Perché leggere (in classe) Il corpo di Stephen King
Avevo dodici anni – quasi tredici – la prima volta che vidi un essere umano morto. Successe nel 1960, tanto tempo fa… anche se a volte non mi pare così lontano. Soprattutto la notte quando mi sveglio da quei sogni in cui la grandine cade nei suoi occhi aperti
(Stephen King, L’autunno dell’innocenza. Il corpo, in Stagioni diverse, Sperling Paperback, 2010, p. 339)
Perché è un’appassionante vicenda di formazione
Non sono mai stata una fan del “maestro del thriller” Stephen King, nemmeno quando, tra la fine degli anni ‘80 e la prima metà dei dei ‘90, i suoi libri ed i film tratti dai suoi romanzi erano una specie di passaggio obbligato per qualunque adolescente. Ho quindi esitato a lungo prima di cedere alle insistenze di un paio di care e stimate colleghe che mi assicuravano sia della qualità letteraria sia della presa sulle classi del racconto lungo/romanzo breve (la critica americana lo ha definito novella, diminutivo di novel) da cui è stato tratto il notissimo film Stand by me di Rob Reiner.
Eppure, nonostante la mia iniziale ritrosia, ho dovuto rapidamente arrendermi alla maestria narrativa di King, capace di tenere avvinta alla pagina non solo la professoressa scettica, ma anche tutte le classi a cui, negli ultimi anni, l’ho proposto: come diciamo, appunto, io e una di queste colleghe, “può funzionare meglio, può funzionare peggio, ma funziona sempre”, come testimoniano anche le reazioni di studenti e studentesse:
«L’ho divorato in un pomeriggio», Alice.
«Per la prima volta dopo tantissimo tempo, domenica mattina mi sono svegliata e non ho acceso subito il cellulare, ma ho preso il libro dal comodino e mi sono messa a leggere», Giada.
«Di solito leggere mi annoia, ma questo libro mi ha appassionato», Andrea.
La vicenda dei quattro amici Gordie, Chris, Teddy e Vern che, negli ultimi giorni della torrida estate del 1960 partono dal paesino di Castle Rock alla ricerca del corpo di un loro coetaneo scomparso, è quindi diventata un vero e proprio asso nella manica per far leggere anche le classi di biennio più restie, probabilmente perché ha tutti gli ingredienti del romanzo di formazione classico, quello che secondo Franco Moretti «fissa nella gioventù la parte più significativa dell’esistenza», poiché essa è l’età «che racchiude in sé “il senso della vita”» (F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi).
«È proprio un bel momento», disse semplicemente Vern, e non intendeva dire solo il fatto di essere in un posto proibito, o di aver imbrogliato i nostri, o di andare a fare questa escursione lungo la ferrovia fin dentro Harlow; si riferiva sì a queste cose, ma ora mi pare che ci fosse dell’altro, e che tutti noi lo sapevamo. Tutto era lì e attorno a noi. Sapevamo esattamente chi eravamo ed esattamente dove stavamo andando. Era magnifico (p. 390).
Camminando lungo i binari della ferrovia, «il corridoio magico in cui avviene il cambiamento» (p. 463), i quattro amici affronteranno i pericoli e le sfide di un viaggio avventuroso, scopriranno il valore dell’amicizia vera, si scontreranno con il mondo degli adulti (violento o indifferente, ma sempre ingiusto), faranno i conti con la morte: esperienze essenziali per superare, ognuno in modo diverso, la “linea d’ombra” che li divide dalle dolorose consapevolezze dell’età adulta, dicendo così addio all’infanzia – e a questo passaggio ineludibile allude chiaramente il sovratitolo del testo, L’autunno dell’innocenza, ancora più suggestivo nell’originale inglese: Fall from innocence.
Perché offre molteplici spunti di lavoro
Proprio per la sua capacità di avvincere il lettore alla pagina, anche grazie ad una sapiente alternanza di dialoghi, sequenze narrative (con numerosi inserti in analessi e prolessi) e pause descrittive e riflessive (spesso di tipo metadiegetico), è possibile affidare il testo alla lettura domestica di studenti e studentesse (almeno al biennio del II grado), magari facendola precedere da un momento di lettura ad alta voce delle prime pagine per accendere la curiosità e stimolare alla prosecuzione autonoma (in circa 20 minuti si riescono a completare i primi due capitoli). Vista la brevità del testo (circa 160 pagine) non è impossibile neppure pensare ad una lettura integrale in classe, soprattutto nei contesti in cui le classi vadano accompagnate gradualmente alla fruizione dei libri.
