Lo spazio dei possibili. Studi sul campo letterario italiano – Anna Baldini e Michele Sisto dialogano con Federico Masci e Niccolò Amelii
Seconda puntata del ciclo di interviste a cura di Federico Masci e Niccolò Amelii. La prima intervista a Tiziano Toracca si può leggere qui. Il ciclo intende coinvolgere in una conversazione aperta opere di critici che negli ultimi anni hanno riflettuto attorno alla storia della letteratura italiana novecentesca, rivalutandone tendenze, periodi e movimenti o mediante categorie influenzate dagli aggiornamenti più recenti in merito ai motivi peculiari del modernismo italiano e alle discussioni sulle questioni legate al canone dominante e ai suoi necessari aggiornamenti, o attraverso metodologie caratteristiche della sociologia letteraria o ispirate alla teoria bourdesiana del campo letterario.
1) Il ricorso alla teoria dei campi nello studio della letteratura italiana, come si rileva nell’introduzione, è un fatto relativamente recente ma consolidato che consente, data l’uniformità del metodo, «un notevole grado di confrontabilità dei risultati». Il volume raccoglie interventi di studiosi diversi, ordinati cronologicamente, che riescono a cogliere nodi problematici dagli inizi del Novecento agli albori del nuovo millennio ma, più genericamente, rappresenta il passaggio ulteriore di un progetto più ampio costituito da volumi diversi (quelli della collana “Letteratura tradotta in Italia” di Quodlibet). Dietro il disegno di lavoro complessivo è lecito cogliere soprattutto la volontà di delineare «un modo nuovo e diverso di guardare alla storia letteraria». Quali potranno essere in questo senso gli obiettivi futuri dell’applicazione della teoria bourdieusiana all’orizzonte degli studi storico-letterari italiani?
AB: Quello che ci auguriamo è che si moltiplichino le ricerche che si servono di questo potente strumento ermeneutico, e, auspicabilmente, che siano ricerche sistematiche, che cerchino cioè di ricostruire l’assetto e le trasformazioni del campo letterario in specifici momenti storici. Si tratta di un lavoro ingente, in quanto significa analizzare il rapporto tra le posizioni dominanti (quelle degli attori già affermati) e le posizioni dominate; individuare la genesi della trasformazione delle poetiche nell’azione di gruppi di nuovi entranti; individuare la reti di alleanze, interne ed esterne al campo, che servono a rafforzare le posizioni dei vari attori; studiare la genesi del canone che è arrivato fino a noi alla luce dei conflitti che ci separano dalla prima apparizione dei testi ora canonici; individuare la genesi delle opere più autonome nella conflittualità con gli attori più proni all’eteronomia – quelli, cioè, più propensi a usare il mercato o l’adesione a una politica specifica come criterio di valore e strumento di affermazione.
Ricerche sistematiche di questo tipo, purtroppo, sono sfavorite dalle condizioni in cui si svolge il nostro lavoro, e anche dai pregiudizi trasmessi dalle prassi disciplinari. Non avrei potuto tentare una ricerca sistematica come quella che ha condotto al mio libro A regola d’arte se non avessi avuto alle spalle il lavoro del gruppo “LTit – Letteratura tradotta in Italia”, avviato nel 2013: le ricerche degli altri studiosi e delle altre studiose e il continuo confronto tra noi sono stati fondamentali per consentirmi di padroneggiare una materia così vasta. In Italia però scarseggiano i finanziamenti che consentano collaborazioni di questo tipo, e la stessa idea di un lavoro collettivo in ambito umanistico è percepita come anomala. Per di più, il modo in cui è organizzato il lavoro all’interno delle università sta diventando sempre più ostile alla ricerca, il cui tempo viene continuamente eroso da impegni amministrativi la cui utilità reale per il benessere di studenti e studiosi è quantomeno dubbia.
