Uomini o automi? Viaggio nella metamorfosi dell’umano
– Quattro voci filosofiche per riflettere sulla trasformazione dell’uomo in macchina-
La trasformazione dell’uomo in macchina è solo un’iperbole o un destino verso cui siamo incamminati? Chiariamoci: non si tratta di “transumanesimo”, con i suoi scenari di potenziamento biologico. Parlare di “meccanizzazione dell’umano” non significa immaginare mondi fantascientifici popolati da cyborg e intelligenze artificiali senzienti, ma guardare ai processi sociali concreti che, nel corso del Novecento e fino ai giorni nostri, hanno progressivamente ridotto l’essere umano a ingranaggio, strumento, funzione.
Dalla fabbrica novecentesca, dove il ritmo delle macchine dettava legge, fino al presente dominato da logiche di auto-ottimizzazione, l’essere umano ha subito una metamorfosi interiore, in cui la coscienza si piega alle procedure, l’obbligo viene interiorizzato e si traveste da libertà, la responsabilità si dissolve dietro l’anonimato della tecnica e della burocrazia. Si tratta di un processo che investe lavoro, relazioni e pensiero e che porta a chiedersi se il concetto di “umano” che conosciamo sia destinato a sopravvivere.
La questione ha una sua rilevanza nel pensiero filosofico contemporaneo. In questo articolo ci concentreremo in particolare su quattro voci che, da prospettive differenti, hanno saputo leggere i segni di questa trasformazione: Simone Weil, Günther Anders, Hannah Arendt e Byung-Chul Han.
Prima tappa: il soggetto-ingranaggio
La prima voce che incontriamo è quella di Simone Weil (Parigi, 1909 – Ashford, 1943), filosofa scomoda e radicale, che non si accontentò di pensare il lavoro, ma volle viverlo sulla propria pelle. Nel 1934 lasciò l’insegnamento per entrare come operaia nelle fabbriche Renault, convinta che solo l’esperienza diretta potesse restituire la verità della condizione operaia.
Il risultato di quella immersione è raccolto in La condizione operaia (1951), un insieme di appunti, lettere e saggi che documentano, in modo autentico e doloroso, la realtà del lavoro industriale negli anni Trenta. Weil descrive un mondo dove la razionalizzazione del lavoro e il taylorismo hanno disumanizzato l’operaio, riducendolo a semplice ingranaggio di un meccanismo impersonale, privato della possibilità di scegliere i gesti e i tempi del proprio corpo. Scrive Weil:
[Taylor] ha cercato solo i procedimenti più scientifici per utilizzare meglio le macchine che esistevano già; e non solo le macchine ma anche gli uomini … Il suo scopo era quello di togliere ai lavoratori la possibilità di determinare da soli i procedimenti e il ritmo del lavoro e rimettere nelle mani della direzione la scelta dei movimenti da compiere nel corso d’ogni singola operazione.
(Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di comunità, Milano 1965, p. 235).
La “frusta” burocratica, ovvero lo sfruttamento rivestito da apparenza scientifica, impone una “cadenza, più rapida del pensiero”, che “ vieta non solo la riflessione, ma persino la fantasticheria”. L’operaio è costretto a “uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto”.
E alla fine dell’umano non resta nulla, neanche la ribellione:
Tu, qui, non sei nulla. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e tacere … Non credere che ne sia conseguito in me un qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. Mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini, di non aver mai fatto altro che questo.
(Simone Weil, La condizione operaia, Edizioni di comunità, Milano 1965, p. 258).
Quel “mi pareva d’essere nata per…” sembra proprio indicare un processo inevitabile e necessario. L’operaia-Weil, nel suo annullamento, diventa così, marxianamente, l’emblema di un’intera umanità destinata ad accettarsi come docile ingranaggio di un sistema che la ingloba.
Seconda tappa: il soggetto-macchina
Con Günther Anders (Breslavia, 1902 – Vienna, 1992), dal mondo della fabbricalo sguardo si eleva alla società contemporanea tout court. Il suo libro, intitolato profeticamente L’uomo è antiquato (1956 e 1980), rappresenta una delle critiche più radicali alla civiltà moderna, segnata dalla bomba atomica e dal dominio della tecnica. Qui il problema non è più soltanto lo sfruttamento dell’uomo, ma la sua stessa obsolescenza.
Uno dei temi centrali dell’opera è quello di “vergogna prometeica”: l’uomo, confrontandosi con le macchine da lui stesso costruite – più efficienti, instancabili, meno fallibili – finisce per sentirsi inadeguato, antiquato. È un rovesciamento del mito prometeico: non più l’orgoglio per il dono del fuoco, ma la vergogna per non essere all’altezza delle proprie creazioni. Di qui nasce il desiderio di assomigliare alla macchina, di adattare il proprio corpo e la propria mente a una logica di efficienza e automatismo.
