La favola amara di Aramburu
Figli della favola, una difficile gestazione
A sette anni di distanza da Patria, Aramburu pubblica Figli della favola, un nuovo libro per parlarci ancora dei Paesi baschi. In realtà i due romanzi – rivela l’autore in un’intervista – sono stati scritti in contemporanea ma, lasciandosi consigliare da chi aveva vissuto da vicino l’inferno del terrorismo, e temendo anche di acuire il dolore delle vittime con un libro che poteva risultare divertente, nel 2016 dà la priorità a Patria. Scelta senza dubbio appropriata, perché Patria è uno dei grandi romanzi dell’ultimo decennio, ed è un’opera che sa raccontare con grande efficacia il dolore di una fase storica, mettendo a nudo le lacerazioni che quel dolore ha provocato nel tessuto sociale di un’intera comunità.
Figli della favola, uscito nel 2023 e tradotto in Italia per Guanda da Bruno Arpaia, anche se torna su tematiche familiari alla scrittura di Araburu, non racconta le derive violente dei terroristi (non viene portato a termine nemmeno un attentato), e predilige, invece, una narrazione ironica. Tuttavia non intende eludere un dramma reale attraverso l’espediente umoristico, non sottovaluta la sofferenza e la tragedia di chi ha perso una persona cara, tantomeno intende ridicolizzare; quello di Aramburu è semmai un umorismo crudele che vuole rendere cosciente il lettore. Forse è proprio questa consapevolezza a dissolvere ogni dubbio morale di Aramburu, convincendolo, così, a riprendere in mano il romanzo.
Se Patria racconta dunque la devastazione dell’ideologia armata dalla prospettiva di chi subisce il fanatismo, Figli della favola intende ribaltare la situazione offrendo ai lettori l’altra faccia della stessa realtà: la povertà intellettuale che sta alla base di ogni fanatismo.
«Ragazzino, faremo la storia»
Protagonisti della vicenda sono Joseba e Asier, due giovani baschi che decidono di lasciare tutto per entrare nell’ETA e abbracciare la lotta armata. Vengono spediti in una fattoria avicola nella Francia basca, dove inizia il loro addestramento alle armi. O forse è più corretto dire l’attesa dell’addestramento, in quanto ben presto l’organizzazione indipendentista annuncia la fine della lotta armata, lo scioglimento delle cellule e la cessazione di ogni attività. I due giovani, abbandonati in mezzo alle galline e ai due padroni di casa, il fattore Fabien, anziano e poco desideroso di vivere, e la moglie Guillemette, donna libertina e rozza, si ritrovano così senza più uno scopo. Perduti gli ideali nazionalisti che fino a quel momento legittimavano tutti i crimini, rimasti senza soldi e senza prospettive, Joseba e Asier decidono tuttavia di dare vita ad una nuova organizzazione formata soltanto da loro due, che inizialmente chiameranno «commando Tarn» come il fiume che scorre in quelle terre, e successivamente GDG (Geurea da garaipena, «La vittoria è nostra»). Ha inizio così un’avventura che vedrà i protagonisti coinvolti in una serie di eventi tra il drammatico e il comico. Trascorreranno le loro giornate immaginando di addestrarsi per qualche missione (ekintza), pur non avendo un’arma, conosceranno Txalupa, un militante che li affascina con i suoi racconti e con le avventure di azioni passate, faranno progetti per salvare e liberare Euskal Herria (il paese basco) praticando allenamento fisico e preparazione militare, pur utilizzando scope di saggina al posto dei fucili e mimando pistole con le dita. Mentre giocano ingenuamente alla guerra, la realtà scorre tuttavia sulle loro vite e sulla vita in generale, aspetto che loro sembrano invece trascurare: in nome della lotta armata Joseba ha infatti abbandonato la sua compagna Karmele mentre era incinta, e Asier, sostenitore della necessità di diffidare delle donne, e pronto a ribadire continuamente che portano solo guai e tolgono la libertà, perde anche l’unica occasione di amore. Ma le rinunce, le privazioni e i sospetti che caratterizzano l’esistenza dei due giovani sono soltanto fantasmi di una realtà che non esiste, di un pericolo cessato, perché nessuno li sta realmente cercando: «La sua unica preoccupazione: non suscitare sospetti. […] Non devono prendermi per un ladro. Io, ladro? Io milito in un’ideologia» (p. 59)
Aramburu costruisce una parodia grottesca e tragicomica, esemplificata dal divario tra le aspirazioni dei due protagonisti, convinti di essere degli eroi che agiscono per creare quella Storia («Ragazzino, faremo la storia») che «i ragazzini studieranno nelle ikastolas [scuole]», e i gesti privi di senso che compiono all’interno di una realtà piuttosto squallida e banale.
