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laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Salviamo la scuola dalla retorica del dolore

Alzi la mano chi ha qualcosa da dire sulla scuola

È un fatto innegabile: alla gente piace parlare di scuola, un luogo, uno dei pochi, di cui più o meno tutti, almeno per un tratto di vita, sono stati frequentatori, e questo è sufficiente per dare a chiunque l’illusione di sapere di cosa si stia parlando. E c’è una modalità ricorrente in questo parlare di scuola, una visione nostalgica e idealizzante, come di un’istituzione seria e severa un tempo – ma quale tempo?- e oggi, in questo presente decadente, non più. Niente di sorprendente, niente di nuovo. Eppure c’è stata recentemente una circostanza in cui la communis opinio sulla scuola ha suscitato in me una sensazione di profondo sconforto che mi ha portato a chiedermi perché e a raccogliere le riflessioni alle quali ho cercato qui di dare forma. Faccio parte di un gruppo di docenti del liceo in cui insegno che si sono fatti promotori del progetto “Oltre il voto”, basato sull’utilizzo di valutazioni descrittive senza voto numerico per le prove in itinere. Non intendo qui esporre le motivazioni e le modalità della sperimentazione, peraltro non nuova e già testata e divenuta realtà da anni in diverse scuole italiane; vorrei invece fare qualche ragionamento sulle reazioni che la notizia ha suscitato in particolare sui social. Quando abbiamo presentato il progetto ai futuri iscritti del nostro istituto nello scorso mese di Giugno, c’è stato infatti un interessamento della stampa locale che ha portato alla pubblicazione di diversi articoli ripresi poi da alcune tra le più lette testate online specializzate in scuola e istruzione (Orizzonte Scuola e La Tecnica della Scuola, per citare le principali). Ho letto i commenti in calce agli articoli postati su Facebook: non posso dire che mi si sia “aperto un mondo”, perché già conoscevo l’indirizzo generale delle idee su come dovrebbe essere la scuola secondo i più, ma sono rimasta tuttavia colpita, prima di tutto dal massiccio arroccamento su posizioni di rigido conservatorismo, senza la minima curiosità non solo di aprirsi a un’idea diversa, ma di accogliere il dubbio, e poi dai contenuti e dalle scelte “retoriche” che accompagnano le più abusate rappresentazioni della scuola nell’immaginario comune.

