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diretto da Romano Luperini

L’egemonia della superficie. Per una critica del postmoderno avanzato

Pubblichiamo la Premessa al volume di Marco Gatto, L’egemonia della superficie. Per una critica del postmoderno avanzato (Castelvecchi, 2024), ringraziando autore ed editore per la concessione.

Premessa. Critica e dialettica della superficie

Postmoderno avanzato. La scelta dell’aggettivo polisemico che campeggia nel sottotitolo di questo libro non ha nulla a che vedere con l’ormai vieta tradizione del nominalismo o dei giochi linguistici, nella quale – come si dirà nelle pagine seguenti – sembra oggi riassumersi il vacuo compito della più recente filosofia occidentale, bensì è legata al tentativo di mostrare come alla base dell’attuale congiuntura storica vi sia la compresenza dialettica di due momenti: l’uno progressivo, l’altro regressivo (per quanto si tratti di una polarità che lavora allo svuotamento dell’antinomia che la sostiene). L’attuale “blocco storico” – per usare un termine gramsciano che Roberto Finelli e io abbiamo ripreso in un recente libro a quattro mani1 – vede il sistematizzarsi continuo di una perdurante compresenza tra un’ipermodernità intesa quale valorizzazione e accelerazione di istanze capitalistiche attive ben prima della svolta linguistica con cui si è soliti segnalare l’aurora del postmoderno (o l’eclissi del moderno) e una postmodernità estenuata, vale a dire colta in una permanente attività di “sovrastrutturalizzazione della struttura” e in un’intensiva estetizzazione della vita e dei rapporti sociali, ancora più radicali rispetto a quelle conosciute già a partire dagli anni Settanta, sulle quali aveva fatto luce in particolare David Harvey2.

Se lo intendiamo beneficiando del prefisso iper-, il postmoderno avanzato rispecchia appunto l’avanzamento o l’avanzata del capitalismo planetario nella forma di un modo di produzione votato al superamento di qualsivoglia limite e dunque tendenzialmente catastrofico, che si è reso, incontrandosi proficuamente con la sovrastruttura culturale, ancora più spettrale e spirituale di quanto lo fosse ai tempi di Marx – un’astrazione che lavora incessantemente alla sua signoria svuotando il concreto e riducendolo, mediante suasorie pratiche di esteriorizzazione, a un presupposto stesso del dominio nel quale è implicato. Se invece intendiamo il nostro presente alla luce del post-, esso appare come un avanzo o come un’estenuazione stanca, specie sul versante sovrastrutturale – che è il versante della rappresentazione filosofica ed estetica della nostra condizione –, di moduli già battuti dall’industria culturale o dalla società dello spettacolo, ormai capaci soltanto di produrre passivi posizionamenti critici o fasulle proposte neoilluministiche, nonché vicoli ciechi in cui si arenano progetti intellettuali di cambiamento o di rivoluzione: insomma, un trascinamento senza forza che richiama la condizione di una merce ormai logora, eppure ancora capace di autoalimentarsi perché legata a stretto filo alla pervasività del capitale e delle sue strategie di dissimulazione. Ma proprio questo carattere dinamico, per quanto flebile, dei modi culturali di rappresentazione e interrogazione descrive la lotta per l’egemonia che lo sostiene: la necessità che la sovrastruttura si faccia – spesso contrariamente rispetto ai suoi obiettivi – garanzia esornativa del suo corrispettivo strutturale, ossia il supercapitalismo dei nostri tempi, e della sua vittoriosa avanzata.

Qui si propone, insomma, di allontanarsi dalle dispute nominalistiche su quale prefisso sia preferibile, per sostenere che l’attuale congiuntura storica si riassuma nel “blocco” che tiene uniti l’avanzamento dell’astrazione capitalistica nella sua declinazione finanziaria e planetaria e l’estenuazione culturalista che l’accompagna. È ovvio che, trattandosi di un blocco appunto “storico”, esso descrive, al netto di tutte le coperture che l’estetizzazione diffusa permette, uno squilibrio e manifesta un conflitto: il “ritardo” della sovrastruttura sulla struttura – una postmodernità culturale che riproduce se stessa senza riuscire a emulare il passo più veloce e sostenuto dal modo di produzione capitalistico – è un sintomo che vale la pena interrogare, provando a capire se si diano ancora spazi per un alfabeto modernamente contrastivo.

