Il convegno di LN: le relazioni/1. I docenti di lettere e la didattica della letteratura
Inizia oggi la pubblicazione settimanale, nel giorno di martedì, di tutte le relazioni e delle restituzioni dei laboratori presentate e discusse durante il primo convegno di LN, che si è svolto a Palermo il 3 e 4 ottobre 2024. In coda all’articolo è disponibile il testo pdf in dowload e il video dell’intervento.
INTERVENTO ROBERTO CONTU
Buongiorno a tutte e a tutti, un saluto ai presenti e alle presenti, un saluto caro a chi è collegata e collegato a distanza, un ringraziamento sentito a chi ci ospita e ci ha permesso di ritrovarci qui oggi.
Siamo qui oggi, come insegnanti di lettere, come donne e uomini impegnanti nella società, nella scuola, nell’università, siamo qui oggi nel nostro piccolo anche come comunità umana e intellettuale che porta avanti il proprio percorso nel blog laletteraturaenoi, siamo qui oggi a interrogarci su questo tempo, sulla «funzione delle umane lettere», come annunciato in questo nostro primo convegno, che inaugura il secondo decennio di vita del nostro blog.
Sì, siamo qui oggi in difesa del pensiero critico, in difesa di una didattica non asservita, ovvero di una teoria, di una pratica dell’insegnare che consideri ancora ostinatamente la letteratura, il testo, la parola pensata ed espressa, storicizzata, vivificata nel conflitto dell’interpretare, pietra angolare del nostro essere nel mondo, tra i banchi, con le studentesse e gli studenti, in un tempo di disumanizzazione della vita, del senso stesso dell’essere civiltà, dell’essere comunità.
Siamo qui oggi a reclamare ostinatamente senso alla pratica della letteratura, in difesa della sua centralità nell’ultimo luogo che riteniamo franco, la scuola, e con essa l’università, nonostante gli scenari plumbei di cui siamo ben consapevoli, nonostante le forme ambigue che sedimentano in contenuti interessati che vorrebbero asservirla e di cui dirà ora dirà Daniele Lo Vetere, nonostante l’ipoteca sul futuro che mostrano le nuove politiche di formazione dei docenti, di programmazione degli impianti culturali, del destino stesso di ciò che insegniamo e ci cui diranno poi Luisa Mirone e Stefano Rossetti.
Sì, siamo qui oggi a dichiarare il valore irrinunciabile della pratica letteraria nell’ultimo luogo forse ancora per poco immune alla deriva del mercato, della mercificazione delle coscienze, dell’individualismo, del cinismo e del narcisismo, quella stessa scuola dove forse, proprio in questo momento, mentre sto parlando, ne sono certo, ne siamo certi, qualche insegnante starà facendo esperienza con la propria classe, al cospetto di una pagina importante, alta, necessaria, di come il coraggio di mettere al centro quelle parole, di liberare quel coacervo di tensioni che si genera tra il testo e l’extra testo, tra ciò che fu e ed stato, ciò che è oggi, ciò che è adesso, sia ancora fare pratica quotidiana del sollevare ostinatamente lo sguardo verso un orizzonte di senso, una risposta che sia politica, una parola che non sia innocua.
Perché certo che non è innocua la letteratura in cui crediamo, la letteratura che insegniamo, la letteratura che leggiamo, come ci diranno poi Linda Cavadini ed Emanuela Bandini
Non sono state innocue, penso a una mia terza dell’anno passato, ad esempio le parole di Petrarca:
Il mio grave dolore nasce di qui. Mi trovo infatti nelle condizioni di colui che sia chiuso da ogni parte da un numero enorme di nemici, senza possibilità di scampo, senza speranza di misericordia, senza conforto.
Le parole di Petrarca che nel secondo libro del Secretum parlando dell’accidia, del mezzogiorno dell’anima, di una malattia che non permette riposo, di quel sentirsi fuori posto nonostante tutto sia a posto, di percepirsi come dirà qualcun altro «fuori di chiave», hanno fatto sì che Luca poi mi abbia cercato sul corridoio, per confidare di essersi sentito invaso da quelle parole, messo in tensione, scosso, discusso.
Non sono state innocue le parole de La Storia, le parole de La Storia per Alice e la sua classe, Alice che stamane è in facoltà in una delle sue prime lezioni del primo anno, e che l’anno passato ha letto come me, i suoi compagni, le sue compagne per intero il romanzo di Elsa Morante, Alice che mi ha dato il permesso di mostrare queste due pagine anche questa mattina:
Alice, che quella mattina di quasi un anno fa, durante la restituzione del primo troncone di lettura assegnato, mi aveva mostrato il suo libro, sul quale aveva sottolineato furiosamente queste parole di Ida, appena dopo la violenza subita:
Essa non aveva mai avuto confidenza col proprio corpo, al punto che non lo guardava nemmeno quando si lavava. Il suo corpo era cresciuto con lei come un estraneo; e neppure nella sua prima giovinezza non era stato mai bello, grasso alle caviglie, con le spalle esili e il petto precocemente sfiorito.
Le parole di Ida che poi avremmo discusso insieme quel giorno tutti insieme in classe, una di quelle mattine in cui ancora, a scuola, la letteratura sa mostrare di cosa sia capace se la lasciamo libera di essere, di fare, di educare, di farci mettere i piedi nei territori dell’indicibile ma perché orientati verso un orizzonte di senso. Le parole della letteratura, quelle di Ida Ramundo, che Alice aveva glossato con le sue di parole:
«Il corpo post gravidanza è ancora un corpo di donna meraviglioso».
Sì, ne sono certo, siamo certi, che proprio in questo momento, qualche insegnante starà facendo esperienza con la sua classe, al cospetto di una pagina importante, alta, necessaria, di come fare letteratura sia veramente fare scuola. Che avrà saputo fare tacere il rumore di fondo di chi vorrebbe la sua ora annegata nelle burocrazie inutili, nello svilimento delle pratiche disincarnate dalla pratica d’aula e dalla centralità, quella vera e non paternalista né maternalista, dello studente, veramente rispettato solo quando ci si fa carico dell’onere di accompagnarlo alla scoperta di ciò che conta, di ciò che risponde, ma anche di ciò che è alto e che sfida, che a volte impaluda. Perché fare letteratura è anche questo, è avere a che fare con allegorie dell’esistere, sia quando esso sia respirare l’aria buona dei cieli tersi, ma anche quando si erra nelle selve intricate di quanto ci è ostile.
Se ciò avviene, e avviene per quanto ci riguarda, ed è questa anche la nostra idea anche di una vera didattica della letteratura, solo se si è onesti e fondati in ciò che si porta in classe, se non ci si sottrare all’onere del commento, serio storicizzato, per potere capire in classe, ovvero della premessa necessaria e ineludibile alla pratica dell’interpretare per potere comprendere in classe, allora la letteratura diventa strumento vero di emancipazione, di crescita, di restituzione di dignità: perché comprendere, prendere con sé le parole della letteratura, l’opzione conoscitiva delle umane lettere, significa oggi volere restituire la presenza al mondo, in questo difficile tempo, a chi abita le nostre aule.
Colpisce quanto spesso e purtroppo noi adulti con responsabilità educative nella scuola, nell’università, recintati dietro le barriere fittizie di un lessico anestetizzato, di un presunto efficientismo burocratico, da paradigmi pedagogici troppo spesso vuoti e posticci, che fanno violenza a una sana e preziosa vera pedagogia, dalle parole d’ordine di un mercato che letteralmente sta comprandosi pezzo per pezzo la scuola pubblica, attraverso le sue piattaforme, i propri brand, i propri strumenti e quindi le proprie logiche, che non possono non essere logiche di interesse privato, colpisce quanto proprio noi docenti e quindi educatori, chiamati all’atto liberante del tirare fuori, rischiamo di perdere di vista i contorni di un mondo che letteralmente va a fuoco sotto i nostri occhi: la guerra che dilaga ovunque, la crisi ambientale, la rivoluzione demografica, l’individualismo e il dogma del mercato di un realismo capitalista oramai ontologicamente non trascendibile.
E colpisce a riguardo quanto noi per primi accettiamo di farci sottrarre il potere eversivo e liberante della letteratura che conta dall’equivoco dei “buoni sentimenti”, da presunti “portati emozionali” dei testi, dal principio di piacere elevato a dogma e dalla presunta noia come criterio unico del rigetto di fatto e della selezione utilitaristica dei testi.
