L’insegnante inclusivo come intellettuale in azione
Questo articolo è stato scritto in occasione del corso di formazione 10 per l’inclusione tenuto a Palermo il 19 e 20 febbraio 2016 presso l’Istituto Piazzi. Il corso è stato organizzato dal CIDI di Palermo e dall’editore G.B. Palumbo.
Discordanza semantica
Per esporre il mio pensiero vorrei iniziare da un aneddoto e da una citazione. L’aneddoto. In un convegno sull’integrazione scolastica di circa tre anni fa, Roberta Caldin, una studiosa seria e critica nei confronti delle politiche di riforma del MIUR sull’integrazione scolastica (allora si discuteva delle nuove disposizioni sui BES, tra le molte riserve della comunità scientifica), moderando alcuni interventi del pubblico, si compiaceva per il senso del proprio ruolo che manifestavano gli insegnanti che intervenivano presentandosi alla platea come “insegnanti specializzati” e non semplicemente come insegnanti di sostegno. La citazione, invece, è del critico e intellettuale ginevrino Starobinski che nel suo saggio L’inchiostro della malinconia scrive che «non si può cogliere nulla di un sentimento se non al di là del punto in cui viene nominato, nel quale si designa e si esprime»1.
Al convegno di tre anni fa, con quella sottolineatura nominalistica, che voleva essere amichevole e per nulla strumentale, la mia coscienza riflessiva cominciò a nutrire un sentimento di “discordanza semantica” verso il mandato sociale dei docenti di sostegno, il loro ruolo e la loro funzione nella scuola. Istintivamente avrei voluto obiettare alla Caldin: «professoressa, di cosa si compiace? Cosa intende lei per “insegnante specializzato”, un autentico professionista che non si improvvisa nel suo lavoro? Ogni volta che entro in classe io però mi devo necessariamente improvvisare. Sono una specialista dell’improvvisazione. Come la mettiamo con la mia professionalità?»
Sono passati tre anni da allora e altre definizioni sono state azzardate nel dibattito sull’integrazione scolastica per definire il profilo e la funzione sociale dei docenti che si occupano di didattica speciale. Basti ricordare al proposito la definizione di docente «bis-abile» di Ianes o quella di «figura di sistema arricchita» emersa nella mozione finale dell’ultimo convegno internazionale sulla Qualità dell’integrazione2. Proprio in questi mesi, infine, in occasione dell’attuazione delle deleghe della L.107, si torna a rimarcare la presunta necessità di specializzare ulteriormente i docenti di sostegno. La disputa linguistica – che ovviamente è anche disputa d’indirizzo valoriale e quindi disputa politica – è interessante soprattutto perché manifesta che studiosi, esperti, tecnici ministeriali e insegnanti oggi si contendono un potere di nominazione che ciascuno sente insufficiente e non riconosciuto. Siamo in piena discordanza semantica. La mia non era un’idiosincrasia personale.
Interferenza semantica: l’insegnante inclusivo
Una soglia critica spesso è più visibile se la si guarda fuori solco, saltando da un ambito all’altro dell’esperienza. Così credo che andrebbe fatto anche a proposito della definizione dell’insegnante di sostegno come insegnante specializzato o iper-specializzato.
La “specializzazione” dell’insegnante di sostegno vorrebbe essere (lo era di certo nelle parole della Caldin) un tentativo di riqualificazione della figura. D’altronde storicamente è già successo che i docenti italiani (di scuola e universitari) per superare una crisi di ruolo abbiamo cercato rifugio in un camice bianco, in un sapere neutro e oggettivo, in un bagaglio di dotazioni tecniche accertabili e misurabili. Uno di questi equivoci si chiamò strutturalismo e riguardava gli studi letterari. Sul piano teorico lo strutturalismo si impose tra gli anni 1960-1975, mentre nelle scuole si affermò negli anni Ottanta. Il metodo strutturalista presumeva la centralità del testo analizzato “scientificamente” attraverso l’impiego di categorie narratologiche. Le questioni relative al significato e ai valori venivano tralasciate o guardate con diffidenza da parte di chi considerava l’insegnante come un tecnico che doveva fornire agli studenti competenze neutrali ed oggettive. Era questo anche un modo di reagire alle posture crociane e allo spontaneismo didattico di certi docenti. Non mancavano dunque i motivi di disagio, ma la risposta fu nel complesso regressiva e difensiva: i docenti di lettere rinunciarono a fornire interpretazioni dei testi e, per loro tramite, del mondo, a parlare in prima persona, a scommettere sui contenuti di verità della letteratura, a praticare e a insegnare il dialogo ermeneutico. Lo strutturalismo voleva essere un rimedio ed invece fu un acceleratore della loro crisi di mandato.