Il principale ostacolo alla riabilitazione di questo alfabeto è però costituito da un ulteriore elemento, non ancora considerato: la capacità che il capitalismo presente possiede di mettere a tema la sua natura astratta e spirituale, mutandosi direttamente in struttura del sentire e del comprendere. La potenza dell’astrazione capitalistica consiste oggi nello sconvolgere il rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, presentandosi variamente nelle forme di una struttura che si fa, esteriorizzandosi, immediatamente cultura, estetica o pensiero, e di una sovrastruttura che non sembra avere margini di distacco critico dal modo di produzione e circolazione che la nutre e alimenta, perché appunto sua articolazione propulsiva. I moti di esteriorizzazione della realtà capitalistica coincidono dunque con la capacità, sempre più mimetica – e, come vedremo, sempre più dialettica –, di nascondere dominio e signoria nell’apparizione superficiale di libertà espressive ed estetiche. A quest’altezza estetizzazione e oppressione capitalistica lavorano al consolidamento di un’egemonia del “fuori” capace di ostacolare, con strumenti assai sottili, qualsivoglia accesso al “dentro”, alla profondità.

Ciò per dire che il postmoderno avanzato coincide col momento di massima abilità dell’astrazione capitalistica di mimetizzarsi e dissimularsi nella concretezza dei corpi e dei rapporti sociali, svuotandoli e riabilitandoli su un piano solo epidermico. E tale capacità deve mantenere la sovrastruttura nell’illusione placida di una sua autonomia (o semiautonomia, se si vuole), proprio perché il rallentamento (l’estenuazione o il carattere di resto, avanzo, di cui si diceva) garantisce l’adesione delle forme simboliche alle dinamiche di annientamento del concreto. Questo spiega perché nell’indistinzione di cultura e capitale che descrive quasi didascalicamente i nostri tempi occorra vedere un ritorno manipolato e amministrato (il termine è, non senza volontà, adorniano) dell’autonomia culturale, ossia dell’idea feticistica che esista un ambito tutto esteriorizzato e simbolico nel quale confinare supposte zone franche o supposti anticapitalismi di maniera3. Tale ambito estremizza il “fuori” dell’esteriorizzazione, tuttavia confinandolo e stringendolo – per svuotarlo di possibilità altre – in un “dentro” autonomistico. Cosicché il contenuto dell’esteriorizzazione patrocinato dal capitalismo del postmoderno avanzato corrisponde, non per paradosso ma proprio per ragioni strategiche ed egemoniche, a una restrizione e una chiusura. Ciò rivela la natura del tutto patologica e fuorviante di questo costante “Altrove” verso cui l’astrazione spinge la realtà sociale e le rappresentazioni che ne conseguono.

Insomma, secondo quanto segue, il postmoderno avanzato può essere letto criticamente solo se facciamo appello alla capacità diagnostica della “mediazione” e se siamo in grado di demistificare i processi di svuotamento e di risemantizzazione dei dualismi moderni messi in campo dall’astrazione capitalistica (ne abbiamo appena menzionato uno tirando in ballo la coppia “fuori”/“dentro”): insomma, se riusciamo cioè riabilitare una dialetticità che oggi suona, a causa di chi l’ha voluta confinare a modernariato, fuori tempo massimo, ma che per chi scrive costituisce l’unico modo per districarsi tra le maglie assai complesse dell’attuale condizione capitalistica, intesa appunto come “totalità” in movimento. Quest’ultimo termine, accanto allo strumento moderno della dialettica, ha subito nell’ultimo quarantennio una serie di attacchi assai violenti da parte delle filosofie post-strutturaliste, decostruzioniste e deboliste. Al contrario, nelle pagine che seguono si proverà ad allestire una difesa e un rilancio della totalità come imprescindibile strumento di comprensione. Nello specifico, si intenderà l’attuale blocco storico come espressione del dinamismo incessante di una totalizzazione, quella capitalistica, che mira a imporsi come totalità già realizzata, in un perdurante tentativo sistematico di occultare le ragioni della sua costruzione egemonica, cioè di nascondere la necessità di riformulare con costanza i suoi presupposti, assorbendoli e amministrandoli.

