti e sentendo ancora una volta imperioso dentro di sé il richiamo dell’avventura, Robinson si mette di nuovo per mare e, in seguito a un altro naufragio, è costretto a rimanere per anni solo su un’isola deserta, lontano da qualsiasi forma di civiltà.

Ebbene, da buon inglese, non si perde d’animo, ma organizza la sua esistenza al meglio che può, usando ciò che il relitto della nave gli può offrire di ancora utile (riesce a recuperare anche penna, inchiostro e carta, e inoltre tre Bibbie) e il poco che trova sull’isola stessa. Impara a sfruttare le risorse naturali del pur inospitale territorio, acquisisce via via una straordinaria abilità artigianale, con la quale riesce a costruire non un riparo, ma addirittura due case in due parti diverse dell’isola, svariati strumenti utili per le sue attività, dei magazzini per le provviste accumulate e un’imbarcazione che gli permette almeno di costeggiare il suo regno. […]

La storia così narrata ha conosciuto una straordinaria diffusione: ne troviamo l’eco in molti scrittori e pensatori dei trecento anni successivi e il mito non è ancora tramontato, permettendo così a Robinson di diventare un’icona dell’Occidente. Anche i nostri scrittori classe 1908, Pavese e Vittorini, così attratti dalle letterature anglosassoni, non sono stati immuni dal fascino del romanzo di Defoe, traendone, come vedremo, suggestioni assolutamente originali.

[…]

Vittorini non si sottrasse al mito che stiamo analizzando, anzi si potrebbe dire che l’opera di Defoe abbia costituito una costante ricorrente nella sua opera e perfino nella sua biografia.

Innanzitutto, il Robinson è il primo libro che lo scrittore ricordava di aver letto nell’infanzia siciliana, nelle giornate passate accanto alle stazioni ferroviarie dove abitava con il padre capostazione:

In una di queste stazioni io ho letto sotto un ciuffo di canne il primo libro che mi fece grande impressione. Era una riduzione per bambini del Robinson Crusoe che recava disegnata sulla copertina la figura di Robinson chino a esaminare sulla sabbia dell’isola deserta l’orma del piede di un altro uomo. Le Mille e una notte, che pure mi fecero grande impressione, cominciarono un anno dopo1.

[…]

Pare quindi che, nella fantasia del bambino, la lettura del romanzo inglese avesse fatto sorgere sogni di avventura e fantastiche occasioni di gioco; per l’adolescente, poi, si trattò di desiderio di fuga e di viaggi; intatta restava però, in queste prime fasi della vita dello scrittore, la fascinazione proveniente da quell’antica opera del Settecento.

Ma è quello che Vittorini scrisse anni dopo, in articoli apparsi in rivista nel 1931, a farci comprendere meglio il valore mitico dell’immagine di Robinson, come era rimasta impressa nella mente dello scrittore sin da quand’era bambino:

Chi ha letto il Robinson, per quanto male e in pessime traduzioni, nella sua infanzia, sa rendersi conto, io spero, di ciò che affermo. Tagliato fuori dalla società, ridotto sopra un’isola deserta nelle stesse condizioni del primo uomo subito dopo la creazione, egli non si abbandona, come sarebbe naturale, a una vita interiore e contemplativa. Agisce, lotta per l’esistenza2.

Dunque il Robinson di Vittorini è associato, come quello di Pavese, alla fatica quotidiana; è un lavoratore che non si arrende. Anche lui lotta per l’esistenza. Anche per lui la vita è impegnativa. Tuttavia, pare di cogliere nelle righe dello scrittore siracusano un tono più baldanzoso di quello del suo coetaneo piemontese: pure qui c’è, com’è ovvio, un’isola deserta da ridurre all’obbedienza con il proprio lavoro, ma stavolta l’isola appare come il mondo subito dopo la creazione, meno palcoscenico tragico di una biblica condanna e più serbatoio di possibilità. Vittorini gli dona inoltre l’incanto della meraviglia, che lo trasforma senz’altro in una figura poeticamente positiva:

Il monologo quotidiano di Robinson della sua attività e della sua lotta per l’esistenza, è impostato sopra un terreno favoloso per il fatto in sé del naufragio e la condizione dell’isola deserta; e Robinson si muove, pensa, agisce, in un’atmosfera poetica quasi irreale, quasi meravigliosa, di un’ariostesca meraviglia, che dal continuo fascino dell’avventura dipende3.

Del resto, lo stesso Robinson nella versione originale non era privo di un certo felice e grato ottimismo. «Tutta la nostra scontentezza per quello che ci manca mi apparve chiaramente scaturire dalla mancanza di gratitudine per ciò che abbiamo»4 gli fa dire Defoe; infatti, coerentemente, il naufrago del romanzo inglese arriva alla seguente decisione: «Dopo aver debitamente perfezionato queste meditazioni, la feci finita e non fui più triste»5.

Non stupisce dunque che Vittorini, raccogliendo questo atteggiamento positivo del suo eroe, così commentasse (e siamo ancora in una rivista dei primi anni Trenta):

L’opera di De Foe […] suscita quasi l’impressione che sulla fine del seicento, tra le scoperte e le invenzioni di nuovi comforts, sotto l’infuriare di nuovi diluvi, pestilenze, e distruzioni di città a ferro e fuoco, si sia presentato per la seconda volta, agli uomini, il mondo come apparve creato appena, coi suoi beni infiniti e inoppugnabili, i suoi capitali provvidenziali, i suoi sacratissimi interessi, e i suoi problemi di morale economica e di lotta per l’esistenza. Nuovamente ci si trova di fronte a una natura inestimabile e a una provvidenza totale, ridotta magari a isola deserta, di fronte all’uomo isolato in this immense world, che pur è felice padrone e re nel proprio “home”6.

L’autore siracusano in queste righe chiaramente insiste ancora una volta su un’aurora del mondo appena creato, sulla verginità di un tempo e di uno spazio ancora tutti da dissodare, e quello che prevale non è un’atmosfera tragica, ma l’idea di un dono della provvidenza fatto di opportunità; l’uomo, più che solo, è isolato, eppure felice padrone e re nel proprio “home”.

Felice: Vittorini, dunque, descrive una situazione ben diversa dalla solitudine pavesiana. Il suo uomo alla fine si sente re e felice nella propria casa, dopo che in casa ha trasformato l’isola deserta della storia, della violenza, della devastazione. Per Vittorini stare su un’isola deserta, anziché essere esperienza della desolazione e della solitudine, era dunque un toccare con mano la potenzialità creativa e costruttiva dell’individuo.

1 E. Vittorini, Della mia vita fino a oggi raccontata ai miei lettori stranieri, cit., p. 5 (Secondo la ricostruzione di Massimo Grillo, questo avvenne quando i Vittorini abitavano presso la stazione di Butera).

2 E. Vittorini, Daniel De Foe (1731-1931), in «L’Italia letteraria», a. III, n. 21, 24 maggio 1931, p. 1.

3 E. Vittorini, Moll Flanders di Daniel De Foe. (Un grande libro dimenticato), in «Il lavoro», 12 luglio 1932, p. 3.

4 D. Defoe, op. cit., p. 150

5 Ivi, p. 153

6 E. Vittorini, Nonno Daniel, in «Circoli», a. I, n. 1, gennaio-febbraio 1931, pp. 99-106.

Comments (2)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Giulia Falistocco, Orsetta Innocenti, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore