Antropologia del potere. Intervista a Daniela Ranieri
Giornalista per Il fatto quotidiano e narratrice, Daniela Ranieri è fra le figure più interessanti della scrittura italiana contemporanea. Nel 2022, con Stradario aggiornato di tutti i miei baci, è stata finalista allo Strega e premio selezione Campiello, ma lo spessore dei temi, l’impianto raffinato, il linguaggio magnifico e insieme stringente dei suoi romanzi si erano già imposti con Mille esempi di cani smarriti (recensito per questo blog da Valentina Sturli), e ancora prima. Riccardo Castellana ha ricostruito con acume l’itinerario artistico di Ranieri e pertanto rimandiamo senz’altro a lui chi desiderasse ripercorrerlo per incontrare questa scrittrice: difficile intercettarla sui sentieri editoriali segnati dalle logiche del mercato, la si raggiunge leggendo i suoi libri (tutti editi da Ponte alle Grazie). Antropologa ed esperta di teoria e ricerca sociale, Ranieri mette la sua esperienza di studiosa al servizio dell’indagine romanzesca, tracciando per il genere-romanzo coordinate (e funzioni) inusitate, dettate dalle emergenze di una società che riconduce ogni relazione a rapporto di potere. Diretta, precisa, espansiva, non si nasconde, non posa, non schiva le domande. A quelle che le ho posto ha risposto generosamente qui.
D1. Giornalista e narratrice. Sono solo etichette o davvero individuano due modi d’essere, due posture diverse di fronte alla realtà (storia, politica, natura, esistenze ordinarie di comuni mortali)? Sono due dimensioni che confliggono o che si integrano? Cosa deve (se qualcosa deve), cosa insegna (se qualcosa insegna) la giornalista alla narratrice, la scrittura dell’una alla scrittura dell’altra? In cosa (viceversa) si limitano o per cosa addirittura vicendevolmente si detestano?
R1. Per me sono sempre state due attività complementari. Sono due toni, due registri differenti della stessa voce, la mia. Apparentemente si tratta di ambiti divergenti, se non altro per la dimensione temporale dentro cui piombano: i giornali si occupano di attualità, la letteratura è inattuale, almeno come la intendono i grandi letterati, penso a Gadda. Eppure anche uno come Gadda scrisse per i giornali, nelle pagine culturali, definendo questo lavoro una corvée “da scribacchino fesso”. Giorgio Manganelli scrisse su Messaggero, Corriere della Sera etc. e non perse mai la sua inattualità e la sua “asocialità”, cui teneva: un prodigio. Buzzati sul Corriere scriveva anche di cronaca nera e fumetti. E potrei fare tanti altri nomi: Pasolini, Calvino, Sciascia, Parise, il grande Savinio, che scriveva mirabilmente di cinema. Io scrivo editoriali di politica e pezzi di cultura sul Fatto quotidiano da 12 anni. Mi interessa l’antropologia del potere, di cui, anche nel degrado, la nostra scena politica offre quotidianamente un saggio eloquente. Non scrivendo cronache o inchieste, devo sempre cercare un lato eccentrico, strano, direi letterario, da cui guardare i fenomeni. Mi interessano gli eventi e i personaggi politici, la loro fame di potere, la loro pochezza etica o estetica (infatti il mio genere è spesso la satira). Ma la spinta è la critica alla società, alle forme attuali del capitalismo e del potere. Tutto questo, in forma diversa, sotto altre vesti, si ritrova anche nei miei libri.
D2. Riccardo Castellana traccia efficacemente l’area tematica entro cui si muove la narrativa di Ranieri quando scrive che «rappresenta con estrema lucidità i rapporti di forza e le relazioni di potere che, apparentemente invisibili e per lo più rimossi dal senso comune dei nostri anni, determinano invece, in profondità, la vita presente di ciascuno di noi». Rapporti di forza e relazioni di potere sono effettivamente al centro di tutti i romanzi di Ranieri, sebbene declinati in forme diverse, a secondo delle relazioni rappresentate (rapporti di coppia, sperequazioni economiche, conflitti sociali etc.) e dei contesti in cui si manifestano. Quale urgenza o istanza (se c’è) ha determinato la scelta di privilegiare questa area tematica?
