
Su Adolescence/2. Per una recensione di Adolescence
Adolescenti e male, una ricognizione
La prima cosa straniante della miniserie Netflix, finita rapidamente al primo posto delle nuove uscite più viste, è che il suo titolo sia Adolescence, “Adolescenza”: non tutte le adolescenze – spoiler – si chiudono a tredici anni con un omicidio. Mentre passano i titoli di coda del quarto episodio, l’ultimo, viene da chiedersi, se è vero che il cammino dentro l’adolescenza non ha come esito per tutti un omicidio, che esito ha? Quali tappe dovrebbe toccare per svoltare sulla vita anziché sulla morte? Insegno da dieci anni nelle scuole superiori di Milano e, dopo aver visto Baby o La scuola cattolica, ascoltato molte puntate di Indagini sui crimini di adolescenti, non mi inquieta una miniserie che si apre con un arresto di minore per omicidio e mostra che uno dei moventi è la sua radicalizzazione incel. Chi ha visto The Elephant, La sala professori, L’onda, per citare alcuni dei prodotti cinematografici che indagano i legami tra adolescenti e male, chi vive ogni giorno con loro, non può fare fatica a immaginare che quello che la serie racconta sia plausibile e riguardi, almeno nel suo sviluppo, tutti noi.
La scuola di Adolescence
Jamie Miller, il protagonista, è un ragazzo di tredici anni che frequenta le scuole britanniche, raccontate in un episodio – il secondo – in cui le riprese dell’Istituto, alternate tra piano sequenza e immagini girate da droni, costringono lo spettatore ad un moto ondivago tra dettagli e panorami architettonici e umani che provoca nausea: la stessa che i due detective, incaricati di individuare movente e arma del delitto, provano a giro finito, tra le aule e gli imprevisti della Middle School di Doncaster. Da qui forse i toni allarmistici con cui tante recensioni sulla serie parlano della scuola: la scuola dei corridoi che puzzano, del professore-caricatura che si presenta in classe tardi e sconvolto, tra le risa degli studenti, chiosando, una volta solo con i detective – cito a memoria: «Cosa dovei fare? Questi ragazzini sono impossibili!». Non mi sorprende che in un momento di grande preoccupazione internazionale sulle sorti dell’Istruzione, in un mondo in cui l’attenzione ai femminicidi è sempre più alta, ma si radicalizzano le differenze di pensiero tra ragazzi e ragazze, il cinema, che trova in Netflix un interessato alleato, ritenga utile lanciare un allarme: questa serie lo fa, servendosi in alcuni passaggi di stereotipi che vorrebbe forse superati nel futuro, grazie alla riflessione collettiva che ci costringe a fare.
Nell’universo simbolico delle sottoculture giovanili
Se c’è un punto che mi ha particolarmente colpito della serie non è la rappresentazione della scuola. E non è nemmeno il fatto che i due detective, Luke Bascombe e Misha Frank, brancolino nel buio del movente del delitto, e scelgano – ad esempio – di stampare le conversazioni social dei ragazzi a mezzo carta in formato A4, tipico del modus agendi dei boomer: pagine e pagine di foto di modelle, commenti, likes. Non mi ha stupito che a fornire qualche chiave di interpretazione per la decifrazione delle emoticon sotto i post di Jamie (come la “pillola rossa”, decontestualizzata dall’originale Matrix, e simbolo qui della verità per gli adepti della manosphere) sia il figlio del detective, Adam, che frequenta la stessa scuola di assassino e vittima.
