Storia della bambina perduta: la fortuna controversa di una world-fiction italiana. Il caso Elena Ferrante/2
È probabilmente nelle dichiarazioni autoriali della Frantumaglia che va cercata una possibile soluzione al caso Ferrante, che da qualche tempo divide la critica:
Con gli anni, per esempio, mi vergogno sempre meno di come mi appassionavo alle storie dei giornaletti femminili che circolavano per casa; robaccia di amori e tradimenti, che però mi ha causato emozioni indelebili, un desiderio di trame non necessariamente sensate, il godimento di passioni forti e un po’ volgari. Anche questo scantinato dello scrivere, fondo pieno di piacere che per anni ho represso in nome della Letteratura, mi pare vada messo al lavoro, perché non solo sui classici ma anche lì è cresciuta la smania di racconto, e allora ha senso gettare via la chiave?i
In questa lettera a Fofi del 2003, a esempio, vi è la chiave di volta per interpretare “la pasta” di cui è fatta la narrativa di Elena Ferrante («come si fa con le torte per vedere se hanno raggiunto la cottura giusta, ficcarci uno stuzzicadenti»ii) e le ragioni del suo successo. Due sono infatti i modelli esibiti: i romanzetti rosa e i fotoromanzi, «fondo pieno di piacere», e la Letteratura studiata sui banchi del Liceo, richiamo a una perfezione inevitabilmente disgiunta dal godimento. Per sua stessa ammissione, dunque, l’approdo alla scrittura si coniuga con l’abbandono di un’idea totalizzante di Letteraturaiii.
Coerente con queste affermazioni di principio, Ferrante si è dedicata nel decennio successivo alla stesura della quadrilogia L’amica geniale, il cui ultimo volume è uscito nello scorso autunno e, grazie al sostegno di Saviano e della Dandini, è entrato nella rosa dei libri tra cui verrà selezionata la cinquina candidata al Premio Strega. Si tratta di una saga e di una world-fictioniv destinata, fin dall’ideazione, al lancio su scala mondiale, complici la semplicità della lingua e della sintassi – assai prossima a quella che Giuseppe Antonelli definisce «traduttese»v – e la sapiente costruzione del plot. E, per quel che riguarda il successo nazionale, senz’altro la quadrilogia ha saputo intercettare due differenti domande di un pubblico via via più numeroso e fedele: il bisogno di rendere dicibile, a livello medio, il mondo dei sentimenti e quello di trovare sostanziali conferme al proprio modus vivendi. Il ciclo di Ferrante potrebbe rientrare dunque, a pieno diritto, in quella che Gianluigi Simonetti ha definito «letteratura di nobile intrattenimento»:
Questo tipo di letteratura e questo format editoriale di taglio medio […] ha da un lato lo scopo di divertire il lettore, dall’altro quello di istruirlo e più in generale di rassicurarlo: si tratta per lo più di narrativa identitaria, che tende a rafforzare i valori e le identità sociali già presenti, a confermare ciò che già si savi.
In che modo, allora, Storia della bambina perduta capta e intreccia, agli occhi del lettore, evasione e riconoscimento?
Il volume chiude il sipario sulla altalenante ma inossidabile amicizia tra Lila e Elena, sbocciata nella Napoli del secondo dopoguerra tra due bambine di rione e durata una vita tra alterne vicende. Le protagoniste vivono nel quarto volume la loro piena maturità: il meccanismo di immedesimazione, giocato tutto al femminile, è di sicuro effetto, fondato com’è su ingredienti come la solidarietà di genere, l’amore, la maternità.
Il processo di identificazione avviene in primis seguendo la vita sentimentale discontinua e spesso sofferta delle due amiche. In questa fase della storia la più tormentata è di certo Elena, l’io narrante, a causa del suo doppio naufragio sentimentale: la donna, infatti, rompe il primo matrimonio per una storia che sarà ancor più fallimentare. Ma, nel far ciò, Storia della bambina perduta mette Elena – e tutte le sue lettrici con lei – di fronte agli ambigui risultati del processo di emancipazione femminile cui essa aveva contribuito da ragazza. Nino, l’amore idealizzato della sua giovinezza, non solo non rinuncerà mai alla legittima moglie ma tradirà entrambe di continuo. Nel corso della lettura, viene naturale chiedersi come possa Elena, così “moderna”, intelligente e consapevole, accettare e subire le umiliazioni di un uomo tanto meschino: inaffidabile, viene dichiarato moltissime volte anche da Lila, che in passato ne è stata l’amante e ne ha compreso fino in fondo la mediocrità.