Colpisce perché, proprio a fronte di quanto detto, a fronte della rimozione anche da parte della classe docente di un mondo che letteralmente brucia attorno a noi, oggi più che mai occorrerebbe invece tornare dire con tutta la forza necessaria quanto il raccontare lo straniamento delle prime righe di Rosso Malpelo sia tenere viva una tensione che educhi i nostri studenti a disinnescare tutti gli automatismi della percezione che ci circondano, ad imparare smascherare davvero, grazie alla familiarità con quella tensione, ciò che è presentato come normale e che invece non lo è affatto e viceversa. A quanto sia vitale tornare a ragionare come Machiavelli su ciò che è e non su ciò che vorremmo che fosse, a ragionare con senso della storia sull’utopia, sulla sua domanda, a percepire con Montale tutta la forza conoscitiva necessaria per stare nella zona faticosa ma preziosa del limite del senso, a registrarne le vibrazioni adulte delle crepe che si aprono.
A diventare insomma uomini e donne anche e in virtù della familiarità, come ha scritto Emanuele Zinato qualche giorno fa sul nostro blog, con tutte «le invettive, idiosincrasie, asocialità, rabbia, incoerenza ideologica e logica» dei personaggi della letteratura, che spesso e per fortuna, come scrive sempre Zinato sono spesso «scomodi, scissi, inaffidabili, perfino ripugnanti, che sono ambigui e sono polisemici».
Un giorno, mentre dialogava con gli studenti sulla poesia, Franco Fortini disse: «Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla».
Ecco, questo noi lo crediamo fortemente, anche oggi.
Nel coraggio di continuare a fare letteratura in classe, a scuola, nelle università, nel commentare i testi per capirli, nell’interpretarli per comprenderli, c’è scritto dentro questo atto creativo, questa trasformazione della materia che in un ultima analisi può significare anche la costruzione di un mondo più degno.
Perché certo non salva la letteratura, non serve la letteratura, ma accomuna la letteratura, ci rende comunità, rende la classe comunità nel momento stesso in cui, grazie alla mediazione dell’insegnante è comunità che interpreta, e solo le comunità, se sono tali, sono in grado di codificare risposte che saldino le catene sociali, sanno trovare codici, parole, silenzi che sappiano porre argine a ciò che umano non è.
INTERVENTO DANIELE LO VETERE
Vorrei iniziare da un doppio confronto. Il primo è tra la lettera sull’insegnamento della letteratura di papa Francesco, pubblicata il 2 agosto di quest’anno, da un lato e,dall’altro, le Raccomandazioni del Consiglio europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018, nella parte relativa all’ultima (fra 8): la «competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali». Così si esprime papa Bergoglio in un passaggio della lettera:
Quando il mio pensiero si rivolge alla letteratura, mi viene in mente ciò che il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges diceva ai suoi studenti: la cosa più importante è leggere, entrare in contatto diretto con la letteratura, immergersi nel testo vivo che ci sta davanti, più che fissarsi sulle idee e i commenti critici. E Borges spiegava questa idea ai suoi studenti dicendo loro che forse all’inizio avrebbero capito poco di ciò che stavano leggendo, ma che in ogni caso essi avrebbero ascoltato “la voce di qualcuno”. Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce di qualcuno. E non si dimentichi quanto sia pericoloso smettere di ascoltare la voce dell’altro che ci interpella! Si cade subito nell’autoisolamento, si accede ad una sorta di sordità “spirituale”, la quale incide negativamente pure sul rapporto con noi stessi e sul rapporto con Dio, a prescindere da quanta teologia o psicologia abbiamo potuto studiare.
Ecco ora le prime righe delle Raccomandazioni europee relative all’ottava competenza:
La competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali implica la comprensione e il rispetto di come le idee e i significati vengono espressi creativamente e comunicati in diverse culture e tramite tutta una serie di arti e altre forme culturali. Presuppone l’impegno di capire, sviluppare ed esprimere le proprie idee e il senso della propria funzione o del proprio ruolo nella società in una serie di modi e contesti.
Traggo il secondo confronto dalle pagine conclusive de La grande cecità di Amitav Gosh (2016, trad. it. 2017, Neri Pozza), un saggio dedicato al cambiamento climatico e al fatto che la letteratura, salvo quella di genere fantascientifico e distopico, non sia stata in grado di raccontare quello che è il fatto più gigantesco e ineludibile del nostro tempo. Gosh pensa sopratutto al romanzo, genere che nei due secoli precedenti era stato in grado di rappresentare la totalità della propria epoca.