Ciò detto, il terreno ancora da esplorare con l’approccio di storiografia totale proposto dal metodo di lavoro di Bourdieu è molto vasto: c’è molto da studiare sul Novecento e sul primo ventennio del Duemila, naturalmente, ma la prospettiva che più mi affascina è piuttosto quella che arretra nel tempo: sarebbe magnifico se studiosi e studiose competenti si mettessero a esplorare i secoli pre-moderni, per verificare se gli strumenti di Bourdieu possano servire a illuminare epoche dove il rapporto tra autonomia ed eteronomia si pone in maniera diversa rispetto alla modernità.
2) Il concetto di “habitus”, che per Bourdieu indica le disposizioni durevoli e trasponibili in cui interagiscono le “strutture oggettive” della società e il principio “attivo” che queste strutture tende a plasmare (prendendo in prestito il lessico usato da Anna Boschetti nella sua introduzione a Le regole dell’arte, Il Saggiatore 2022), può essere abbastanza elastico e duttile per spiegare anche quel minimo quoziente irriducibile di individualità proprio di ogni gesto creativo? Più in generale, quali sono le strategie e le cautele da adottare per non rischiare di cadere in un surplus di determinismo nel momento in cui si adotta un paradigma che tenta di accordare sistematicamente l’evoluzione di una poetica di un autore nella sua globalità al contestuale posizionamento all’interno del campo letterario dello stesso autore X?
MS: L’accusa di determinismo è un luogo comune della critica ostile a Bourdieu. A me sembra che la sua ‘scienza delle opere’ sia invece uno strumento molto liberante, e che consente di osservare la libertà degli scrittori (che non è mai assoluta, ma sempre relativa, come ogni forma di libertà), dando conto anche del caso e delle contingenze – ovvero dei contesti, delle relazioni – e soprattutto del mutamento. Mi paiono molto più deterministici i tentativi, ancora molto diffusi, di ricondurre le radici della scrittura di un certo autore a un solo nucleo poetico, ideologico o persino psicologico. La teoria di Bourdieu permette invece di osservare come gli scrittori nel corso della loro traiettoria possano cambiare poetica, cambiare posizioni politiche e perfino habitus, perché l’habitus è storia incorporata, e cambia con la storia (dell’individuo e del mondo sociale). In questo senso è esemplare il volume di Anna Boschetti su Benedetto Croce, appena uscito, che mostra come la traiettoria di Croce sia estremamente articolata e complessa, e come la si possa spiegare ricostruendo le sue prese di posizione non solo nel campo filosofico o letterario, ma anche in quello scientifico e in quello politico.
AB: Mi sembra che il titolo che abbiamo scelto per questo libro, Lo spazio dei possibili, ponga l’accento sul campo letterario non come luogo di determinismi, ma di occasioni, di opportunità. È vero che le traiettorie dei singoli individui sono orientate dai capitali da loro posseduti, dal posizionamento che ne deriva e dalla traiettoria di questi posizionamenti nel tempo; lo stesso sguardo che ognuno di noi getta sul mondo, e sulla rosa di opportunità che ci si apre dinanzi, è orientato dalla posizione che occupiamo. L’analisi di campo però dovrebbe essere vista non come uno strumento di previsione deterministica, ma piuttosto come uno strumento per spiegare il modo in cui uno scrittore o una scrittrice arriva ad occupare quella posizione, e il modo in cui la occupa, e come questa postura e quella posizione si riflettano nella creazione delle sue opere.
3) Nel tuo saggio sulle avanguardie fiorentine perfezioni un discorso già avviato nei primi capitoli del volume A regola d’arte. Storia e geografia del campo letterario italiano (1902-1936). Lo studio dell’ambiente de “La Voce”, tra gli altri, si rivela «[…] punto d’incontro di diverse avanguardie, ognuna interessata a sovvertire la gerarchia di uno specifico campo sociale». La prospettiva descritta nel saggio non concede però nulla a schematismi ideologico-culturali che permetterebbero di distinguere in categorie nette gli attori di questa fase della storia letteraria italiana. Il tutto, infatti, viene descritto a partire da una posizione dichiaratamente policentrica: su “La Voce” scrivono autori diversi, da Gaetano Salvemini a Ardengo Soffici a Clemente Rebora. Quali dinamiche accomunano di più, al netto delle numerose differenze, gli intellettuali vicini all’ambiente dell’avanguardia fiorentino-milanese, e in contrasto a quali altre forme di posizionamento?