La “scuola del dolore” e il suo lessico

Ormai li conosciamo molto bene i meccanismi social: diversamente da quanto accade nelle situazioni di confronto in presenza, dove per lo più si cerca di capire e di capirsi, vi regnano impulsività e toni accesi, ma anche un’evidente tendenza a commentare senza leggere o a leggere senza capire, per commentare poi comunque, di pancia. Molti utenti hanno così dato voce non solo alla loro contrarietà riguardo a una nuova possibile forma di valutazione, contrarietà ovviamente più che legittima se espressa però con argomentazioni fondate e con toni un po’ meno scomposti di quelli che in alcuni casi ho letto, ma indirettamente anche alla loro visione più generale della scuola. Mi sono resa conto così più che mai della prevalenza di una rappresentazione della scuola nell’immaginario comune che coincide con un’idea sintetizzabile in una sorta di (assai discutibile) sillogismo: la scuola deve preparare alla vita, ma “la vita è male” (quanti inconsapevoli leopardiani!), dunque anche la scuola deve far male. Per insegnarti la durezza della vita. Questo concetto di fondo, così diffuso da sembrarci quasi scontato e dunque anche giusto e accettabile, ricorre ovunque, variamente espresso, con toni e linguaggio che talvolta richiamano lo stile del sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, talvolta sfociano invece nell’ambito mistico-religioso: sacrificio e ricompensa, sofferenza e giustizia, colpa e punizione, peccato e redenzione, apprendimento che passa per il patire, un pathei mathos reinterpretato (Eschilo, perdonaci!) e ricollocato tra i banchi di scuola; peccato che poi l’apprendimento, il mathos, quello vero, risulti essere nei fatti l’ultima delle preoccupazioni di questi numerosi opinionisti social per i quali il soffrire sembra quasi il fine più che il mezzo, e pazienza se non hai imparato la matematica, la grammatica, la filosofia: hai imparato che la vita è dura, e tanto ti basti. In questa palestra di sofferenza il voto –ecco perché tanta contrarietà rispetto al non utilizzo del voto numerico- è lo strumento educativo che tempra i caratteri, forgia gli animi, premia il duro lavoro dei buoni e punisce, se necessario anche in modo umiliante, le mancanze dei cattivi, i pigri, gli inadeguati, i deboli. La possibilità di una valutazione diversa, che aiuti a crescere e a migliorare senza umiliare, non sembra essere presa in considerazione, non sembra “utile” allo scopo. L’idea della “scuola del dolore” si declina così in diverse forme, con un apparato comunicativo fatto di metafore, similitudini e scelte linguistiche che mi sono “divertita” (si fa per dire) ad analizzare. Vediamo alcuni esempi: molti hanno visto nell’eliminazione dei voti numerici in itinere la volontà di non fare provare agli studenti sentimenti di frustrazione e delusione o di volerli sottrarre all’ansia e al malessere, evidentemente considerati fondamentali requisiti per imparare a vivere. Da qui metafore come “scuola dell’ovatta”, “campana di vetro” e considerazioni come le seguenti: Ma sì, leviamo ogni frustrazione e creiamo giovani sempre più fragili. Oppure: Geniale ma andiamo oltre: aboliamo la scuola così gli studenti non avranno mai ansia!!!  E ancora: Ma poveri studenti che non possono sperimentare ansia, tristezza, fallimento, rabbia, delusione. Non sia mai che le nuove generazioni imparino anche le emozioni poco piacevoli, al quale fa eco il sarcastico ringraziamento a noi insegnanti “senza voto”: Grazie per crescere ancora disadattati privi di spina dorsale. Non mancano i riferimenti al mondo del lavoro che non farebbe sconti a nessuno e nel quale gli ex studenti troppo coccolati sono destinati a soccombere: E un domani nel lavoro avremo solo gente ansiosa…ma smettetela , tutti siamo stati giudicati a scuola con un voto a volte anche ingiusto, siamo sopravvissuti. Da notare qui l’uso di due termini ricorrenti e significativi: “giudicare”, che è concetto ben diverso da “valutare”, ma spesso utilizzato dai non addetti ai lavori come suo sinonimo, e “sopravvivere”, verbo particolarmente caro alla retorica della scuola come lotta per la vita. Altri commentatori sono convinti che da una scuola “senza voto” uscirebbero studenti meno preparati che mai, e da qui immagini come “il Paese dei balocchi”, “le giostre”, “il Luna Park”, “la fabbrica degli asini (o capre o altro animale a scelta)”, e così via. Per difendere il voto numerico è stata utilizzata anche la similitudine del termometro e della febbre, dove il voto sarebbe un’indicazione assimilabile al 38.8 o al 39.1 di chi, febbricitante, misura la temperatura, con una significativa sovrapposizione tra l’apprendimento e un’esperienza di malattia, un’infezione, un virus. Per non parlare del voto come unico propulsore motivazionale: studenti che non vedono il frutto dei propri sforzi, per cui non saranno motivati a studiare poiché alla fine saranno promossi sulla base di una mera presenza e di una saltuaria applicazione. O, come espresso con particolare enfasi (anche nella punteggiatura) da un altro commentatore:  E secondo voi gli studenti perché dovrebbero studiare??? Per amore del sapere??? Non conoscete le nuove generazioni allora!!!!  Significativa anche la menzione del voto come “paga” dello studente. Per cosa studio? Per avere un voto: Studiare senza voti è come lavorare senza stipendio, sostiene un commentatore, una considerazione che presuppone l’idea di voto come salario, ottenuto il quale lo studente dovrà ritenersi soddisfatto, ha avuto qualcosa in cambio per ciò che ha dato, ma questo qualcosa purtroppo non è il sapere, non è la cultura, non è la sua crescita e formazione, ma è il voto: esattamente il meccanismo che vorremmo scardinare, quello per cui il voto è percepito come un fine e non come un mezzo. Concludo la carrellata con due commenti esemplari: Ritardiamo sempre più l’incontro con la realtà… e, Si preparano così i ragazzi alle sfide della vita? Ma cos’è la realtà, di quale realtà, di quale vita e di quali sfide parliamo -vorrei chiedere io agli anonimi commentatori-?. Perché un progetto che, secondo chi lo ha pensato, ha come finalità il miglioramento della didattica, l’elaborazione di un metodo di valutazione più efficace, l’acquisizione di maggiore consapevolezza e sicurezza da parte dello studente, e, come probabile conseguenza, un ambiente di apprendimento auspicabilmente più sereno e meno ansiogeno, dovrebbe essere interpretato come un voler sottrarre i giovani alle “sfide della vita”, e a “ritardare l’incontro con la realtà”? Ma è semplice, perché la realtà è brutta e cattiva, ed evidentemente non riusciamo a immaginarne un’altra. Peccato, perché forse è proprio a scuola che dovremmo lavorare per costruire e progettare qualcosa di meglio, e invece no, “continuiamo così, facciamoci del male” (e facciamolo soprattutto agli studenti).