Joseba e Asier sono due ingenui Don Chisciotte che combattono per il bene del loro popolo («Per il bene del nostro popolo, tu e io continueremo la lotta armata», p. 61), e in nome del quale sono pronti ad affrontare ogni difficoltà («Bisogna essere in forma. Per Euskal Herria, Joseba. Per il nostro popolo. Ogni sacrificio è poco», p. 26). Per comprendere appieno il dramma di cui si fanno interpreti, però, è necessario collocare la loro vicenda nella storia del loro paese, o, più generalmente, nella mentalità di chi è stato allevato nell’osservanza stretta di un nazionalismo rigido e superato dalla Storia, ma costruito su «favole» che risultano difficili da sradicare, soprattutto se attorno ad esse si è sviluppata l’identità di un popolo («Ci adeguiamo a un ordine. Agiamo per motivazioni concrete e razionali, e nemmeno per beneficio personale. Alcuni ci dipingono come dei selvaggi, come persone senz’anima, senza formazione né cultura. Hanno interesse a dichiararci pazzi. Ci chiameranno assassini. Quanto ci scommetti? Lo facevano già con l’ETA. Noi non ci facciamo caso. Sono dei fascisti», p.185).
Pur inseguendo gli stessi ideali e condividendo la stessa drammatica condizione, i protagonisti della storia esprimono due diversi visioni del mondo: Asier, più rude e solitario, ma inflessibile rispetto alle proprie certezze, è convinto che la lotta armata sia l’unica strada da percorrere per la libertà, e forse anche per ottenere un risarcimento da una vita poco gratificante («Abbiamo gioventù, energia e fede. Amiamo il nostro popolo. Chi può fermarci? […]Tu e io contro lo Stato spagnolo e contro le forze di occupazione della nostra patria», p. 62); Joseba, più incerto e combattuto tra il desiderio di rivedere la famiglia («Penso a Karmele. Magari ha già partorito», p. 21), e il bisogno di appartenenza all’organizzazione, non resta tuttavia passivo di fronte al tradimento dell’ETA verso il popolo basco e alle accuse di ingenuità nei loro confronti: («Ti sembriamo ingenui? Be’, ti sbagli. Né ingenui né pazzi. La nostra idea è farci conoscere mediante qualche azione. Non sappiamo ancora quale. Non abbiamo nemmeno armi. Qualcosa faremo, qualcosa di simbolico, per provare. Allora si vedrà. Siamo soli? Non siamo soli? C’è sostegno per una nuova offensiva del popolo basco? Non c’è? Ci fermiamo. Però, se c’è, avanti tutta», p. 195).
Dobbiamo diffidare delle favole?
Emerge, come già in Patria, l’abilità di Aramburu nella rappresentazione psicologica dei personaggi e nel descrivere le dinamiche relazionali interne alla vicenda. Relazioni che evolvono, nonostante la staticità della situazione, grazie soprattutto all’espressività dei dialoghi, nei quali l’autore raggiunge uno dei punti più alti della propria abilità narrativa. La vita di questa scrittura è nei dialoghi: quelli che raccontano la psicologia dei protagonisti, e quelli che scandiscono lo scorrere del tempo e della Storia. Quest’ultima non è una semplice cornice all’esilio e all’attesa di Joseba e Asier, ma una dimensione necessaria per comprendere la vicenda, un contesto senza il quale la «favola» di Aramburu, ciò che di quella favola è rimasto, non sarebbe credibile e della quale non potremmo prendere coscienza.
La favola di cui parla questo libro è quella che nei Paesi baschi ha tenuto in scacco i sogni di diverse generazioni, ma più generalmente è la favola di ogni nazionalismo estremo che sfocia nel terrorismo, dimenticandosi di difendere i valori umanistici e democratici. E i figli della favola sono appunto i protagonisti di questa vicenda, sedotti dall’ideologia e dal sogno di una vita diversa come i tanti giovani che diventando vittime di radicalismi estremi.