Un processo simile, di progressiva perdita di legittimità sociale, di smarrimento di una funzione intellettuale complessiva e di ricorso a forme surrogate di rispettabilità attraverso l’addestramento tecnico, riguarda ora, a mio avviso, i docenti di sostegno. Naturalmente questo processo di delegittimazione, di parcellizzazione del mandato, di tecnicizzazione dei saperi investe tutti i docenti, inclusi quelli universitari, ma i docenti di sostegno, sono ancora più esposti degli altri insegnanti a fenomeni di declassamento, perché privi di un mandato più ampio quale quello della mediazione di un oggetto disciplinare, perché espropriati di un “potere” valutativo individuale, perché costretti a continue negoziazioni, spesso unilaterali, coi colleghi co-docenti, ed in ultimo perché considerati limitrofi agli svantaggiati e ai più deboli.
Proposta semantica: l’intellettuale in azione
Eppure la soluzione spesso risiede nel problema stesso. Il meticciato, la negoziazione relazionale permanente (e sfiancante), l’attività continua di mediazione tra saperi diversi, il giocare di contrabbando tra le frontiere, sono tratti propri del carattere identitario dei nuovi intellettuali3. Questi nuovi soggetti sociali sono vicini alla contraddizioni della nostra scuola più di qualsiasi altro agente e sono in grado di attivare interessanti cortocircuiti critici. «Dominati delle classi dominanti», li definirebbe Bourdieu,4 «intellettuali liminari»5, li chiama Said. In concreto sono i musicisti che non possono vivere di musica e insegnano alle scuole medie, sono i dottori di ricerca che vanno a caccia di borse post-doc mentre tirano avanti con qualche supplenza, sono i filosofi che fanno potenziamento al professionale, sono gli insegnanti-scrittori-blogger, sono i docenti di sostegno che per lavorare devono fare le valigie e trasferirsi da Messina a Brescia. Queste persone, poste a contatto con chi ha ancora meno di loro: lo studente immigrato, il ragazzo disabile, l’alunna in dispersione, lo studente violento o astenico – proprio perché interni loro stessi a forme di marginalità e di contraddizione esistenziale – non si affidano a verità già rivelate, di fronte ai problemi si interrogano. Contaminano di domande quello che toccano. Sono ricercatori riflessivi che istituiscono nella pratica didattica «un delicato equilibrio tra istruzione, cioè tra acquisizione di saperi e conoscenze, ed educazione, cioè l’accessibilità a questi saperi e conoscenze tramite modalità relazionali spesso inedite»6. Se il loro sguardo fosse paragonabile a quello di un dispositivo ottico potremmo dire che è quello mobile e di rapida messa a fuoco di una go pro: non fanno per loro messe in posa e cavalletti.
Naturalmente l’insegnate che si occupa di integrazione è anche un “esperto” di un sapere pratico che implica la conoscenza di tecniche e metodologie didattiche che favoriscono gli apprendimenti, ma se anche possiede un sapere tecnico, l’insegnante inclusivo è ben più di un tecnico, di un somministratore di protocolli operativi, di un burocrate o di uno specialista di patologie: è un intellettuale in azione, per il quale la distinzione tra docente curricolare e di sostegno è persino divenuta ridondante7 E come potrebbe non esserlo, d’altronde, se il suo habitus8 è quello di saltare gli steccati?
Per attenuare la normatività
Tuttavia il mio discorso, me ne rendo conto, non è meno arbitrario di quello a cui mi sono opposta inizialmente. Ho semplicemente sostituito a un dover essere: “l’insegnante di sostegno come insegnante specializzato”, un altro dover essere: “l’insegnante inclusivo come intellettuale in azione”. Le argomentazioni che seguono servono dunque ad attenuare, non ad eliminare, dato ciò è impossibile in qualsiasi scelta valoriale, la normatività discorsiva in cui sono inesorabilmente incappata.
I motivi per cui l’insegnante inclusivo dovrebbe resistere alle spinte iperspecializzanti del suo lavoro a mio avviso sono di tre ordini: uno pratico, uno teorico, uno etico.
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Obiezione pratica. L’iperspecializzazione non aiuta il docente nel lavoro didattico, al contrario rischia di renderlo inadeguato alla pluralità della vita di classe. In nessuna classe si trova infatti il caso da manuale da gestire. Non c’è casistica che tenga nelle dinamiche plurali, cangianti, variabili delle persone. A maggior ragione se questa presunta casistica viene fatta esplodere in un ambiente per sua natura dinamico come quello della classe. La classe non è un laboratorio, è un caleidocopio. Le metodiche minute sono inservibili quando sono sopravanzate dalle eccezioni.
