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diretto da Romano Luperini

Prime crepe nel “blocco” meloniano? La rivolta dei trattori, il voto sardo e lo stop abruzzese

Esiste un blocco sociale del governo Meloni?

È difficile affermare che a sostegno del governo neofascista Meloni ci sia un “blocco sociale”. Lo è in senso stretto se assumiamo la definizione del dizionario De Mauro di «insieme dei partiti che tradizionalmente sono al governo e dei gruppi economici ad essi legati», anche se tenersi a questa definizione rappresenterebbe un quid novi fuori della tradizione parlamentare della Repubblica. Ma soprattutto è impropria la stessa definizione di “blocco”, un’entità compatta che identifica il coacervo di interessi corporativi tipici del tessuto economico e sociale italiano. La retorica neofascista di per sé tende a dividere: gli uomini dalle donne, gli omosessuali dagli eterosessuali, gli italiani dagli stranieri, i vari gruppi etnici tra loro, le categorie di lavoratori al loro interno e così via. Siamo lontani dal costituirsi di un gramsciano “blocco storico”, in grado di configurare un regime vero e proprio e in cui la struttura economica corrisponde all’ideologia dominante; ma dobbiamo in effetti considerare i rischi che derivano dall’attuale bisogno di costruire un’egemonia da parte della destra, più volte evidenziato in precedenti scritti su questo stesso blog.

Un blocco elettorale

Sicuramente a favore del governo Meloni vi è il blocco elettorale della vittoria del 25 settembre 2022, determinata dall’iniqua legge elettorale maggioritaria e dall’insipienza delle forze politiche di centro sinistra (il PD di Letta in primo luogo e il M5S di Conte, che hanno corso divisi). Su Micromega Pierfranco Pellizzetti (La teoria sociale del governo Meloni, 13.12.2022) ha provato a indicarne due componenti: «il solito target reazionario composto da abbienti e impauriti/risentiti: i ricchi, a cui non si deve toccare ‘la roba’ (far pagare le tasse), e quanti si sentono minacciati dai poveracci»; «la reazione risentita/impaurita può trovare la propria naturale personificazione in Giorgia Meloni, cresciuta nel popoloso e semi-periferico quartiere della Garbatella, già borgata di sfollati. Mentre quella obbligata per la neo-borghesia della roba non può che essere il nababbo Silvio Berlusconi».

Da tale analisi sociologica generica sembra escluso un punto di vista di classe, anche se l’autore cita Sylos Labini (il vecchio Saggio sulle classi sociali, 1974). Sarebbe infatti meglio dire una borghesia imprenditoriale medio-piccola “alla brianzola”, che è rappresentata da Forza Italia, e una piccola borghesia, che sente messi in discussione i propri residui privilegi sociali dall’incalzare della crisi economica, rappresentata da Fratelli d’Italia. La Lega di Salvini si trova schiacciata in mezzo, ora che è ormai fallita l’ipotesi di unificazione con Forza Italia, che aveva un senso all’epoca dell’idea di un “partito del Nord”, ma che non ha retto alla trasformazione della Lega in una forza lepenista, nazionalista e xenofoba. Gli interessi economici di entrambi questi raggruppamenti sociali non coincidono con quelli della grande borghesia europea, finanziaria, multinazionale e tecnocratica, che sta lucrando grandi profitti dalle guerre in corso con una crescente escalation, di cui la direzione dell’Unione Europea sembra aver perso pericolosamente il controllo.

La rivolta dei trattori

In questo blocco elettorale, che non si è ancora saldato in un blocco sociale, possono essere individuate alcune crepe, con molta cautela e senza farsi troppe illusioni. La prima e più rilevante, per la sua dimensione sociale prospettica, è la cosiddetta “rivolta dei trattori”. Essa è esplosa in tutta Europa contro le politiche agricole dell’Unione, che tendono a favorire la grande produzione dell’agricoltura industrializzata e che minacciano le imprese di piccole e medie dimensioni. La prima può trarre profitto anche dalla riorganizzazione produttiva rappresentata dal green deal, la cosiddetta transizione ecologica, che le seconde non sono in grado di sostenere, complice l’aumento del costo dei carburanti a seguito della guerra. Oggi la protesta, che in Italia ha avuto la ribalta del festival di Sanremo, è stata silenziata dai media, ma continua in tutta Europa. Essa è stata contenuta da qualche aggiustamento, sbandierato dal ministro Lollobrigida, ma per ora ha permesso solo di rallentare il corso dei provvedimenti ecologici, cioè il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili, favorendo così la grande produzione. In Italia la rivolta dei trattori ha avuto sia nei leader che nella base una fetta dell’elettorato di Fratelli d’Italia. La crepa aperta è legata alla contraddizione tra le politiche europee, che il governo Meloni manda giù per rispondere alla politica neo-giolittiana di assimilazione subalterna della destra da parte della Commissione Von der Leyen, e la sovranità alimentare del programma governativo, che punta a intercettare gli interessi nazionali in termini corporativi. Vedremo se nelle prossime elezioni europee la contraddizione avrà conseguenze evidenti sul consenso elettorale.