Ecco per quale motivo, a parere di chi scrive, il nesso superficie/profondità si rivela assai produttivo, se letto con finezza dialettica. Perché il dominio dell’astrazione capitalistica, fondato sullo svuotamento del concreto e sulla ricollocazione di quest’ultimo sul piano epidermico delle apparenze e delle forme simboliche, viene a fondarsi e rifondarsi su un processo di esteriorizzazione e superficializzazione che, invece di aprire (come del resto promette), chiude e stritola la realtà sociale in una bolla effimera di senso. E tale processo – in sé dialetticamente agguerrito, e dunque comprensibile solo se si adotta una dialettica capace di sopravanzarlo – non solo ha buon gioco a dissimularsi nelle manifestazioni espressive ed estetiche, concepite come terreno elettivo di una soggettività appunto tesa all’esteriorizzazione patologica del Sé, ma è capace di assegnare alla realtà che nutre e produce termini e alfabeti distorsivi, dotandoli di un senso solo apparentemente nuovo, perché in fondo servile alla sua causa di dominio. Per dire, insomma, che la strategia di dissimulazione del capitale entro le manifestazioni non negoziabili di libertà soggettiva fa il paio con una gestione assai raffinata di un imposto autofraintendimento che, come si dirà, colpisce anche e soprattutto il sapere critico e i gruppi sociali che a quest’ultimo guardano come pratica politica4.

Un esempio di autofraintendimento teorico – qualcosa che possiamo associare alla “rivoluzione passiva” di cui parlava, in altri contesti, Antonio Gramsci, e che costituisce uno degli esiti possibili dell’attuale congiuntura storica – concerne proprio il nesso “superficie”/“profondità”. Non casualmente, negli ultimi tempi, si sono affacciate alla ribalta proposte filosofico-culturali che intendono emancipare la superficie dai caratteri regressivi attribuitele da una certa critica moderna – e non casualmente, come vedremo nell’ultimo capitolo, queste rivendicazioni percorrono i sentieri, quasi sempre di matrice deleuziana o più generalmente post-strutturalista, di una possibile “post-critica” e di un sperata “post-teoria”. Si tratta, a mio avviso, di espressioni adesive, in larga parte neoliberali, perfettamente in linea con l’ideologia del postmoderno avanzato. Tuttavia, il grado di ambiguità che le contraddistingue è da rilevare con precisione, dal momento che costituiscono espressioni della sinergia, non più paradossale ma effettiva, tra cultura antagonistica e ideologia capitalistica.