Ancora immedesimazione suscita il nucleo narrativo suggerito fin dal titolo di Storia della bambina perduta: la maternità, tema centrale nei testi della Ferrante. Lila e Elena, entrambe già madri, partoriscono a poca distanza l’una dall’altra due figlie femmine. Tina e Imma, come le loro mamme, sono completamente diverse l’una dall’altra, ma indissolubili: le bimbe vivono in appartamenti separati solo da una rampa di scale dopo che Elena, allontanatasi definitivamente da Nino, è tornata a vivere nel rione. La donna guarda Tina, figlia della sua amica, vedendone con chiarezza e senza alcuna gelosia la maggiore spigliatezza, una vivacità mentale più fervida e pronta: è la bimba degna della sua «amica geniale». Lila, del resto, vive il ritorno di Elena nel rione come «un moltiplicatore» di energia: accudisce le tre figlie dell’amica ogniqualvolta questa debba allontanarsi da Napoli per il suo lavoro di scrittrice: «Le tue figlie sono più che figlie mie, portamele quando ti pare e fa le tue cose per tutto il tempo che vuoi»vii, le dice con sincera generosità.
Dal canto suo, la saga nel suo complesso, con i suoi sposalizi, i tradimenti, gli affronti, le violenze e le riconciliazioni tra i membri delle varie famiglie del rione, soddisfa anche quei lettori in cerca del «godimento di passioni forti e un po’ volgari»viii, tanto che Raffaele La Capria ha scritto poco dopo l’uscita dell’ultimo volume (e quindi in tempi lontani dalle polemiche più recenti):
Forse ci sono troppi parenti e parentele, troppi nomi, troppi personaggi secondari ma attivi. A volte il lettore perde il filo, forse così è la vita, specie quella del rione ma un libro vuole una struttura più abbordabileix.
E per i lettori desiderosi di «trame non necessariamente sensate»x e dei coups de théatre Ferrante ordisce un evento narrativo che quasi strizza l’occhio alla tradizione del feuilletton, se non fosse che simili rarissimi eventi sono entrati nelle cronache nere del nostro paese: in una soleggiata domenica di primavera, mentre si trova in strada a poca distanza da Nino, dalla madre e da Imma, Tina, all’età di quattro anni, scompare in modo inspiegabile ma definitivo: «In quel niente si era perso il veicolo, si perse la bambina per sempre»xi.
La sua sparizione si posa come una cappa plumbea su Lila, su Enzo, sulla vicenda tutta. E con Tina il lettore perde a poco a poco anche Lila: il suo carattere, già umorale e spinoso, si inasprisce; il rapporto con Enzo diventa uno stillicidio di litigi, fino alla separazione; le sue giornate si disperdono insensatamente nel cuore della città; il rapporto con Elena si fa ancora più oscillante e discontinuo che in passato. Quest’ultima, infine, decide, complice l’adolescenza delle figlie, di lasciare definitivamente Napoli per Torino. E’ a questo punto che il romanzo si ricongiunge, là dove era cominciato, al «Prologo» dell’Amica geniale (2011). Qui, nelle prime pagine, si apprende che Lila, volutamente, si è «volatilizzata» senza lasciare più alcuna traccia di sé e l’amica Elena, per una sorta di vendetta, decide di narrare la loro lunga storia:
Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.
Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alla spalle.
Mi sono sentita molto arrabbiata.
Vediamo chi la spunta, questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mentexii.
Nel complesso i numerosi fili si riannodano sapientemente e pazientemente in questa saga che ha tutti gli ingredienti sia per concorrere a un riconoscimento letterario sempre più disposto a premiare narrativa «destinata a un soggetto sociale in espansione vertiginosa, cioè appunto il ceto medio»xiii, sia per accedere al successo estero che, soprattutto sul mercato statunitense, fa addirittura parlare di una Ferrante Fever e ci induce a chiederci se il brand Made in Italy stia trovando una sua connotazione anche nel campo editorialexiv.