R2. Credo che le nostre società occidentali siano, a cominciare dalle scuole elementari, incubatrici di disuguaglianza. Sono savane apparentemente evolute in cui il potere esiste e viene esercitato in modi brutali ed espliciti oppure subdoli e talmente incorporati negli individui da sembrare innocui. Sono davvero convinta che in tutte le società umane di questa parte di mondo siano sempre esistiti gli “umiliati e offesi”. Forse bisognerebbe frequentare per anni le famose comunità tibetane, per capire se anche in quei contesti cresce il fungo della competizione, della sopraffazione del forte sul debole, della ostilità verso chi è per qualche motivo più fragile. Mentre per quanto riguarda i rapporti amorosi, la penso come Aleksandra Kollontaj, comunista e compagna di lotte di Lenin: l’eros è socialmente determinato; bisognerebbe fare spazio a un eros alato… Ritorna la comunità in Tibet: non perché vi sia praticata la castità, che il buddismo a quanto ne so non prescrive; ma perché il problema fondamentale dei rapporti umani, cioè l’ego, la preponderanza dell’io, “il più lurido di tutti i pronomi” (Gadda), lì dovrebbe essere disattivato, neutralizzato o quanto meno ricondotto alla sua natura apparente. Come fa notare acutamente Riccardo Castellana, nemmeno l’eros è al riparo dai rapporti di potere e persino di classe, e anzi “le dinamiche desideranti, in quanto mediate (cioè sociali)”, sono “le più sensibili alle relazioni di potere e ai rapporti di forza”. Contro il potere in generale, per me vale la lezione dei satiristi antichi: l’invettiva e il sarcasmo sono le uniche armi dei deboli contro gli aspetti deteriori della vita, i potenti, i furbi, la burocrazia anti-umana, i miti tossici della società (il “merito”, ad esempio); anche se al sarcasmo prediligo l’ironia, il registro, insieme al lirismo, che amo di più, l’arte delle distanze per eccellenza.
D3. L’impianto e la tessitura della narrazione sembrano indicare in tutti i romanzi di Daniela Ranieri un’attenzione intelligente, a tratti quasi prevalente, alla struttura del racconto, come fosse portatrice di significato in sé. Quanta importanza attribuisce in realtà Daniela Ranieri alla struttura nella costruzione del significato complessivo di ogni storia?
R3. Molta, mi pare. In Mille esempi di cani smarriti tutto si basa su analessi continue, salti temporali, ritorni al presente narrativo. Tutto concorre a creare una trama che si compone alla fine, e non avrebbe quel senso al di fuori di quella composizione. Non succede così anche nelle sinfonie? L’op. 111 di Beethoven non avrebbe quel senso se non avesse solo due movimenti; ha due movimenti, e non tre, e questo è carico di significato. In Stradario aggiornato di tutti i miei baci ogni capitolo è un taglio nella trama, e insieme una sutura; un amore, e insieme la sua “risoluzione”; una diagnosi e una prognosi (e a volte la cura, ma non sempre). È un romanzo atipico, perché ogni storia è un cassetto dentro una storia più ampia. I personaggi sono la trama, certo, ma ha valore anche lo schema generale dentro cui si muovono. Basta leggere Kafka per capire come lo schema sia una specie di tensione, di tensostruttura, di emicrania del testo. E ciò lo rende alieno a e da tutto quanto esista di già scritto o sia ancora da scrivere.