Per quanto voglia rappresentarsi come radicale (e l’aggettivo di per sé meriterebbe una demistificazione in chiave materialistica, visti i percorsi pressoché impolitici della teoria radical degli ultimi trent’anni), il “superficialismo” appare come una risposta intellettualistica e ribellistica alle manovre di chiusura totalitaria allestite dal capitalismo avanzato. La capacità di inglobare tutto nel sistema produce, sul fronte culturale, illusorie contropartite, come l’idea ingannevole – improntata alla solita retorica dell’eccedenza rivoluzionaria – che si possa studiare, dandole credito emancipativo, la dimensione epidermica e superficiale a prescindere dalle sue determinazioni profonde e materialistiche, sia perché queste ultime la trascinerebbero inevitabilmente verso la critica claustrofobica, riduzionistica e spietata di taglio moderno (“tutta colpa del capitale!”), sia perché sulla cresta dell’onda superficiale si darebbero le possibilità di sviluppo di un “fuori” eccedente e liberatorio (fino a giungere all’idea, comica se non fosse presa seriamente, che solo dopo una piena realizzazione del capitale sia possibile accedere a questa agognata libertà). Ma la precondizione di un simile punto di vista sta nell’accettare che di per sé il capitale operi staticamente e in modo monologico. In risposta, la cultura occidentale, nel suo versante antagonistico, reagisce pertanto con l’edificazione, più poetica che politica, più metafisica che concreta, di un supposto “fuori” specularmente dinamico e pronto a fornire gli attrezzi della ribellione. E non c’è dubbio che la naturalizzazione del capitale come modernariato o dato inerte mostri la reale matrice liberale di queste posizioni, molto più inclini a sguazzare nella cultura postmoderna che a sondarne le ragioni di senso, perché in fondo incapaci di postulare, tra i propri presupposti, una critica dell’economia politica e una conseguente lotta per l’oggettività.

Dimenticano, tali filosofie immanentistiche (dagli ammiratori di Gilles Deleuze ai seguaci di Bruno Latour), un monito che Theodor W. Adorno, in tempi già sospetti, riservava sia alle false filosofie della profondità che alle più contraffatte speculazioni sulla superficie:

La profondità non consiste nel salvataggio di qualche senso misterioso, e superficiale non è quindi il pensiero che non si propone tale scopo, che dunque non afferma: basta che vada abbastanza in profondità, e ogni enigma sarà risolto. La profondità consiste nel lavoro e sforzo del concetto, per usare la famosa espressione di Hegel. La profondità non è qualcosa che è nascosto nel profondo dell’oggetto, nel suo interno, e certamente non si riduce neanche a ciò che è insito nel soggetto, allo sprofondarsi in sé – dunque –, con cui è identificata ad esempio dalle religioni orientali; la profondità è invece – per esprimerci ancora una volta in termini hegeliani – una certa posizione rispetto all’obiettività, un rapporto tra la coscienza e la realtà, e cioè quel rapporto che insiste, senza però ipostatizzare e presupporre qualcosa che risiederebbe all’interno della cosa, oppure, viceversa, nel soggetto stesso5.

La critica della cultura e la critica del capitalismo avanzato hanno pertanto il compito di difendersi dalle ipostatizzazioni del pensiero, che oggi risultano particolarmente attive nell’egemonia conseguita dalla superficie. Così come esiste il rischio di leggere la profondità alla stregua di un mistero insondabile, e di restare prigionieri di un’illusoria “profondità della superficie”, esiste dialetticamente il rischio di una superficializzazione del profondo, che si rivela nelle attuali pratiche, più cultuali che filosofiche, di glorificazione assoluta dell’immanenza. All’indicazione di Adorno – anche e soprattutto nei termini di un’autoverifica continua della propria elaborazione, a difesa di una profondità mai ontologicamente mistica e mai destorificata – le pagine che seguono vogliono materialisticamente rifarsi.

1 Roberto Finelli e Marco Gatto, Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe, Roma, Rogas, 2024.

2 David Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente [1990], Milano, Il Saggiatore, 1993.

3 Per non parlare di quanto il termine “autonomia” sia valso a identificare tutta un’area di pensiero che, nel Secondo Novecento, ha inteso spesso ritrarsi quale direttamente coinvolta nella definizione di un’alternativa politica priva di compromessi.

4 La storia dell’antagonismo di sinistra degli ultimi anni sembra dar ragione a questa diagnosi: collocandosi su un terreno postmoderno, e dunque accettandolo nei suoi presupposti, lo strumentario critico-contestativo elaborato dai soggetti antagonistici finisce per servire, senza cautele teoriche, orientamenti di senso infine adattivi e aderenti alla signoria capitalistica (si pensi alla stagione del populismo di sinistra, su cui si ritornerà).

5 Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, Einaudi, 20072, pp. 131-132.

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