Oltreoceano i libri della serie spiccano per un’impostazione grafica assai fedele all’originale – decisamente ammiccante verso le lettrici nella scelta dei colori pastello e delle immagini delle copertine – e per un’altrettanto resa rispettosa dei titoli. Ciò che colpisce, tuttavia, negli interventi che si incrociano sul web statunitense, a proposito della saga delle due amiche partenopee, è che i volumi vengano etichettati come Neapolitan Novelsxv, sottotitolo del tutto assente nella versione originaria. Forse è questa forte localizzazione geografica l’unica eccezione che la storia di Lila e Elena concede alla regole della world fiction: ci sembra, infatti, che fuori dai nostri confini sia ancora vivo, dal punto di vista imagologico, un Sud dipinto in modo oleografico e convenzionale (che fa a sua volta parte di un certo, banalizzante Made in Italy all’insegna di “pizza, spaghetti e mandolino”)xvi. Questo fattore, unito a quello scandaglio dei sentimenti in cui Ferrante è così esperta e che fa presa su un pubblico prevalentemente femminile, rappresenta forse una possibile chiave di lettura della Ferrante Fever.
Le polemiche che imperversano da settimane sui quotidiani e sul web nazionale dopo la candidatura di Storia della bambina perduta alla rosa degli aspiranti allo Strega vertono su due questioni che hanno decisamente poco a che fare con considerazioni critiche e giudizi di valore: da una parte il desiderio, dichiarato in Savianoxvii, di «rompere gli equilibri» e le logiche editoriali del premio, dall’altra la presunta incompatibilità tra la partecipazione a questo e la scelta dell’anonimatoxviii.
Superando, viceversa, il livello cronachistico nelle dispute inerenti i “fantasmi dello Strega”, altri potrebbero essere i ragionamenti da fare sul “caso Ferrante” per interrogare una scrittura che fin dalle sue prime prove ha diviso la critica. Alcuni interpreti hanno messo in luce i limiti, soprattutto stilistici, della quadrilogia: Longo parla di «una cascata di aggettivi scontati e accostamenti prevedibilissimi”, La Porta di «un appiattimento della lingua», Onofri di «un libro epigonale, retrò: in nulla partecipe delle inquietudini stilistiche, strutturali, epistemologiche, della narrativa di oggi»xix. Altri, tra cui Fofi, hanno accostato il nome di Ferrante a quello della Morantexx.
L’autrice rispondendogli a questo proposito, ha dichiarato alcuni anni fa:
Lei mi chiede di filiazioni, domanda che mi lusinga così tanto che francamente rischio di dirle bugie pur di consolidare la sua ipotesi. […] Mi piacerebbe che tra L’amore molesto e i libri della Morante ci fosse un nesso anche flebile. Devo però confessarle che molti tratti stilistici di questa autrice mi risultano estranei; che mi sento incapace di concepire storie di ampio respiro; che non apprezzo più da tempo una vita in cui la Letteratura conta più di ogni cosaxxi.
In queste righe Ferrante stessa sembra sintetizzare consapevolmente la propria posizione, sia in termini di poetica che di stile, nel campo letterario odierno: più che di uno scrittore «arrivato nella città per uccidere il drago dell’irrealtà», come lo concepiva la Morante, essa pare riconoscersi – senza per questo sentirsi svilita – nella «quantità di persone che scrivono, stampano i libri, e si potranno distinguere chiamandoli genericamente scriventi»xxii. Tale è il bisogno di senso che la narrativa sull’amore e sui sentimenti evoca che, sopra il livello del rosa seriale e sotto le vette di Alice Munro o di Elsa Morante, si aprono territori intermedi pressoché sconfinatixxiii. La stessa replica di Ferrante potrebbe, dunque, finalmente acquietare gli opposti schieramenti critici e lasciarle indossare una volta per tutte la sua “maschera di ferro” anche nel Ninfeo di Villa Giulia.