D4. I suoi romanzi sono colti: per la fittissima rete di rimandi impliciti e espliciti a tante opere, a tante voci importanti della letteratura; per lo stile, compiutamente e volutamente barocco, teso, lussureggiante (Sturli); per la rappresentazione dei contesti in cui si svolgono le vicende, indagati, setacciati, restituiti nella loro fisionomia complessa e non nella generica fissità di un fondale. Estranea tanto allo sperimentalismo neo-modernista quanto al middle brow, come l’ha definita Riccardo Castellana, Daniela Ranieri sembra difendere con forza questo presidio di resistenza al mercato e alle mode. Cosa comporta mantenerlo? Di cosa si sostanzia? E che peso hanno, in esso, le autrici e gli autori di culto (alcuni apertamente e ripetutamente dichiarati, come Gadda, ma non solo)?
R4. Mi guida una frase di Walter Benjamin: la citazione è una sutura a una cicatrice. A volte una ferita è suturabile solo con certe parole, quelle e non altre. E se sono state già scritte, e sono perfette, con la loro musica e la loro disposizione, inutile cercarne altre, sarebbero solo perifrasi zoppe. Tanto vale usarle. Nello Stradario le citazioni a esergo di ogni capitolo sono parole di conforto che persone scomparse mi mandano da un tempo diverso. Non so cosa comporta: a me è andata bene, il libro ha stranamente venduto parecchio, moltissimo per i miei standard, è stato finalista allo Strega e ha vinto il premio selezione Campiello. Sapevo che la scelta di scrivere un libro di 741 pagine non sarebbe stata “economica”, meno che mai furba, e che metterci dentro una legione di riferimenti letterari poteva renderlo troppo impegnativo, però a volte succedono di questi prodigi. A volte, anche per quello che scrivo sui giornali, esce fuori qualcuno a rimproverarmi un “eccesso di cultura”: difficile immaginare un’accusa più idiota. È come accusare un tennista di un eccesso di tennismo. L’aspetto confortante è che molti giovani, che sono più allenati a capire cose difficili perché devono studiarle, hanno amato lo stile dello Stradario e l’hanno divorato senza fatica. E hanno fatto recensioni su Instagram molto più profonde e precise di alcune pubblicate su rinomate pagine culturali. Segno che molti critici adulti dovrebbero tornare a studiare o a leggere testi un po’ più complicati di quelli scritti dai loro pari, diciamo.
D5. Qualche tempo fa (peraltro esplicitamente citando nel mio novero un romanzo di Ranieri) scrissi su questo blog che la questione della scrittura femminile non può ridursi a una questione di quote rosa, ma che piuttosto impone di capire cosa accada nella letteratura quando anche alle donne è dato modo di prendervi ufficialmente parte come autrici – e non solo come lettrici, come animatrici di salotti, come dilettanti all’ombra dei professionisti della scrittura. Rivolgo a Daniela Ranieri una delle mie domande di allora: cosa accade nella letteratura quando al punto di osservazione di un uomo si accosta definitivamente il punto di osservazione di una donna, come costante e non come eccezione?
R5. Non sono abituata a ragionare nei termini di letteratura maschile e femminile. Esiste solo la buona o la cattiva letteratura. Non ho nessuna riverenza per un libro perché è scritto da un uomo come non ce l’ho se è scritto da una donna. Avendo fatto studi di Antropologia, so che conta il posizionamento, cioè il punto dal quale si guardano le cose, e la biografia di una donna è senz’altro diversa da quella di un uomo, quindi sarà diverso il modo in cui questa differente visione si trasforma in letteratura. Ma ciò non determina la sua bravura. Piuttosto a volte mi sembra che “letteratura femminile” ormai sia un marchio di infamia: sono stili cristallizzati, trame prevedibili, conflitti all’acqua di rose. Le case editrici spesso ci marciano, su questo. Francamente non me importa niente di essere “finalmente” accolta nel consesso delle Lettere italiche anche se donna. Certo è che dal punto di vista politico mi fa piacere che molti maschi, di fronte a portenti editoriali come Margaret Atwood o Alice Munro, se anche non avessero mai letto la Yourcenar o Virginia Woolf o Jane Austen, debbano convenire che non conta il genere a certi livelli. Se sei un genio, lo sei a prescindere dal sesso.
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