L’altra versione

Rileggo queste frasi che ho riportato come esempi e nella mia mente si affastellano tante obiezioni e tanti interrogativi. Noto prima di tutto una sorta di paradosso: coloro che maggiormente avversano l’idea di una scuola attenta alla sfera emotiva degli studenti, attribuiscono di fatto anche loro alla scuola un ruolo di maestra di emozioni, purché però siano prevalentemente negative, come se queste fossero le uniche che possano aiutare a crescere; perché non provare invece a mettere al centro le emozioni positive, pur senza voler censurare e soffocare le altre che inevitabilmente non potranno essere del tutto lasciate fuori dalla porta? Anzi, perché non provare piuttosto a mettere al centro ciò che si impara, i contenuti dell’insegnamento e dell’apprendimento, che possono essere un veicolo prezioso per conoscere, esplorare e decodificare anche la sfera emozionale?

Si legge tra le righe la paura che qualcuno voglia iperproteggere i giovani negando loro la possibilità di provare ansia e disagio. Parliamone, di questi sentimenti che vorremmo censurare e negare ai giovani: ansia, disagio, ma andiamo anche oltre, sofferenza psichica, disturbi alimentari, autolesionismo, sono ovunque intorno a noi, chi lavora a scuola non può non aver avuto a che fare con manifestazioni di questi fenomeni, variabili per entità e forme. Ho sperimentato, come sicuramente tanti colleghi potrebbero confermare, con una certa dose di dolore personale, quanto i nostri tentativi di “salvare” i ragazzi da sofferenze più grandi di noi e di loro siano inadeguati, se non proprio fallimentari; i malesseri psicologici che vediamo (o non vediamo, o vediamo parzialmente) nei nostri studenti hanno radici profonde, raramente la scuola può essere indicata come la loro causa principale, non abbiamo molti mezzi per intervenire e, per quanto la cura nel senso più ampio del termine sia essenziale nel nostro lavoro, quello della terapia in senso tecnico non è ovviamente il nostro mestiere. Questo disagio dunque c’è, e ci sarà e dobbiamo averci a che fare. Ma a fronte di tutto questo, perché pensare che studiare in un ambiente più accogliente e meno ansiogeno, più collaborativo e meno competitivo dovrebbe indebolire anziché rafforzare?

Il focus dell’opinione pubblica sulla scuola come corso di addestramento ai problemi della vita sposta poi del tutto lo sguardo dalla dimensione che invece a noi docenti interessa e compete di più, cioè l’efficacia della didattica e la qualità dell’apprendimento: è un tema che dovrebbe stare a cuore a tutti, ma è spesso trascurato e altrettanto spesso viziato dal generale fraintendimento per cui in un ambiente più “rilassato” e senza il pungolo della tensione e della paura, non si imparerebbe. La letteratura scientifica di ambito psicologico e pedagogico dice, e da molto tempo, esattamente il contrario, e cioè che l’esperienza dell’apprendimento funziona meglio e produce risultati soddisfacenti se associata a emozioni positive anziché negative e frustranti. Il che ovviamente non si deve tradurre nella negazione delle difficoltà e nella rimozione degli ostacoli, ma piuttosto nel fare sì che la sana fatica e la dedizione al lavoro possano essere vissuti anch’essi come esperienza positiva e gratificante: è uno dei nostri compiti di docenti, tra i più difficili e più belli, come ben sa chi lavora ogni giorno in classe.  

 Mi chiedo spesso perché in tanti abbiano bisogno di costruire intorno alla scuola un discorso retorico, intriso di un sentimentalismo che in verità può andare sia nella direzione della scuola del dolore di cui ho parlato fino ad ora, ma anche nella direzione opposta, del ridurre tutto a pura empatia e comprensione senza limite, indulgendo a psicologismi vuoti che annullano il valore delle finalità di istruzione e formazione culturale proprie della scuola. Perché ci si rifiuta di pensare la scuola come un luogo dove operano professionisti che cercano strategie per rendere il loro lavoro più efficace e più significativo per coloro che devono fruirne? Inoltre, il mito della “scuola dura e pura”, a quali tempi si riferisce? Da chi è invocato e perché? Spesso ho la sensazione che persone di una generazione intermedia (diciamo i quaranta-cinquantenni attuali, approssimando) stiano immaginando e chissà perché vagheggiando la scuola dei loro genitori o dei loro nonni, inventandosi falsi ricordi di qualcosa che neanche loro hanno vissuto. Qui non si tratta di discutere quale modello sia migliore dell’altro, ma voglio sottolineare il fatto che si tratta di pura retorica, di un discorso falso, costruito, di una narrazione fittizia che forse è davvero tempo di smontare e abbandonare.

