I pesci piccoli fanno le storie – Sull’ultimo romanzo di Alessandro Robecchi
«Un crocefisso?».
«Un crocefisso, Carlo. Cosa c’è di difficile nella parola crocefisso? Se tu venissi alle riunioni sapresti che su questa storia ci abbiamo già lavorato, e ora siamo pronti, se sua altezza il principe degli autori vuole degnarsi di ascoltare…».
Ed ecco a voi Carlo Monterossi davanti alla scacchiera. Fa il suo ghigno delle emergenze. Il fine ultimo sarebbe lo scacco matto, ma si accontenterebbe anche di una patta onorevole. Ora Flora De Pisis, sua maestà incoronata, vorrà fargli fare uno di quei lavori sporchi per cui è famosa, gli italiani la adorano, le panetterie, i mercati, gli uffici, le scuole, rimbombano della domanda settimanale: «Ma hai visto Flora, ieri sera? Che roba!».
Livelli di difficoltà: far cambiare idea a Flora, irraggiungibile, quasi mistico. In subordine: orientare la storia in modo che sia meno vergognosa a sé e agli altri, ma soprattutto a sé, perché ha capito, in tanti anni nella Grande Fabbrica della Merda, che lì nessuno si vergogna di niente.
Terzo livello, principiante: sottrarsi in ogni modo, va bene tutto, dal malore improvviso a «Devo andare a cena con Macron per un’idea che ti dirò, Flora, ma è ancora un progetto segretissimo». Sembra assurdo ma credetemi, può funzionare. Un’altra cosa che Carlo ha imparato là dentro è che spararla grossissima funziona più delle piccole bugie
Intrighi e finzioni
In tutte le storie di Robecchi, il lavoro sull’intreccio e sui generi narrativi viene messo in particolare evidenza. Ѐ così anche in “Pesci piccoli”, decima puntata di una serie che si colloca fra i migliori prodotti di un genere che annovera autori originali, di grande successo e di buon livello artistico (Carofiglio, Di Giovanni, Malvaldi).
Il romanzo è prima di tutto un poliziesco d’indagine: la IGO (Italiana Grandi Opere), potentissima multinazionale delle costruzioni, subisce in una sua filiale milanese un furto di denaro, documenti e di una chiavetta USB, relativi a un progetto di diga in Ghana. Non volendo coinvolgere la polizia, si rivolge all’agenzia investigativa Sistemi Integrati, che i lettori di Robecchi ben conoscono. Agatina Cirrielli e Oscar Falcone iniziano quindi le loro indagini, supportati come sempre dal fondatore dell’agenzia, Carlo Monterossi, poliziotto dilettante e produttore televisivo professionista; a lui si devono infatti programmi che hanno fatto la storia recente della TV (che lui stesso elegantemente definisce “Grande Fabbrica della Merda”), come “Crazy Love”, uguale agli innumerevoli programmi realmente esistenti, nei quali persone comuni raccontano storie intime, drammatiche e lacrimevoli di fronte a milioni di spettatori curiosi e guardoni.
Il complicato sviluppo delle indagini apre la strada a un secondo riferimento alle storie popolari: il racconto sentimentale. Rifuggendo gli spoiler, basterà sapere che il materiale rubato è finito per caso nelle mani di Teresa, umile e quasi invisibile donna delle pulizie della IGO: un pesce piccolo che ha l’occasione di cambiare vita. Dall’incontro fra la maschera di cinismo di Carlo Monterossi e i sogni frustrati di Teresa (e poi della sua “banda”) nasce un ricco filone di riflessioni sociali e psicologiche e di sviluppi narrativi.
Infine, nelle trame immaginate da Robecchi circola sempre una profonda propensione per il realismo, di attenzione alla politica e alla società. Ferma restando l’ambientazione milanese, specchio di un mondo governato dal denaro e dalla disuguaglianza, a quest’anima danno voce soprattutto le figure dei poliziotti: Carella e il sovrintendente Ghezzi, sempre al centro dei romanzi dell’autore, si troveranno infatti a incrociare per puro caso la strada percorsa da Carlo, Teresa e dagli altri comprimari della vicenda. Sono proprio i poliziotti a dare un senso al titolo, constatando ogni giorno che parole come “legge”, “giustizia” e “ordine” hanno significati ben diversi; a seconda che le si accosti ai poveracci che delinquono nei sottofondi della microcriminalità, oppure ai potenti che speculano, corrompono e manipolano, collocati ai vertici dell’economia, della politica e della finanza.