Il voto sardo

Un’altra crepa, più lieve, è evidenziata dalla vittoria risicata alle regionali sarde dell’alleanza elettorale PD-M5S, coagulatasi intorno alla candidatura forte di Alessandra Todde, prima presidente regionale donna con il 45,3% dei voti. I dati evidenziano due elementi già emersi nelle recenti tornate elettorali: il crescente astensionismo (si è recato ai seggi il 52,4% degli aventi diritto contro il 53,9% delle precedenti regionali del 2019) e il maggior radicamento dello schieramento di centro sinistra nelle città e di quello della destra nella provincia profonda. Il dato record di votanti (56%) nella provincia di Nuoro, città natale della Todde, conferma il ruolo trainante della candidata unitaria del M5S e del PD. Comunque il risultato sardo conferma l’indicazione potenzialmente vincente dell’unità a sinistra. Clamorosa la sconfitta “casalinga” di Truzzu, candidato fedelissimo della Meloni, voluto personalmente dalla Presidente del Consiglio ma battuto nella sua stessa Cagliari, che come sindaco ha amministrato male. La vittoria sarda ha generato qualche speranza di una inversione nel trend elettorale della destra.

Lo stop abruzzese

Le elezioni regionali in Abruzzo, invece, hanno dato un brusco stop a queste speranze. L’alleanza elettorale di tutte le opposizioni di centro e di centro-sinistra ha totalizzato un magro 45,3%, a fronte del 54, 6% della destra, il cui candidato di lunga militanza missina, Marco Marsilio, presidente uscente, ha migliorato il risultato del 2019 (48%). Viceversa la grande “ammucchiata”, sua concorrente, ha preso meno voti del 2019, quando correndo separatamente il PD e il M5S aveva totalizzato il 52%. Anche Marsilio è uomo di fiducia della Meloni. Era il segretario della sezione MSI della Garbatella quando a 16 anni questa si iscrisse al partito neo-fascista di Almirante e ha fatto con lei tutto il percorso politico: dal MSI ad Alleanza Nazionale, da Alleanza Nazionale al berlusconiano Polo della Libertà e alla marcia indietro sull’autocritica finiana del fascismo (Congresso di Fiuggi), fino ad arrivare a fondare, con lei e La Russa, Fratelli d’Italia. Ha governato l’Abruzzo stando a Roma, di cui è originario. Sembrava per questo un candidato debole, ma il governo Meloni ha promesso fiumi di denaro e l’intera autostrada Pescara-Roma per sostenerne la candidatura. Anche in occasione delle ultime regionali si sono confermate come in Sardegna sia la prevalenza del centro-sinistra nelle città sia l’astensionismo. La partecipazione al voto ha raggiunto il minimo storico del 52,2%. Secondo l’Istituto Cattaneo è proprio l’astensione che ha favorito la vittoria della destra (cfr. Il Manifesto del 13.3.2024): «L’area elettorale del centro-destra si consolida, grazie ad un astensionismo relativamente basso tra i suoi elettori del 2022 e a piccoli apporti aggiuntivi che vengono per lo più dall’astensione o dal cosiddetto Terzo Polo». Il “campo largo”, tanto nella geometria sarda (Pd, M5s, altri minori da un lato; Azione, Iv, +Europa dall’altro), quanto in quella abruzzese (tutti insieme), soffre di fuoriuscite consistenti verso l’astensione o di flussi diretti verso la coalizione avversaria. Il Cattaneo ritiene il fenomeno quasi inevitabile, visto che l’elettorato di quest’area è attraversato da «varie linee di frattura al suo interno», «da una reciproca ostilità» tra i leader di partiti potenzialmente alleati (in particolare Conte e Calenda), da una «diversità di posizioni su vari temi (di politica interna ed internazionale) più profonda rispetto all’elettorato di centrodestra». Nei risultati delle liste si conferma un rafforzamento del PD con il 20,3% (16,6 alle politiche), la volatilità dell’elettorale dei Cinquestelle con il 7% (19,7% alle politiche), mentre nel campo avverso flette FD’I (-2,5% rispetto alle politiche), si rafforza FI con il 13,2% rispetto al 4,4% e sprofonda la Lega con il 7,6% rispetto al precedente 27,5%. Tali dati confermano la tendenza che indicavo in apertura.

La questione della pace e della guerra

Le linee di frattura nel centro-sinistra (o “campo largo”) sono evidenti nelle trattative in corso per le candidature alle prossime regionali in Piemonte e in Basilicata. La frattura più grave deve essere registrata negli ultimi giorni con il ritiro del M5S dalle primarie di Bari, festeggiato dalla destra neo-fascista. Dunque tale alleanza è solo potenzialmente vincente, ma per esserlo nella pratica dovrebbe elaborare un programma unitario chiaro e condiviso, che convinca l’elettorato astensionista dei delusi della sinistra. Pesano in questa direzione la ridotta credibilità del PD per le precedenti scelte sbagliate, da Renzi a Letta, in particolare gli errori che hanno portato la destra neofascista alla facile vittoria del 25 settembre 2022 e alla costituzione del governo più a destra della storia repubblicana. L’attuale segretaria Schlein, imposta da una maggioranza esterna al partito, fatica a tenere insieme le varie “fazioni” del PD e a imprimere una svolta unitaria a sinistra. Soprattutto, a mio modesto avviso, gioca la questione della pace e della guerra.

Secondo il recente sondaggio di Demopolis, commissionato da La7, il 67% degli italiani non solo è contrario all’invio di armi in Ucraina, ma soprattutto teme l’escalation della guerra con il coinvolgimento dell’Europa. Sulla questione il M5S ha una posizione contraria all’invio di armi e a un ulteriore coinvolgimento nella guerra. La posizione non è premiante sul piano elettorale per il M5S, proprio perché non è condivisa in maniera unitaria nella coalizione con il PD. È mia ferma convinzione che solo una posizione netta e unitaria contro le politiche di guerra possa convincere l’elettorato deluso di sinistra a tornare al voto. Dunque ancora una volta il problema rimane lo stesso: come costruire l’unità a sinistra?

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