Indipendentemente dalla modalità di lettura proposta, Il corpo è comunque una miniera di spunti per il lavoro in classe, a diversi livelli di profondità.
Ovviamente, il primo percorso possibile è quello incentrato sulle caratteristiche di genere del romanzo di formazione, che possono essere evidenziate anche sfruttando lo schema narrativo del viaggio dell’eroe e confrontandole con altri racconti di formazione già noti ai ragazzi, siano essi romanzi, film o serie tv. Di grande interesse è anche il lavoro sui personaggi: se è facile individuare un sistema costruito sull’opposizione tra protagonisti e antagonisti (il gruppo dei ragazzi più grandi), più stimolante è la riflessione sulle caratteristiche dei quattro amici (anche con l’aiuto di organizzatori grafici) e sui modi in cui la quête cambia ognuno di loro e le dinamiche interne al gruppo: chi di loro è davvero cresciuto e perché? che relazione c’è tra le esperienze vissute, la solidità del rapporto amicale e la capacità di sfuggire (o di aderire) ad un destino che sembra già scritto?
Teddy e Vern lentamente divennero due facce come tante a scuola, nei corridoi o nell’aula delle punizioni delle tre e mezzo. Un cenno della testa, ciao, ciao. Questo era tutto. Gli amici entrano ed escono nella nostra vita come camerieri in una sala di ristorante, lo avete mai notato? Ma quando ripenso a quel sogno, i corpi morti sott’acqua che tirano implacabili le mie gambe, mi pare giusto che debba essere così. Qualcuno va a fondo, ecco, tutto. Non è giusto ma succede. Qualcuno va a fondo (p. 499).
Dal punto di vista tematico, il testo offre numerosissimi agganci per la discussione in classe: l’amicizia, la paura, il rapporto con il mondo degli adulti e con la famiglia in particolare, la violenza, il desiderio di crescita e di indipendenza… ognuno di essi può essere sviluppato in modo diverso, più o meno approfondito, a seconda delle caratteristiche e delle inclinazioni della classe, ma sicuramente proficua può essere una riflessione che provi a mettere in prospettiva anche la distanza storico-sociale di quel testo (scritto nel 1982 e ambientato vent’anni prima): che cosa significava “crescere” allora, e che cosa significa oggi? gli ostacoli e le prove che un adolescente deve superare sono i medesimi? è ancora possibile il tipo di libertà ed indipendenza (e anche di solitudine) di cui potevano disporre i quattro protagonisti?
Chiaramente, si presta molto bene alla riflessione sui differenti codici narrativi il confronto con il film Stand by me, soprattutto se si ragiona insieme sulla struttura del racconto: che cosa manca nel film, che cosa viene aggiunto o modificato? perché? può dipendere dalla diversità del mezzo oppure le scelte registiche prediligono una determinata prospettiva o interpretazione del testo?
Perché parla dell’importanza di raccontare storie
Uno degli elementi che emergono anche dal confronto tra testo filmico e testo letterario, è la costruzione della voce narrante: la vicenda è infatti raccontata in prima persona da uno dei protagonisti, Gordie, ormai diventato adulto e scrittore di successo (dietro cui è facile intravedere l’ombra dello stesso Stephen King).
Io?
Io sono uno scrittore, adesso, come ho detto. E un sacco di critici pensano che quello che scrivo è merda. Molte volte penso che abbiano ragione… ma ancora adesso mi fa girare la testa mettere questa parola, «Scrittore» nel punto Occupazione dei formulari che devi riempire in banca o dal dottore (p. 503).
Ciò consente non solo la continua alternanza di narrazione al passato, anticipazioni e flashback a cui si accennava prima, ma anche una riflessione metanarrativa che attraversa, in maniera più o meno evidente, tutto il testo, fin dalle primissime righe:
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via […]. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare (p. 339).