Il mondo degli adolescenti da quindici anni a questa parte – da quando il mercato degli smartphone si è esteso a tutte le fasce d’età e i social network, su tutti YouTube, Meta, Telegram e Tik Tok, hanno cannibalizzato la rete – cambia ad una velocità a cui è difficile che adulti con una vita piena possano adeguarsi. Pochi adulti che non lo facciano anche per professione, oggi, trascorrono ore a decifrare i simboli che le sottoculture giovanili producono con una frequenza altissima – anche se, forse, molti più adulti trascorrono ore a guardare le loro gare in piscina o le loro partite di calcio, contesti maggiormente adattati rispetto alla rete, alla loro presenza. Nemmeno io, da insegnante, posseggo questo tempo: e ne uso già consapevolmente del mio per frequentare alcune “bolle” e leggere contributi informati sulla rivoluzione che ha cambiato la vita di tutti noi. La consapevolezza è necessaria, ma possiamo concludere che il divario generazionale è destinato ad essere incolmabile? Sarebbe difficile tornare ai nostri adolescenti, se così fosse.
Il messaggio della serie: non temere di dire la realtà per come è
In una delle ultime scene della serie, la madre di Jamie dice al marito – cito di nuovo a memoria: «Dovremmo poter dire che avremmo potuto essere migliori, che avremmo potuto non lasciarlo accadere». Di questa serie mi ha colpito l’acquisizione tardiva dei due genitori: che sia possibile dire la realtà per quella che è. Per riuscirci, pare che non ci sia altra via che perdere qualcosa – un’idea di sé e di come le cose avrebbero dovuto andare. Cosa si perde a dire la verità sulla realtà? Usare la parola in uno spazio protetto, in una relazione, può spingerci ad immaginare di poter agire in qualunque direzione, senza pagarne tutte le conseguenze, può dare nuovo significato al passato, può aprire il futuro per come potrebbe essere.
Le domande impossibili degli adolescenti
Il vero “scandalo” di questa serie, mi pare, è che per gran parte della terza puntata, quella in cui Jamie viene interrogato da una psicologa che ha il compito di stilare il suo profilo psicologico in attesa del processo del delitto di cui si dichiara ancora – a distanza di mesi – innocente, lui le chieda: «Are you allowed to ask these questions? Ti è permesso farmi queste domande?».
Lo scandalo di Adolescence è nelle domande che un adolescente pensa un adulto non possa fargli. Le domande che Jamie considera irricevibili riguardano il suo rapporto con suo padre e sua madre, la sfera delle sue emozioni e della loro gestione, l’universo dei giudizi che si è formato sui suoi compagni, il suo rapporto con il suo corpo, con il suo orientamento sessuale, in poche parole con la sua identità: vorrebbe vietare di parlare alla psicologa, non ha potuto evitare, invece, le domande retoriche dei video che ha guardato, l’identificazione in quelle dei forum che ha letto, la domanda di attenzione che gli è arrivata dalla rete.
Se anche Adolescence fosse una storia che salva
Adolescence mostra in meno di quattro ore che cosa può succedere alla mente di un bambino quando viene lasciato solo davanti ad uno specchio che esercita il potere di riflettere soltanto quello che lui vuole e quando nessuno, oltre alla rete, gli rivolge mai domande sui suoi vissuti, per favorire metacognizione e risemantizzazione. Le sue risposte, in assenza di una corteccia prefrontale completamente sviluppata, o di rettifica adulta, diventano labirinti di interpretazioni faziose e di pregiudizi – i miei studenti direbbero “un loop” – mutuando il termine dalla rete stessa. E se è vero che le domande dirette spesso allontanano la risposta dell’adolescente, le storie – e il loro filtro letterario – permettono ancora di integrare riflessioni sulle esperienze – in classe, a casa – a patto che le si legga, le si guardi, e se ne discuta. Forse, più che in altri momenti della storia, abbiamo bisogno di “stare nell’adolescenza”, foss’anche tramite questa serie vista insieme. Saremo più propensi allora, forse, a considerare l’educazione alla lettura, al linguaggio dei nuovi media e alla scrittura – anche alla scrittura autobiografica – come priorità delle nostre Istituzioni, in attesa che anche l’educazione affettiva e sessuale e la regolamentazione legislativa dei social network regalino a ragazze e ragazzi finestre più ampie, più libere e più ottimistiche di quelle a cui gli algoritmi li abituano sulle potenzialitá di cambiamento e crescita di chiunque viva.
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