Dobbiamo dunque diffidare delle favole? Non è questo il messaggio che vuole comunicare di Aramburu, anzi, grazie alle favole possiamo comprendere meglio il mondo e la realtà che ci circonda, e con essi il comportamento umano. E poi, non sono forse le favole ad insegnarci una morale? Dobbiamo semmai riconoscere le favole buone da quelle cattive, come ha dichiarato Aramburu in un’intervista rilasciata in occasione del Salone del libro di Torino, perché le favole più pericolose, oggi come ieri, sono quelle che non ammettono repliche né sfumature, che inducono al fanatismo e a quello che è successo tante volte nella storia dell’umanità: il diritto di danneggiare gli altri, di annientarli nel nome di una fede, di una causa, di un’utopia.
La storia di Aramburu ci parla di dolore, di sofferenza e di ingiustizia, ma lo fa senza retorica, affidandosi all’ironia e all’umorismo. L’umorismo, del resto, ha la capacità di ridicolizzare il male e dare rilievo alla comicità, come accade ai due protagonisti del libro, che donchisciottescamente intraprendono battaglie assurde e perse in partenza in nome di un’ideologia che li ha lasciati definitivamente soli. Il sorriso che suscitano i personaggi è, però, amaro. Guida infatti la narrazione un’ironia amara che indubbiamente aiuta a stabilire una distanza critica rispetto alla vicenda e soprattutto rispetto all’inconsapevolezza di Asier e Joseba, ma non esclude la rappresentazione del dramma che si cela nella vicenda di due giovani che inseguono un’ideale imposto da una società che non dà loro valore e nella quale sembra impossibile trovare il proprio posto. La commedia umoristica lascia quindi il posto alla tragedia quando entrambi cominciano a capire che la loro lotta è irrealizzabile e la loro esistenza è priva di senso, perché non esistono più valori saldi a cui aggrapparsi. La tragedia al centro del romanzo nasce dunque dall’assenza di una comunità e di una Patria, dall’impossibilità di avere un ruolo all’interno della società.
Aramburu e Garrone, un parallelismo
Anche nel film di Garrone Io capitano i protagonisti sono due giovanissimi che affrontano l’odissea del viaggio per inseguire un ideale e realizzare un sogno. Ma la scelta di raccontare la tragedia della migrazione attraverso una forma di realismo magico in cui si mescolano realismo e favola (trasformando per esempio il giovane capitano in una sorta di eroe da favola e tralasciando di raccontare cosa succede ai migranti quando sbarcano sulle coste italiane) non è un limite dell’opera. Il viaggio dei due esuli senegalesi, Seydou e Moussa, vuole essere infatti l’avventura di due ragazzi che intendono realizzare i loro sogni, che vogliono inseguire il loro ideale di giustizia, magari quello di «firmare autografi ai bianchi». È un tentativo di dare finalmente voce a chi di solito non ce l’ha, a giovani vittime, come Joseba e Asier, di una società che non sa apprezzarli. Rifugiarsi nell’illusione e affrontare l’odissea del viaggio sono le due facce della stessa medaglia: l’urlo di dolore di chi non intende arrendersi a diventare un semplice capitale umano.
In entrambe le opere ci sono il dolore e il dramma: la guerra e il terrorismo nel romanzo Figli della favola, l’odissea della migrazione nel film Io capitano. Aramburu si serve dell’umorismo, Garrone si affida all’epica, entrambi per raccontare una tragedia e un’ingiustizia. Del resto non si può trattare una tragedia contemporanea con il distacco dell’umorismo (non per niente Aramburu deve fare i conti con la propria coscienza prima di decidersi alla pubblicazione di Figli della favola). Anche perché la forza dell’humour sta proprio nella capacità di delegittimare il potere, ma dove ci sono ferite aperte, dove il dolore è la quotidianità, il potere si nutre di paura e di sottomissione.
Si può tuttavia raccontare un dramma e cercare di risvegliare le coscienze senza ricorrere necessariamente a una retorica moralistica e paternalistica, ma semplicemente narrando un’avventura epica o una favola umoristica. C’è da sperare che succeda.
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