Il talento narrativo di Gordie è ciò che permette a noi, lettori che sanno ascoltare, di fare esperienza (vicaria, come in ogni narrazione romanzesca) del viaggio verso l’ignoto dei quattro amici, ma è anche ciò che permette l’elaborazione dell’esperienza stessa, e quindi il processo di crescita e formazione. Ciò emerge in particolar modo in due momenti: il primo, all’inizio del racconto, quando, dopo l’inserimento, al capitolo 7, di Stud city, uno dei racconti scritti da Gordie ai tempi dell’università, la voce narrante adulta dedica l’intero capitolo 8 alla riflessione metanarrativa, commentando:
È il lavoro di un giovanotto insicuro quanto inesperto.
Eppure è stata la prima storia che abbia mai scritto che mi sembrava la mia storia – la prima che mi sembrava davvero intera, dopo cinque anni di tentativi. La prima che potrebbe ancora stare in piedi, anche togliendole tutti i puntelli. Brutta ma viva […].
E poi è la prima storia che non mostrai mai a mio padre e mia madre. C’era troppo di Denny dentro. Troppo Castle Rock. E soprattutto, troppo 1960. La verità la riconosci sempre, perché quanto ti ci tagli, o ci tagli qualcuno, c’è sempre spargimento di sangue.
Anche il secondo momento in cui questo tema diventa centrale è legato ad uno dei racconti di Gordie: dopo aver schivato un treno merci sul ponte sopra il fiume, il gruppo di amici fa una sosta e Chris chiede a Gordie di raccontare una storia. Veniamo così a sapere che Gordie ama da sempre raccontare storie, e che da grande vorrebbe fare lo scrittore di mestiere, ma che è in imbarazzo a parlare della sua passione, perché teme sia considerata «cosa da femminucce», nonostante gli amici (per i quali ha creato dei veri e propri “cicli narrativi”) mostrino di apprezzare le sue doti. Dopo la conclusione del racconto (La vendetta di Culo di Lardo Hogan, che, come il precedente, viene inserito nel testo in corsivo), quando il gruppo riprende a camminare, Chris e Gordie rimangono un po’ in disparte, a discutere dell’imminente inizio della scuola superiore, che li vedrà separarsi. Gordie confessa all’amico che vorrebbe lasciar perdere i corsi preparatori per il college e iscriversi alle scuole commerciali, come gli altri tre, ma Chris lo dissuade, e cerca di fargli prendere coscienza del proprio valore:
«Le storie. Mi fai morire, amico. È come se potessi raccontare un milione di storie e ne avessi sempre una da raggiungere. Sarai un grande scrittore un giorno, Gordie».
[…] «Al diavolo le storie. Non ho intenzione di farmela con un mucchio di femminucce. Nossignore».
«Se non lo fai, sei una testa di cazzo».
«È una testa di cazzo uno che vuole stare con i suoi amici?».
[…] «È una testa di cazzo se i suoi amici possano trascinarlo a fondo. […] È come se Dio ti avesse dato qualcosa, tutte quelle storie che sai inventare, e ti dicesse: Questo è quello che abbiamo per te, ragazzo. Cerca di non perderlo. Ma i ragazzi perdono tutto se non c’è qualcuno che li tiene d’occhio, e se i tuoi sono troppo distrutti per farlo loro, allora dovrei farlo io» (pp. 436-438).
La capacità di raccontare storie in cui sublimare e comprendere la propria esperienza diventa allora elemento centrale del processo di crescita: riconoscerne il valore consente a Gordie di mettere a fuoco il nucleo della propria identità individuale, anche in opposizione a quella collettiva del gruppo di amici, che sembrava irrinunciabile, e, insieme all’amicizia con Chris (che ampio spazio avrà nei capitoli finali), definirà la direzione della sua esistenza adulta, della quale farà parte anche, probabilmente (perché più volte allusa nel testo), la narrazione del viaggio iniziatico di quei torridi giorni di fine estate del 1960.
L’unico motivo per cui uno scrive delle storie è per poter capire il passato e prepararsi per una qualche futura mortalità; è per questo che tutti i verbi nelle storie sono al passato (p. 458).
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Se non appassionata di Stephen King, consiglio la lettura di 22/11/63, unico libro che io abbia letto due volte.
Lo stesso IT, se non ci si sofferma alla componente horror/fantastica, è in ogni caso un capolavoro di narrazione.