AB. In realtà il percorso di ricerca è stato inverso: il saggio pubblicato nello Spazio dei possibili è la traduzione di un articolo apparso in inglese nel 2018 che, come numerosi altri, faceva parte dei materiali preparatori del libro. Nel libro approfondisco meglio i conflitti e le battaglie dei primi quindici anni del secolo seguendo l’evoluzione dell’avanguardia fiorentina con quella della rivale, i futuristi. Solo ponendo in relazione l’operato e i risultati delle due avanguardie è possibile comprendere i motivi di discordia tra i due gruppi, le loro interpretazioni opposte del valore letterario, e anche le ragioni che portano a una breve alleanza nella rivista «Lacerba».
La storiografia artistica si è sempre trovata in difficoltà a inquadrare in un’unica formula l’operato di un’avanguardia cioè, nei termini di Bourdieu, un’alleanza di nuovi entranti ancora privi di capitale simbolico interessati a cambiare le regole del gioco letterario. Alle origini di queste alleanze sta innanzitutto l’opposizione all’esistente – la condivisione di odî comuni, più che di obiettivi comuni, come ha scritto Prezzolini. Inizialmente le persone che si aggregano in un’avanguardia sono accomunate dall’obiettivo di far saltare il banco, cioè di rinnovare le “regole dell’arte” stabilite dai predecessori, che proprio grazie ad esse hanno guadagnato la posizione di prestigio che occupano. Man mano, poi, che le posizioni dei singoli si consolidano, le alleanze si sfaldano e le traiettorie si evolvono e si separano: è impossibile, perciò, rinchiudere biografie artistiche spesso di lunga durata in una formuletta già poco esplicativa per le loro origini. Il fattore tempo è insomma essenziale per comprendere il cambiamento in questi universi relazionali.
4) Nel suo tentativo sistemico di oggettivare i meccanismi che sottostanno alla genesi e all’evoluzione del campo letterario (aspetti legati alle condizioni sociali della produzione, della circolazione e della ricezione dei fenomeni culturali), l’approccio bourdieusiano tenta di superare l’impasse di tanta critica marxista del secondo Novecento ancorata alla teoria del “rispecchiamento”, per cui la produzione sociale e culturale è sovrastrutturale rispetto alla struttura economica. Rifunzionalizzato oggi in un’ottica di ripensamento delle categorie con cui si continua a studiare e a veicolare la storia della letteratura questo approccio che cosa offre in più, invece, in termini di acquisizioni ermeneutiche e di efficacia metodologica, rispetto alla sociologia della letteratura?
AB: Bourdieu ha contribuito moltissimo ad allargare il dominio della sociologia a quella che ha chiamato economia dei beni simbolici. Senza una considerazione dell’elemento simbolico – vale a dire, di ciò cui un certo settore del mondo sociale conferisce valore – non solo i campi artistici ma anche altri universi sociali (quello religioso, quello della moda…) risultano incomprensibili. L’elemento simbolico si può rintracciare persino nelle dinamiche di chi agisce nei campi economici.
Se il modello marxista era una specie di modello verticale, quello di Bourdieu somiglia piuttosto a un polisistema, dove le logiche autonome di un campo sono influenzate e polarizzate dall’inserzione di altre logiche – logiche che sono, a loro volta, autonome, nella loro campo, nella loro “bolla”. Si tratta di un modello più complesso e indubbiamente difficile da maneggiare tenendo in considerazione tutte le implicazioni.