Lo scrittore confronta due testi, entrambi del 2015 ed entrambi dedicati al cambiamento climatico: l’enclica papale Laudato si’. Sulla cura della casa comune el’Accordo di Parigi.Scrive Gosh: «ci si poteva […] immaginare che, trattandosi di un testo di carattere religioso, l’Enclica del papa fosse scritta in uno stile allusivo e fiorito, e che l’Accordo di Parigi fosse invece cristallino e incisivo. […] In realtà è vero il contrario» (p. 182). E non si tratta solo di stile, ma di sostanza politica: «si potrebbe pensare che l’Enclica contenga più illusioni e pii desideri rispetto all’Accordo. Invece no, non è così. È piuttosto l’Accordo di Parigi a invocare ripetutamente l’impossibile: ad esempio l’ipotetico proposito di limitare l’aumento della temperatura media globale a un grado e mezzo, obiettivo quasi unanimemente considerato irraggiungibile» (p. 184).
Osserva Gosh che nell’Accordo di Parigi non si mettono mai in discussione i paradigmi politici ed economici dominanti, mentre l’Enciclica «è estremamente dura nei confronti dell’idea di “una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia” [Laudato si’]» (p. 185).
Nell’Accordo di Parigi «il linguaggio [è] usato come strumento di dissimulazione e ritegno» (p. 186): nell’Enclica si leggono parole esplicite come «catastrofe» e «disastro», nell’Accordo si parla eufemisticamente di «impatti» ed «effetti dannosi» del cambiamento climatico. Non solo, Gosh cita dal testo dell’Accordo alcune espressioni che non dovrebbero esserci ignote, perché ricorrono anche nei documenti in cui si parla di riforme scolastiche: «accelerare, favorire e consentire l’innovazione», «stakeholder», «buone pratiche», «partecipazione del settore pubblico e privato», «trasferimento tecnologico» (p. 188).
Insomma, l’Accordo di Parigi è, per lo scrittore,
uno schermo volto a celare intese implicite, patti non confessati e sotterfugi decifrabili solo dai beninformati. Non è un segreto che miliardari, grandi aziende e “imprenditori climatici” hanno svolto un ruolo importante nei negoziati di Parigi. […] Come spesso accade coi testi, la retorica dell’Accordo serve a chiarire molto di ciò che viene taciuto, ovvero che il suo intento, già in parte raggiunto, è creare un’ulteriore frontiera neoliberale dove le grandi aziende, gli imprenditori e i funzionari pubblici potranno unire le forze per arricchirsi a vicenda (pp. 187-188).
Il linguaggio del Papa e il linguaggio dei tecnocrati
Che cosa c’entra tutto questo con il nostro convegno? Se tornate a leggere i testi che vi ho proposto, noterete che la lettera del papa parla della letteratura e del suo insegnamento in un linguaggio che mescola la concreta esperienza e la raffinata cultura, rinvenibili, la prima, nella frequenza dei riferimenti alla memoria personale e ai sentimenti del lettore davanti a un testo – sentimenti semplici, non particolarmente sofisticati: immedesimazione, dialogo con l’altro, memoria, raccoglimento in sé –, la seconda, nei ricchi riferimenti letterari, teologici e biblici. In quel testo l’esperienza umana e la cultura umanistica e religiosa sono ancora tessute insieme, si richiamano organicamente. Vi si parla un linguaggio umano, prima che umanistico.
Come si parla invece di letteratura nei documenti della tecnocrazia europea? In realtà non se ne parla affatto: la parola “letteratura” e “cultura umanistica” sono scomparse. Quel che ne resta è diventato una fra «otto competenze chiave» – l’ultima tra l’altro, dopo l’«imparare a imparare» e la «competenza imprenditoriale» – e galleggia in un linguaggio privo di determinazioni specifiche, astratto, adulterato, sofisticato, vuoto, “derealizzato”: «significati espressi creativamente e comunicati… tramite tutta una serie di arti e altre forme culturali… in una serie di modi e contesti».