Per rispondere poi all’argomento della motivazione degli studenti che sarebbe garantita unicamente dalla prospettiva del voto-ricompensa: perché non essere idealisti al punto di voler immaginare dei giovani che imparano principalmente per la gioia e il gusto di imparare? Per “interesse”, nel senso migliore del termine, o meglio, nel suo senso etimologico: interesse, stare nel mezzo, essere dentro, al centro di qualcosa che ci riguarda. L’evidenza e l’esperienza ci dicono che lo studio finalizzato alla mera verifica e valutazione porta a una preparazione labile, che non resiste e non si fissa, i cui contenuti si dimenticano presto, mentre la costruzione di un sapere autentico deve poggiare su altre basi. Chi parla e straparla di scuola sembra interessarsi a tutto tranne che alla ricerca di queste basi, che sono invece la cosa più importante da ricercare. Basi che devono sapere innescare processi di desiderio di apprendere e di costruire il sé anche attraverso la cultura, basi di bellezza, ma anche di concretezza, di aderenza al mondo e alle domande che pone. La lezione degli antichi, spesso invocati come principi di autorità nel senso del conservatorismo più rigido e degli antiqui mores, ci lascia invece un’eredità che va nella direzione del nostro discorso: spieghiamolo ai nostri studenti che cosa significa studium/studere, che cos’è l’otium, perché la scuola si chiama scuola, dal greco scholè. È possibile fare uscire questa idea di apprendimento dalla cerchia degli intellettuali adulti e trasmetterla alle generazioni giovani? Quando e perché abbiamo smesso di sognare e di provare a volare un po’ più in alto?

Ricordi di scuola, frammenti di vita

Nei mesi conclusivi della mia quinta ginnasio (anno 1993) la nostra professoressa di Lettere ci ha parlato di Eugenio Montale e ci ha fatto imparare rigorosamente a memoria un bel numero di poesie di Ossi di seppia (ancora ringrazio!). Poi, essendo tempi in cui una lezione fuori sede si poteva ancora organizzare senza dover convocare consigli di classe, collegi docenti e consigli di istituto e senza compilare mille moduli e contromoduli, una mattina ci siamo dati tutti appuntamento alla Stazione Centrale di Pisa, la mia città, direzione la Spezia, per poi raggiungere Monterosso. Abbiamo visitato la cittadina, osservato il paesaggio, i suoi saliscendi e strapiombi sul mare, localizzato casa Montale, e poi siamo scesi in spiaggia e leggere gli Ossi di seppia dando continuità al lavoro iniziato in classe, in un’aula senza pareti, nel luogo dove quelle poesie hanno preso forma e vita. Un gruppetto di noi ha poi ripetuto l’esperienza negli anni successivi, compresa una spedizione post-maturità, per rinnovare e valorizzare un ricordo condiviso che ci aveva lasciato dentro qualcosa di importante. Ogni volta che leggo una poesia di Ossi di seppia e ne parlo a scuola ai miei studenti, ricordo e rivivo quell’esperienza, vedo i luoghi e sento i profumi. Ogni volta che sento qualcuno dire che la scuola deve essere dura per preparare allo spietato mondo del lavoro e alle terribili sfide della vita, il mio pensiero va a quel viaggio a Monterosso e ringrazio quel frammento di scuola che mi ha convinto che a scuola, ogni volta che è possibile, è meglio fare il pieno di bellezza. E non perché la vita non sia dura anzi, ma quella bellezza, quella poesia, potranno diventare almeno in parte un aiuto e un ancora anche nelle famose “sfide della vita”, anche quando sperimenti sulla tua pelle i tagli di quei cocci aguzzi di bottiglia.

Siamo proprio sicuri che tutte le nostre esperienze, compresa l’istruzione, debbano per forza essere metafora e preludio degli schiaffi della vita? Una vera integrazione tra la dimensione della scuola e quella della vita, anziché essere schiacciata sul principio dell’abitudine a subire e soffrire, dovrebbe passare attraverso esperienze di senso, in cui si dà sostanza a quanto si studia e si impara, costruite in un contesto relazionale sano e sereno. Sembra pacifico, detto così, sembra incontestabile, eppure invito chiunque a scrivere su un social che la scuola ha bisogno di una cornice meno ansiogena e stressante per recuperare il suo fine educativo e vedrete quale ondata di indignazione questo semplice pensiero produrrà.

Mi chiedo infine: voi, noi, che abbiamo fatto una scuola più dura –dicono, e in parte forse è vero- di quella di oggi, con i voti assegnati con severità, quando i professori avevano ancora la famosa “spina dorsale”, quando i genitori non erano ancora diventati i difensori d’ufficio dei figli e via con tutto il noto armamentario di luoghi comuni sui “nostri tempi”, ecco, siamo dunque giunti preparatissimi all’incontro con la vita? Se la logica non è fallace, dovremmo avere una corazza di ferro, ma credo che ognuno di noi possa invece raccontare molto dei propri scontri frontali con la vita, che non ci dà i tutto sommato rassicuranti e prevedibili voti, ma ci giudica e ci istruisce, ogni giorno, con sistemi ben più complessi.

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