MS: Aggiungerei solo una cosa. La teoria di Bourdieu non è, a mio modo di vedere, solo una forma particolarmente raffinata di sociologia, ma una teoria del mondo sociale nel suo insieme, che per ambizione può essere paragonata a una filosofia o a un’antropologia. Meditazioni pascaliane è un libro che non nasconde le sue ambizioni filosofiche, che a ben vedere si ritrovano in tutti i lavori di Bourdieu. Le regole dell’arte è una teoria della letteratura che, a partire dal tentativo di indagare sulla base di una teoria generale della società il funzionamento dell’arte nella modernità capitalistica, dà elementi per comprendere che cos’è l’arte tout court. Il punto qualificante è che Bourdieu non dà, come non dà di alcun fenomeno, una definizione essenzialista (l’arte è…), ma ne propone una comprensione relazionale, calando l’arte nella storia, ovvero nella società. Penso sia di fatto impossibile dare una teoria dell’arte senza avere una teoria del tutto, vale a dire una filosofia, o al limite una religione: e infatti pressoché tutte le teorie dell’arte di cui disponiamo si fondano in ultima istanza sul platonismo, sul cristianesimo, sulla dialettica hegeliana, sul marxismo… In questo senso potremmo definire il pensiero di Bourdieu una sorta di derivazione del marxismo, un tentativo cioè di teoria materialista, esteso però – soprattutto attraverso Cassirer – agli aspetti simbolici della vita umana, che sono in fondo il principale oggetto del suo interesse.
5) Nel contributo dedicato alle forme del web letterario italiano ti interroghi su alcune modalità di funzionamento di questo sottocampo virtuale e in particolare ti chiedi quanto l’organizzazione di «spazi specifici sul web» possa effettivamente contribuire o influenzare, senza rappresentarle passivamente, «la struttura, le gerarchie e la doxa di un campo letterario». Rispetto agli anni analizzati nel saggio, che circoscrivono principalmente il primo decennio del Duemila, quali considerazioni muoveresti oggi per mettere in luce «i processi attraverso i quali è ancora possibile accumulare capitale simbolico e acquisire legittimazione specifica», in un contesto dove la legittimità «del sottocampo letterario del web» può definirsi ancora non consolidata, pur continuando a rappresentare «uno dei luoghi legittimi per la produzione, promozione, discussione e consacrazione della letteratura» contemporanea?
MS: La domanda che mi aveva mosso (ci aveva, perché la prima stesura del saggio, apparsa su Allegoria, è stata scritta a quattro mani con Francesco Guglieri) era verificare se e in che misura, data la recente, progressiva perdita di autonomia del polo di produzione ristretta che secondo Bourdieu a partire da Baudelaire è la sola zona sociale dove predomina la logica artistica (in contrapposizione a quelle del mercato e della politica), ci fossero nel web luoghi in cui è possibile creare valore specifico, valore letterario. C’è l’università, certo, ci sono ancora alcune riviste letterarie militanti, alcuni premi; ma il web, o più precisamente alcuni spazi del web che io chiamo “sottocampo di produzione ristretta”, si sono dimostrati particolarmente vitali da questo punto di vista, proprio perché rifiutano la logica economica, e puntano – attraverso un lavoro di scrittura e di critica in genere non retribuito – ad accumulare profitti simbolici. La logica che struttura il campo letterario, constatavamo nel 2010, è ancora viva, genera ancora uno spazio dei possibili in cui è consentito scrivere e giudicare letteratura non per tornaconto economico, ma sulla base di valori specifici. Questa ci pareva una buona notizia. Da allora non è cambiato molto, mi pare. In Italia (in Germania p.es. non è così) il web, insieme alle poche istituzioni sopra menzionate, è ancora lo spazio probabilmente più vitale del campo letterario, per quel che attiene alla creazione di valore. In questo senso la sua legittimità si è ulteriormente consolidata: è interessante che dopo il 2010 anche istituzioni letterarie come l’università (penso a Le parole e le cose, a Doppiozero, a una rivista tradizionale come la stessa Allegoria) o l’editoria di ricerca (penso a minima&moralia) abbiano aperto spazi sul web dedicati alla discussione specifica. Se ne sono anzi aperti moltissimi, in tutte le zone del “sottocampo” del web, da quelle più autonome a quelle più eteronome. Quello che si è perso, mi verrebbe da dire, è la dimensione comunitaria della discussione, la lotta fra posizioni e fra poetiche, che aveva trovato uno spazio importante p.es. nei commenti su Nazione indiana, o nelle interazioni fra NI, Carmilla e altri blog. Oggi ogni blog o rivista tende a stare per conto suo, per così dire a monologare. La discussione si è probabilmente spostata sui social media, che però io non frequento, e che andrebbero studiati da questo punto di vista (come anche Youtube e il fenomeno degli influencer letterari). Ho però l’impressione che su Facebook, Instagram e X predominino, al momento, l’autopromozione e la polemica, e non ci sia ancora capacità strutturale di generare valore simbolico.