____________________
NOTE
i E. Ferrante, Scrivere nascostamente. Lettera a Goffredo Fofi in La frantumaglia, Roma, e/o, 2007, p.59.
ii E. Ferrante, Le lavoranti in La frantumaglia, cit., p.68.
iii «Da ragazza, avevo un’idea totalizzante della letteratura. Scrivere era puntare al massimo, non accontentarsi di risultati intermedi, darsi alla pagina senza mezzi termini. Con gli anni ho combattuto questa sovrastima della scrittura letteraria con una sottostima puntigliosa («ci sono molte altre cose che meritano una dedizione senza limiti”). […] non voglio riaccogliere un’idea della vita dove la buona riuscita di sé è misurata sulla buona riuscita della pagina scritta» in E. Ferrante, Scrivere nascostamente. Lettera a Goffredo Fofi in E. Ferrante, La frantumaglia, cit., p.55.
iv Con il concetto di world fiction si intende una narrativa preconfezionata per un’ampia diffusione in virtù di criteri e moduli estetici collaudati e di strategie in buona parte non letterarie per garantire un poderoso lancio editoriale: ne sono un esempio i romanzi di Paulo Coelho. La world fiction è per lo più caratterizzata da un’ambientazione delle trame in luoghi dal carattere sopranazionale, adatti a un lettore “creolo”, mondializzato e dalla possibile transcodificazione in fiction televisiva e/o cinematografica (come sta avvenendo, in effetti, per il ciclo de L’amica geniale di cui Francesco Piccolo sta scrivendo la sceneggiatura per una serie i cui diritti sono stati acquisisti da Fandango – Rai fiction.) Per il concetto di world fiction si rimanda a H. Serkowska, Il dibattito italiano sulla “letteratura nel mondo” in AA.VV., Proposte per il nostro millennio: la letteratura italiana tra postmodernismo e globalizzazione, Atti del Convegno, Università di Istanbul, 19-20 marzo 2015, in corso di pubblicazione e anche a G. Benvenuti, La letteratura italiana sulla scena del mondo: problemi e prospettive in Narrativa 35/36. La letteratura italiana al tempo della globalizzazione, a cura di S. Contarini, M. Marras, G. Pias, L. Quaquarelli, n. 35, Parigi, Presses Universitaires de Paris Ouest, 2014, pp. 35-47.
v «Casi editoriali – prima che critici – come Non ti muovere, Vita o, da ultimo, Con le peggiori intenzioni sembrano preludere a un ritorno all’ordine: romanzo ben fatto, intreccio, personaggi e lingua tradizionale. Se si guarda alle classifiche, la sensazione è che il punto di riferimento stia diventando la lingua corretta, scorrevole, pacatamente brillante o moderatamente letterata delle traduzioni. Oggi la narrativa italiana vende di più, ma sempre più spesso la sua scrittura somiglia a quella dei libri stranieri così come li conosce il pubblico. Gli editori l’hanno capito e mi sembra di avvertire – nell’editing e prima ancora nella selezione dei testi – una forte spinta all’omologazione sul “traduttese”» dall’intervista di Paolo di Paolo a Giuseppe Antonelli in http://www.mannieditori.it/rassegna/giuseppe-antonelli-lingua-ipermedia-2.
vi G. Simonetti, Declino e fine della letteratura “di una volta”. Alcune tendenze del romanzo italiano contemporaneo in http://ricomporreinfranto.com.
vii E. Ferrante, Storia della bambina perduta, Roma, e/o, 2014, p. 121.
viii E. Ferrante, Scrivere nascostamente. Lettera a Goffredo Fofi in La frantumaglia, cit., p. 59.
ix R. La Capria, Il labirinto nero di Elena Ferrante. A Napoli la vita è un rione infetto, in http://archiviostorico.corriere.it/2014/dicembre/30/labirinto_nero_Elena_Ferrante_Napoli_co_0_20141230_e8703f9c-8ff0-11e4-9345-2ba5002dcfc5.shtml.
x E. Ferrante, Scrivere nascostamente. Lettera a Goffredo Fofi in La frantumaglia, cit., p. 59.
xi E. Ferrante, Storia della bambina perduta, cit., p. 311.
xii E. Ferrante, L’amica geniale, Roma, e/o, 2011, pp. 18-19.
xiii G. Simonetti, Declino e fine della letteratura “di una volta”. Alcune tendenze del romanzo italiano contemporaneo in http://ricomporreinfranto.com.