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Obiezione teorica. L’iperspecializzazione contrasta l’integrazione delle esperienze, ma è l’integrazione delle esperienze a renderci competenti nella vita. L’iperspecializzazione ci rende efficienti soltanto nell’applicazione di una tecnica. Un docente che si muove con padronanza nel suo ambito disciplinare, che ha competenze didattiche e di didattica-speciale, che è capace e attento nella cura relazionale, con interessi culturali ampi, letture pedagogiche alla spalle, ha molte più chiavi di lettura e soluzioni possibili a disposizione nei vari contesti in cui si trova ad operare di qualsiasi altro esperto. Del resto se il modello di educazione verso cui tendiamo è quello multidimensionale e multiculturale delle società complesse, cosa ce ne facciamo di alimentare «saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà e problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazioanali, globali, planetari dall’altra? […] L’iperspecializzazione impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) così come l’essenziale (che dissolve)». Così per Edgar Morin9.
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Obiezione etica. L’iperspecializzazione è disumanizzante sia per gli insegnanti che la praticano che per gli studenti che la subiscono. L’attitudine a contestualizzare e a integrare è una qualità fondamentale della mente umana. L’essere umano diviene meno umano se questa qualità viene atrofizzata. Ci sono catene di montaggio visibili e invisibili. Fanno male entrambe. Eseguire un compito circoscritto può forse attenuare sensi d’ansia e di insicurezza; sapere esattamente cosa fare in una data eventualità (anche se poi questa non si verificherà) può illudere il nostro il senso di inadeguatezza e incantare il nostro senso di inutilità. Ma non credo sia questa la sfida che dovremmo ingaggiare come insegnanti. Morin constata che «c’è un deficit democratico crescente dovuto all’appropriazione da parte degli esperti, degli specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi vitali»10. Se accettiamo di avere una qualche responsabilità educativa rispetto ai nostri «problemi vitali», allora, non è il momento di ripiegarci su noi stessi, di assumere pose difensive, di indossare mascherine igienizzanti nel contatto con gli studenti.
Per rilanciare la sfida educativa serve a tutti noi un supplemento di studio e di preparazione, una cultura più ampia e più complessa, un sapere problematico e sfaccettato accompagnato da una nuova e chiara intenzionalità politica: essere umani capaci di umanizzare altri esseri umani.
____________
NOTE
L’immagine è l’olio su tela di Robert Delaunay, Formes circulaires del 1930.
1J. Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2012, p. 207
3Al proposito di veda R. Luperini, L’esule, lo sradicato e il precario della conoscenza. Storia e futuro degli intellettuali in http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/214-l-esule,-lo-sradicato-e-il-precario-della-conoscenza-storia-e-futuro-degli-intellettuali.html
4La definizione è contenuta in P. Bourdieu, Campo del potere e campo intellettuale, Manifestolibri, Roma 2002
5E. W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995
6A. Goussot, E. Annaloro, Risorse per l’inclusione. L’inclusione come risorsa, Palumbo Editore, Palermo 2015, p. IX
7Se a livello organizzativo la nostra scuola fosse pensata in termini culturali e non economicistici, l’attraversamento degli steccati dovrebbe essere favorito, prevedendo, ad esempio, l’istituzione di cattedre miste, con alcune ore curricolari ed altre di sostegno.
8L’habitus nella teoria di P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, 2005 è un sistema di schemi percettivi, di pensiero e di azione acquisiti in maniera duratura e generati da condizioni oggettive che tendono a persistere anche dopo il mutamento di queste condizioni .
9E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 5-6; 7.
10Ivi, p. 11
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docente di sostegno
ad Emanuela Annaloro:
come docente di sostegno, mi ritrovo finalmente in una descrizione, quella dell’insegnante inclusivo come intellettuale in azione, che si avvicina alla realtà del mio lavoro, proprio perché si tratta di una
riflessione, la tua, che prescinde dalle logiche aziendalistiche ormai, purtroppo, vincenti. Io sono, certo,
anche un insegnante specializzato: prima di tutto nelle mie materie, ovvero filosofia, scienze umane e storia (A036 e A037, per capirci) e poi nel sostegno. Ma questa specializzazione non è, per l’appunto, una iper-specializzazione. L’arte della mediazione, come dicevi nel tuo articolo, è forse una delle qualità più importanti che derivano dalle nostre capacità, come insegnanti di sostegno, di andare oltre le barricate dei ruoli prestabiliti, anche se poi il rischio è spesso quello di non rientrare in un ruolo ben preciso e di non essere riconosciuti per il proprio ruolo. Leggo ogni tanto follie punitive, come quelle di chi vorrebbe medicalizzarci o stravolgere il nostro mestiere, che è quello di insegnare, prima di tutto. Per non dire di chi ci accusa, ingiustamente e vergognosamente, di sfruttare il sostegno per passare alla materia. Ma a
noi non viene chiesto mai nulla, come se non fossimo soggetti, ma solo oggettivazioni di pseudoteorie pedagogiche. Grazie. prof. Stefano Crisafulli (docente di sostegno in una scuola superiore di Trieste)