La faticosa ricerca di una verità e di una morale
La citazione dai “Promessi Sposi” posta in esergo esprime con grande chiarezza il centro ideale del libro: «I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni».
E la storia del furto e degli intrighi che ne conseguono è effettivamente la plastica rappresentazione di due mondi opposti e inconciliabili: l’universo di fatica, delusioni e sotterfugi in cui sono condannate a vivere tante persone comuni, da una parte; e dall’altra gli esclusivi reami dell’abbondanza e del profitto, costruiti in larga misura sulle aspirazioni e sulle speranze dei poveri. Perché, come spiega Robecchi in una breve presentazione online del suo romanzo, «servono un sacco di perdenti per alimentare il mito della città vincente». Di questa opposizione, la televisione è proiezione perfetta: è proprio la Grande Fabbrica della Merda, infatti, a produrre incessantemente falsi miti, bisogni artificiali, illusorie scappatoie dalla realtà, lavorando senza sosta per ridurre le reali capacità di comprendere (e quindi di criticare) le iniquità del mondo, a vantaggio di un vuoto sentimentalismo e di una falsa commozione di fronte alle sofferenze altrui, spesso inautentiche e recitate.
Sebbene il narratore non sia incline a digressioni e analisi dettagliate dell’intimità del protagonista, la psicologia di Carlo Monterossi è uno dei motivi di maggiore interesse nella lettura. Anche in questo nuovo episodio, egli sembra rimanere intrappolato nella sostanziale ambiguità che ne caratterizza il temperamento: umanità e curiosità, certo, ma anche incapacità di liberarsi da un lavoro quotidiano che lo rende complice e promotore della falsità nei rapporti e nelle parole che domina il mondo che lo circonda.
Come gli altri personaggi al centro della storia, Carlo è un personaggio inquieto e autentico, alla costante ricerca di un senso che vada oltre le apparenze e l’abitudine. A differenza di altri, però, non sembra avere la forza e il coraggio di porsi in modo radicale gli interrogativi che lo tormentano, adagiato nel benessere materiale in cui vive. Per questo l’incontro con Teresa è così intenso e conturbante. Perché per lei, invece, la storia del furto costituisce un’occasione di cambiamento, la prima, inaspettata e forse unica. E dunque lei sì affronta la domanda che Carlo non sa porsi:
Ora riconta i soldi, sillabando piano, fa dei mucchietti, e prova quel giramento di testa che ha provato prima. Sessantacinquemila, milletrecento banconote da cinquanta, ora ordinate in tredici mucchietti allineati come soldatini, ogni pila cento banconote, cinquemila euro, totale sessantacinquemila. Si ripete quel numero, come se pronunciarlo a parole potesse diminuirne l’enormità.
Macché, rimane enorme.
Sessantacinquemila, ottanta mesi di lavoro, sei o sette anni di pavimenti, polvere, stracci, cessi da pulire. Teresa ha quarantadue anni, li compie in giugno, non manca molto, e guarda quel regalo che può portarla ai cinquanta come su una carrozza d’oro (…).
La stessa domanda di senso che ogni santo giorno si pongono i tutori dell’ordine, Ghezzi e Carella, cui l’autore affida le riflessioni più profonde:
«Prendiamo solo dei poveracci, questo almeno lo vedi, no? Gente che fa una vita di merda e che cerca qualche scorciatoia per uscire un po’ dal fango e si ritrova ad affondare sempre di più, hai presente? Ecco, quella gente lì. Prendi quello che svuota le cantine, come si chiama, l’egiziano, quanto alza alla fine del mese? Come un impiegato? Di più? Senza pensione e malattia e contributi, col rischio di finire in galera, o peggio, se trova il proprietario della cantina con una pistola nel cassetto. Dai, Carella, anche senza che arriviamo noi, che vita di merda è?».