6) In un’ottica di revisione metodica del canone del Novecento italiano, che tenga appunto conto di fattori “nuovi” – il sistema delle traduzioni, per fare un esempio paradigmatico –, verificati empiricamente all’interno della disamina del campo di riferimento, che posto occupa l’indagine stilistico-formale delle opere? Costruire una mappatura più ampia e dettagliata del continente letterario del secolo scorso – una sorta di “Storia mondiale della letteratura italiana” –, tenendo insieme tutti i fattori interrelati propri del campo letterario – sociali, simbolici, economici, culturali, estetici – e al contempo rinunciando a qualsiasi operazione di filtraggio e valutazione critica, potrebbe risultare un’operazione sostenibile?
MS: Perché rinunciare a qualsiasi valutazione critica? Credo che non si debbano confondere i piani. Da una parte – come ho provato ad argomentare nell’ultima parte del saggio World literature(s). Traduzioni e storia letteraria nazionale– la storia letteraria è una forma di storiografia, e come tale è chiamata a ricostruire come sono andate le cose: la genesi di certi valori letterari, delle opere, i dibattiti, le diverse prese di posizione, le relazioni di dominio, le rivoluzioni simboliche, ecc. In questo la filologia, intesa in senso lato, ha già fatto molto, e credo che la teoria dei campi possa essere utile a fare ancora di più, tenendo conto strutturalmente dell’aspetto socio-simbolico della produzione letteraria. Dall’altra la storia letteraria ha, da quando è nata, come parte della costruzione delle culture nazionali, il compito di definire il canone, di sintetizzare cioè i risultati del dibattito critico in merito agli autori e ai libri che meritano di avere la priorità nell’insegnamento scolastico. Sono due compiti molto diversi, che penso vadano tenuti distinti, anche se è naturale che in parte interferiscano, ovvero che il canone oggi vigente influisca sulle nostre indagini storiche e che le indagini storiche influiscano sulla definizione del canone. L’idea di una “storia mondiale della letteratura italiana” andrebbe dunque realizzata su entrambi i piani. Da una parte bisognerebbe ricostruire quale ruolo, di epoca in epoca, le traduzioni di opere letterarie abbiano avuto nel proporre modelli, poetiche, stili, forme e contenuti, così come nell’alimentare le discussioni su cosa debba essere la letteratura: in generale le traduzioni sono un pezzo, e non poco consistente, della produzione letteraria italiana, e non vedo perché non prenderle in considerazione nelle ricostruzioni storiche che ne facciamo. Dall’altra sarebbe, credo, una cosa utile, individuare un canone delle traduzioni, ovvero quei testi che meritano di essere riletti a distanza di decenni o di secoli, perché le riconosciamo come opere d’arte in quanto traduzioni. La traduzione, sosteneva Emilio Mattioli, può essere considerata un genere letterario: se definiamo un canone del romanzo, un canone della poesia, ecc., perché non definire anche un canone delle traduzioni? In un certo senso già esiste – ne fanno parte tanto l’Iliade di Monti quanto i Lirici greci di Quasimodo –, ma definirlo più precisamente attraverso un’indagine sistematica sarebbe utile per molte ragioni, anche didattiche. Non ultima quella di sottolineare la connessione, che in larga misura si stabilisce proprio attraverso le traduzioni, fra la letteratura italiana e le letterature del mondo. Ma anche per l’utilità che la traduzione ha come esercizio riflessivo sul testo altro: penso per esempio agli studi di Franco Nasi, che spesso mette a confronto diverse traduzioni dello stesso testo, con esiti eccezionali sia per la conoscenza dell’originale sia per quella del lavoro, delle poetiche, delle scelte formali dei traduttori italiani, e della cultura letteraria in cui si sono trovati (o si trovano) ad operare.
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