È anche un linguaggio che sembra mettere al centro l’individuo, ma è un individuo che galleggia anch’esso nel vuoto, privo di mondo e di senso, e che esprime se stesso senza però ascoltare l’altro – come invitava a fare papa Francesco.Questo è anche il linguaggio con cui oggi si parla di educazione e cultura. Non è nemmeno il linguaggio della pedagogia, almeno della pedagogia più nutrita di filosofia, storia, umanesimo. È piuttosto il linguaggio di una buropedagogia o è un ibrido di linguaggi non legati all’educazione che sono diventati egemoni, come ha osservato Gert Biesta:
Nel discorso pubblico sull’educazione le voci della psicologia, della sociologia, dell’economia e della teoria delle organizzazioni sono diventate più autorevoli della voce dell’educazione stessa, e ciò pone l’educazione nella non invidiabile posizione di dover tradurre conoscenze maturate “altrove” dalla pratica educativa (G. Biesta, Il mondo al centro dell’educazione, Tab edizioni, 2023, ebook, pos. 2024).
Tutto ciò ci vede benissimo nel Sillabo sull’imprenditorialità (2018), competenza che sembra davvero ambire, come ha scritto Rossella Latempa, a essere una «Teoria del Tutto» («La competenza imprenditoriale: una cosmologica “Teoria del Tutto” per il terzo millennio?», in rete su Roars, in tre parti: 9, 12 e 15 aprile 2018).
Un’ideologia e una visione del mondo
C’è un termine per definire tutto questo: governance. Per il suo maggior critico, Alain Denault, la governance riduce la politica a una tecnica e fa ricorso scientemente a un pensiero disincarnato. È un linguaggio post-politico, che cancella i nostri riferimenti ideologici tradizionali (ad es. la distinzione tra destra e sinistra) e li sostituisce con “sfide gestionali”, problemi pratici da risolvere “pragmaticamente”. È anche un linguaggio post-umanistico, se quello del papa è invece ancora un linguaggio umanistico.
Questo linguaggio ha vinto, perché ha saputo diventare senso comune, ben al di là dell’ambito educativo. È una visione del mondo, si sarebbe detto una volta. È dunque un linguaggio ideologico, ovvero un linguaggio che si fa naturale, che viene percepito come ovvio e impedisce di pensare al di fuori della sua grammatica. Poiché si presenta, tra l’altro, come il linguaggio dell’innovazione e del progresso, chiunque gli si opponga, come sappiamo bene, viene immediatamente squalificato come “conservatore”. Ma questo linguaggio – il linguaggio del potere di oggi – ha il gravissimo difetto di separarci dalla realtà e dal mondo, dalle cose che amiamo e che ci sono prossime. Ci impedisce, ad esempio, di parlare di letteratura schiettamente, per quello che d’umano essa contiene.
La parola “disumanizzazione”, che Romano Luperini ci ha suggerito come titolo di questo convegno, può avere accezioni diverse. Quella che vorrei suggerire io è questa: abbiamo due linguaggi, uno umano, l’altro disumano. E questo secondo linguaggio è disumano non perché sia barbarico o violento, ma perché è adulterante, alienante, falsificante, e perché, liquidando l’umanesimo, dimostra di essere un linguaggio, se mi si passa il brutto neologismo, “disumanistico”. È anche un linguaggio che sembra mettere al centro la persona, lo studente, e invece lo immerge in un mondo “derealizzato”.
Come il secondo confronto dovrebbe aver fatto capire, non è in ballo solo l’educazione. È addirittura il destino della specie umana che è a rischio. Naturalmente la letteratura – di cui il Cantico delle creature che ispira la Laudato si’ vale per noi italiani come epitome e capostipite – non salva il mondo. Essa però permette almeno di parlare della nostra posizione in esso senza la “dissimulazione” e il “ritegno” del linguaggio del potere. Letteratura, didattica, politica si richiamano strettamente. La didattica, che viene oggi intesa per lo più come tecnica, ha invece a che fare con la politica: non nel senso che si debba per forza dare un’intenzione e un taglio politici all’approccio alla letteratura, ma nel senso che la didattica e la pedagogia sono sempre ideologicamente orientate, così come è ideologicamente non neutrale il linguaggio dei tecnocrati e della governance. Ma se quella visione del mondo non è accettabile, perché disumana, “disumanistica” e distruttiva, allora nemmeno la forma che ha dato all’educazione è accettabile. Ad essa noi docenti di lettere dobbiamo opporre ancora e sempre il linguaggio vivo, prossimo e concreto dell’umanesimo e dell’umano, continuando a fare letteratura.
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