La prassi dell’uomo moderno, estromessa dall’orizzonte dell’agire responsabile, si ritrova confinata nella dimensione angusta del “fare”, inteso come gesto minimo, privo di reale consapevolezza. Emblema di questo nuovo soggetto-macchina è il pilota di Hiroshima (ricordiamo che Anders è stato anche autore di una celebre intervista a Claude Eatherly, il pilota che diede il via libera, dopo un volo di ricognizione, al bombardamento atomico del 6 agosto 1945):
L’asserzione che il pilota d’Hiroshima, allorchè premette il suo pulsante, agì suona inesatta. La sua fatica fu talmente minima che egli può avere avuto la sensazione di non aver fatto nulla. E, dato che il fungo di fumo che percepì non corrispondeva all’immagine delle persone bruciate vive, neppure vide l’effetto del suo fare … Supponiamo che quest’uomo disgraziato sia seduto davanti a noi. Che cosa avremmo da chiedergli? Evidentemente non: “L’hai fatto tu?” … Cosa che egli negherebbe, forse, con le parole: No, in fin dei conti io non ho fatto nulla, al più ho soltanto collaborato. … La morale della favola consiste dunque nel fatto che gli era stato impedito d’intendere realmente l’esito dell’azione per la quale era stato usato e di partecipare alla moralità o immoralità di quest’ultima. Persino dalla partecipazione alla immoralità dell’azione egli era escluso, persino il diritto alla cattiva coscienza gli era stato precluso; neppure gli era lecito di sentirsi irresponsabile, di potersi sentire irresponsabile. … nella nostra epoca del push button, anche l’ultimo effetto si produrrebbe premendo un bottone.
(Günther Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 59-61)
Chi invia un messaggio, chi preme un bottone, chi organizza la logistica e persino chi monta l’ingranaggio di una bomba, raramente pensa alle vittime. Così, con un semplice push su un anonimo red button, è possibile annientare l’umanità senza sentirsi colpevoli. La tecnica ha reso l’uomo potente oltre misura, al prezzo della sua coscienza.
Terza tappa: il soggetto-superfluo
La terza tappa del nostro viaggio chiama in causa Hannah Arendt (Hannover, 1906 – New York, 1975), autrice di testi fondamentali per la teoria politica dei totalitarismi, come La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (1963) e Le origini del totalitarismo (1951). Proprio in quest’ultima opera si trova un passaggio, potente e inquietante, essenziale per riflettere sul destino umano:
La società di morenti instaurata nei campi è l’unica forma di società in cui sia possibile impadronirsi interamente dell’uomo(…) L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com’è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n’è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale (…) Un’unica cosa sembra certa: possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui. (…) È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue. (…)
(Hannah. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1996, pp. 624, 628-629)
Arendt rivela l’aspetto terrificante e ineludibile del totalitarismo: il suo obiettivo ultimo non è politico o economico, ma metafisico. La sua finalità non è semplicemente dominare gli individui, ma distruggere l’essenza umana stessa. I Lager non sono solo luoghi di sterminio fisico, ma laboratori in cui si sperimenta la “trasformazione della natura umana”, secondo una logica che considera l’umano una cosa superflua e quindi eliminabile.
Quarta tappa: Il soggetto-illuso
E se la trasformazione dell’uomo in macchina non fosse un’imposizione, ma un processo interiore alimentato dall’illusione della libertà?
Questa è la tesi del filosofo di origini sudcoreane Byung-Chul Han (Seul, 1959), il quale in Psicopolitica: il neoliberalismo e le nuove forme di potere analizza come oggi il potere abbia subito una profonda mutazione, superando il modello disciplinare e biopolitico di cui parlava Foucault. Nella società neoliberale, il potere agisce a un livello più sottile, quello psichico, e si serve di nuove dinamiche: non amministra i corpi, ma le “anime”, non si impone più in modo coercitivo, ma seduce. L’individuo, mentre si crede libero e autodeterminato, finisce per auto-ottimizzarsi in conformità con le logiche del sistema. Il controllo non richiede più un’entità esterna, ma viene interiorizzato dal soggetto stesso. La spinta a una prestazione sempre maggiore è camuffata da una scelta personale, dietro la quale però si cela un meccanismo di controllo pervasivo.
Ecco le parole di Han:
Oggi, non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo. Il conseguente passaggio dal soggetto al progetto è accompagnato dal sentimento della libertà: ormai, il progetto stesso si rivela non tanto una figura della costrizione, ma piuttosto una forma ancora piú efficace di soggettivazione e di sottomissione. L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione.
(Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Milano 2016, p. 9)
Il soggetto della psicopolitica è vittima del suo egocentrismo: credendo di realizzare se stesso, in realtà si svuota della propria essenza.
Una traiettoria irreversibile?
Siamo destinati a mutarci dunque sempre più in ingranaggi, macchine, cose superflue, esseri illusi? In ogni caso, ciò che risulta evidente è che l’umanità è un processo e non un dato di fatto. Non siamo sempre stati come siamo ora ed è chiaro che non lo saremo in futuro.
Ci stiamo trasformando e, in base ai quattro filosofi ascoltati, i segnali indicano una direzione comune: la meccanizzazione. È in atto una metamorfosi, in passato rumorosa e oggi silenziosa, in cui il pensiero diventa procedura, la scelta si affida all’algoritmo e la complessità è sacrificata sull’altare dell’efficienza.
Questa traiettoria verso la meccanizzazione è davvero irreversibile?
Se nel presente possiamo dire di riconoscerci ancora come esseri umani, definiti proprio da quella miscela di fragilità e incertezza che chiamiamo libertà, che cosa accadrà nel lungo periodo? L’umanità sarà un’identità da difendere o una fase finalmente superata?
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