xiv «A fronte di una concorrenza internazionale decisamente agguerrita, l’editoria italiana è condotta ad applicare le medesime regole, quanto alla produzione, la pubblicizzazione e la distribuzione dei suoi prodotti culturali. […] anche gli editori italiani devono “produrre” un autore, praticare un certo tipo di editing del testo e operare il lancio del libro non più entro i confini culturali del mercato nazionale. Non basterebbe: occorre ormai che l’autore e il libro siano vendibili nel circuito internazionale. Ciò significa spendibilità del prodotto culturale in termini di diritti internazionali, oppure in termini di coedizione» in G. Benvenuti, La letteratura italiana sulla scena del mondo: problemi e prospettive, cit., pp. 35-36.
xv Si vedano, a titolo esemplificativo, i seguenti link: http://www.slate.com/articles/arts/books/2014/09/elena_ferrante_s_those_who_leave_and_those_who_stay_the_third_of_the_neapolitan.single.html; http://artery.wbur.org/2014/09/24/elena-ferrante; http://www.slate.com/blogs/browbeat/2015/02/04/the_paris_review_interviews_elena_ferrante_how_the_literary_magazine_snagged.html?wpsrc=fol_tw.
xvi Si legga a questo proposito l’articolo di Paolo di Paolo comparso su La Stampa lo scorso ottobre in http://www.lastampa.it/2014/10/13/cultura/il-caso-ferrante-il-romanzo-italiano-secondo-il-new-yorker-k6z6crdyRB5A6Z4ycRUrIO/pagina.html.
xvii «Allo Strega siamo affezionati perché fa parte della nostra storia, ma negli anni ha perso fascino, perché ormai è diventato un gioco sfacciatamente combinato. Io propongo te perché ti leggo e propongo te perché hai avuto l’attenzione della critica internazionale, cosa tutt’altro che scontata. Propongo te perché credo che la tua presenza possa aiutare questo premio a essere di nuovo qualcosa di vitale e genuino, non solo uno scambio di voti e favori» in http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/21/news/roberto_saviano_cara_ferrante_ti_candido_al_premio_strega-107829542/. Nella replica Ferrante ribatte, accettando la sfida: «Ma tu giustamente non parli né di cinquina, né di vittoria, ma di “sparigliare le carte”, espressione da tavolo da gioco che mi attrae. […] È giusto e urgente, a volte, sparigliare le carte, ma le carte è ancora più giusto leggerle e farle leggere” in http://www.repubblica.it/cultura/2015/02/24/news/elena_ferrante_accetto_la_candidatura_allo_strega-108043390/.
xviii L’attacco forse più vibrante e maligno viene dal Corriere della Sera dove Sebastiano Vassalli, rispetto ad un’eventuale vittoria dell’autrice-fantasma – etichettata come «donnarella tremebonda» – dichiara di preferire lo scrittore peggiore, purché in carne e ossa in http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/strega-fantasmi-sebastiano-vassalli-piuttosto-che-autore-anonimo-97609.htm. A questa affermazione risponde polemicamente Loredana Lipperini dal suo blog in La donnarella e lo scrittore in http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2015/04/02/la-donnarella-e-lo-scrittore/. Anche Luca Ricci non ha risparmiato i suoi strali alla polemica in corso in un Abbecedario per lo Strega pubblicato sul Messaggero in http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/libri/elena-ferrante-premio-strega/1209600.shtml.
xix Le dichiarazioni sono state raccolte e riportate da Luca Ricci sulle pagine del Messaggero in http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/libri/elena-ferrante-opinione-critici/1248181.shtml.
xx Si veda la domanda n. 3 dell’intervista epistolare tra Fofi e Ferrante in E. Ferrante, Scrivere nascostamente. Lettera a Goffredo Fofi in E. Ferrante, La frantumaglia, cit., p.65.
xxi E. Ferrante, La frantumaglia, cit., p. 57 e p. 59.
xxii Le due brevi citazioni sono tratte da E. Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987, pp.110-111.
xxiii Si veda V. Pigmei, Che pena scriver d’amore in http://www.minimaetmoralia.it/wp/che-pena-scriver-damore/.
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Finalmente un intervento sensato, ben articolato, ed equilibrato sulla Ferrante e la “Ferrante Fever” negli USA! Grazie!