«Hai ragione, Ghezzi, noi prendiamo i pesci piccoli, è vero, non è una bella cosa, sono dei poveracci, ok, va bene. Però pensaci, cazzo. Magari è un poveraccio anche quello che si ritrova la cantina svuotata. La signora che prende a sberle la vecchia e le frega mezza pensione è una poveraccia anche lei, no? Mica aveva la Porsche in garage. Ѐ una che vive di espedienti. E allora? Non è un buon motivo per non andare a aiutare la vecchia, giusto?».
«Non è che l’abbiamo proprio salvata, comunque, eh?».
«Sì, è vero, ma noi non salviamo la gente, Ghezzi, fai ‘sto mestiere del cazzo da quando c’erano i tram a cavalli, porca puttana, e ancora non l’hai capito? Noi abbiamo un librone, e sopra ci sono delle regole numerate, e noi arriviamo quando qualcuno scantona, o le infrange. Non è che diciamo questo è giusto e questo è sbagliato».
Come quelle di Manzoni, le pagine di Robecchi pongono domande vere sulla giustizia e sulla legge, molto insidiose in giorni in cui i soliti poveracci muoiono sul lavoro e i giovani manifestanti per la pace vengono manganellati dalle forze dell’ordine.
Uno strano narratore onnisciente
La lunga storia narrata dall’autore è organizzata in capitoli agili e incisivi, che seguono puntualmente una focalizzazione alternata. La illustrano i titoli dei primi quattro capitoli, “Teresa”, “Carlo”, “Teresa”, “Carlo”: a dire anche al lettore più distratto quale relazione sarà al centro dei vari filoni della trama. Questa chiarezza didascalica, caratteristica di tutti i romanzi di Robecchi, costituisce certamente uno degli elementi del loro vasto successo, e un potente fattore di riconoscibilità e fidelizzazione del pubblico. Corrisponde infatti all’organizzazione narrativa della serialità americana costruita intorno a un’indagine (nella sua notevole varietà, a partire dalle storie di “CSI” e di “Criminal minds” fino a oggi): montaggio veloce e dinamico, frequenti stacchi narrativi/ visivi, una macrotrama che si dipana in filoni inizialmente autonomi, che nel corso della stagione (in questo caso, del racconto) si avvicinano e si intrecciano, verso lo scioglimento conclusivo. Non a caso i romanzi di Robecchi hanno avuto un’immancabile quanto banale trascrizione televisiva.
Logica conseguenza di una simile scrittura-sceneggiatura è la voce narrante, incisiva e ritmata, spesso vicina a un registro colloquiale che non ammicca mai alla volgarità gratuita. Assolutamente onnisciente, essa è capace di accompagnare il lettore con naturalezza alla scoperta dei pensieri delle donne e degli uomini che agiscono di fronte a lui. Possiede infatti una rara capacità di incuriosire chi legge e attirarlo con garbo nella sua prospettiva, affidando esplicitamente alla sua fantasia il compito di collaborare alla costruzione del senso. Ѐ giusto allora concludere la breve lettura di “Pesci piccoli” con un esempio emblematico di questa tecnica, colta nel momento culminante in cui i due protagonisti si amano:
Teresa ha riso. E mentre la risata se ne andava, vergognosa e timida, una piccola risata che si perdeva chissà dove, la batteria del telefonino ha abbandonato questo mondo, ha deciso che di energia non ne aveva più, nemmeno una goccia. Di colpo, senza avvertire, il cellulare si è spento, e con lui la torcia, la stanza è piombata in un buio pesto, e solo dopo un paio di minuti hanno fatto capolino le piccole luci che venivano dalla finestra, dai lampioni della strada, e così stavano in un’ombra nera con piccole linee più chiare, non più di questo.
Ma a quel punto era tardi, e quel che doveva succedere stava succedendo, e di colpo non c’erano più parole da dire, se non quelle che si dicono in quei momenti lì, che è più una faccenda di respiri, e di attriti, e di luoghi magici e segreti in cui scivolare.
E ora lasciamoli stare, abbiamo visto anche troppo.
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